L’esperienza della Norvegia suggerisce che l’introduzione di incentivi finanziari può migliorare la gestione e la qualità dei servizi sanitari, inclusa la riduzione delle liste di attesa. Mostra anche però quanto sia improbabile che aumenti di produttività possano da soli finanziare una più vasta offerta di sevizi ospedalieri migliori. E in assenza di stringenti vincoli di bilancio, a livello locale o centrale, vi è il rischio che gli stessi incentivi inducano costi che, almeno ex-ante, sono giudicati eccessivi dalla società.
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Il processo formale di trasformazione delle organizzazioni sanitarie pubbliche in aziende si è compiuto. Ma nella sostanza gli obiettivi della riforma sono stati elusi e il sistema attuale è inefficiente e costoso. Come risolvere la situazione? Indispensabili il ritorno al rispetto dei requisiti di professionalità dei manager delle aziende sanitarie e la sospensione delle pratiche di lottizzazione. Ma soprattutto si dovrebbe arrivare alla separazione del soggetto che presta i servizi sanitari da quello che li acquista per conto dei cittadini.
L’indagine conoscitiva sulla legge 194 dà risultati interessanti. In Italia, dal 1983 al 2003 le interruzioni volontarie di gravidanza si sono ridotte in valore assoluto del 43,5 per cento, mentre il tasso di abortività è tra i più bassi del mondo. Il calo però non riguarda le donne con cittadinanza straniera. Gli aborti occupano mediamente meno del 10 per cento dellattività dei consultori. L’altro 90 per cento è dedicato alla procreazione cosciente e responsabile, alle attività di prevenzione oncologica e ai percorsi di preparazione al parto.
Con le riforme degli anni Novanta le politiche sanitarie hanno puntato a spostare il luogo di cura dall’ospedale al territorio. Ma se si vuole veramente provare a ridurre gli sprechi e a migliorare l’efficienza della spesa, diventa ineludibile una maggiore attenzione a tre aspetti microeconomici: la dimensione dei presidi, la riduzione della capacità produttiva solo attraverso la diminuzione dei posti letto, lasciando invariato il personale, e il comportamento degli ospedali rispetto agli incentivi forniti dai meccanismi di rimborso.
L’influenza aviaria ha già contagiato tre continenti. La forte riduzione dei consumi di pollo ha certamente dato luogo a redistribuzioni nei flussi di spesa a vantaggio di altri. Gli aiuti al settore potrebbero perciò prendere la forma di mirati prelievi solidaristici. La strategia di produrre antivirale sulla base della sola domanda di mercato è del tutto inadeguata. L’Unione Europea deve farsi promotrice di azioni per attivarne immediatamente la produzione su vasta scala. Mettendo in pratica quel principio di precauzione enunciato nella Costituzione europea.
In meno di una settimana dal suo arrivo in Turchia, il virus A(H5N1) ha contagiato 15 persone, uccidendone 2, e infettato un numero impressionante di volatili in 18 aree geograficamente distanti tra loro. Questa particolare aggressività del virus dellinfluenza aviaria preoccupa gli scienziati e impone di riconsiderare le stime sui tempi di diffusione del contagio. Inoltre ci si dovrebbe chiedere se le misure adottate dalla Roche, raddoppio della produzione e accordi di sub-licenza firmati nello scorso dicembre, siano sufficienti a garantire quantità adeguate di Tamiflu da utilizzare nella cura e nella profilassi dellinfluenza aviaria, almeno fino a che non risulti disponibile un vaccino efficace, o se invece non permangano quelle strozzature nellofferta, più volte segnalate, che richiederebbero misure ben più incisive e tempestive.
In attesa del vaccino, per contrastare l’influenza aviaria i Governi hanno un solo strumento: dotarsi di scorte diversificate e quantitativamente sufficienti di antivirali. L’offerta è però limitata. Gli organismi sovra-nazionali dovrebbero perciò assumersi la responsabilità diretta della produzione. Avrebbero così l’occasione per verificare la capacità di risposta tempestiva delle strutture internazionali a emergenze sanitarie e umanitarie mondiali. Non farlo significa rendere più probabili gli scenari peggiori, con costi, anche economici, altissimi.
Debellare l’Aids è una priorità ed è considerato l’intervento dai maggiori benefici economici in termini assoluti. Eppure il vaccino ancora non cè. Perché? Sicuramente ricerca e sviluppo sono estremamente costosi. Ma soprattutto è diversa la redditività di un farmaco post-contagio e di un vaccino. E dunque per le imprese farmaceutiche è più conveniente investire nella ricerca di cure. A questo fallimento del mercato potrebbe rimediare l’operatore pubblico. Un intervento giustificato anche dagli alti costi di prevenzione e cura della malattia.
Anche il solo timore di una pandemia genera rilevanti effetti economici negativi. L’unica strategia efficace per contenere l’allarmismo è agire in modo rapido per assicurare la produzione in quantità adeguata dei farmaci in grado di prevenire o contrastare il virus. Nel caso dell’influenza aviaria i ritardi sono già gravi a livello nazionale e internazionale. Si potrebbe coprire il fabbisogno di antivirali e antiepidemici indotto da profilassi e trattamenti di massa ricorrendo a unità di produzione sotto la diretta responsabilità del commissario europeo alla Salute.
Il recente allarme scatenato dal virus A(H5N1), evidenzia lindisponibilità delle principali industrie farmaceutiche a sostenere i rischi connessi allincertezza sulla domanda futura. In presenza di una domanda di mercato incerta, compito delle autorità pubbliche dovrebbe essere quello di promuovere meccanismi che incentivino le imprese private ad attivare linee di ricerca e di produzione.