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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 42 di 71

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Innanzi tutto, vogliamo ringraziare i tantissimi lettori che, con i loro interessanti commenti interessanti, ci consentono di spiegare meglio alcuni punti che per motivi di spazio avevamo solo accennato nel nostro articolo.

CONSEGUENZE SOCIALI DEL FUORICORSISMO

Molti lettori si chiedono: Perché il fuoricorsismo dovrebbe essere un problema?
Siamo d’accordo sul fatto che gli studenti fuoricorso non incidano più di tanto sulle dotazioni di capitale fisico e umano delle università, dal momento che frequentano poco. È anche vero che il costo aggiuntivo di studenti in più ai corsi o agli esami è zero, ma la massa dei fuoricorso è così rilevante che incide inevitabilmente nell’organizzazione di corsi, esami, orari di ricevimento e di conseguenza anche nelle attività di ricerca. La quota dei fuoricorso, pertanto, riduce la produttività  sia degli studenti in corso sia dei docenti. Esiste, poi, un costo vivo e monetizzabile. Ogni anno il Ministero stanzia fondi destinati specificatamente alle attività di tutorato in favore dei fuoricorso che (ancorché insufficienti) potrebbero essere indirizzati ad altre iniziative.
C’è poi un discorso più ampio da fare. Il fuoricorsismo è una forma di spreco delle risorse pubbliche. Le tasse degli studenti coprono a malapena il 10 per cento del costo complessivo di uno studente universitario. Il resto del costo è sostenuto dalla fiscalità generale, che lo assume con la finalità di accrescere la dotazione di capitale umano nella società – in quanto ad essa sono associate le esternalità positive – e migliorare le prospettive di accesso al mercato del lavoro e reddito degli individui. Più alta è l’offerta di capitale umano e la qualità dello stesso, maggiore è anche lo sviluppo della società nel suo complesso. La formazione di un laureato non è quindi il risultato solo di scelte individuali, ma richiede anche un investimento pubblico che trova la sua giustificazione nei rendimenti sociali attesi. Ma se i fuoricorso acquisiscono una istruzione di minore qualità, quando non abbandonano come accade sempre più spesso, l’investimento fatto su di loro da parte della collettività si trasforma in spreco di risorse pubbliche.

LE CONSEGUENZE INDIVIDUALI

La minore qualità dell’istruzione acquisita dai fuoricorso si comprende se si pensa che il capitale umano sia soggetto a forte obsolescenza. Per verificare la perdita di valore del capitale umano acquisito dai fuoricorso, si può vedere come cambia il rendimento della loro istruzione rispetto a quella degli studenti che si laureano in corso. Un recente lavoro di Aina e Casalone (1) mostra che i laureati del vecchio ordinamento (VO), osservati a 1-3-5 anni dalla laurea hanno una minore probabilità di trovare un impiego se il ritardo maturato è superiore ai due anni, segnalando come il lato della domanda discrimini tra i laureati solo oltre una determinata soglia, riconoscendo come fisiologico nel sistema italiano laurearsi non in tempo (l’inserimento nel mercato del lavoro è però più favorevole per i fuoricorso che, malgrado il ritardo elevato accumulato, abbiano maturato esperienze lavorative durante l’università). Si evidenzia, inoltre, come il ritardo comporti una penalizzazione salariale che risulta più marcata quando il ritardo è significativo. Considerando la tendenza comune per i laureati del VO a completare gli studi con 1-2 anni di fuoricorso, la penalizzazione emerge dal terzo anno di ritardo in poi. Tale penalizzazione, fra l’altro, persiste nel tempo, anziché ridursi come dovrebbe accadere nel caso in cui il laurearsi (molto) fuoricorso rappresentasse una sorta di stigma temporaneo che ha effetti nella fase di ingresso nel mercato del lavoro ma che svanisce nel momento in cui si è occupati.  Questo risultato evidenzia pertanto  che coloro che si laureano con molto ritardo non sono studenti che approfondiscono di più (magari è così ma non possiamo saperlo) ma sono studenti meno bravi/organizzati che anche nel mercato del lavoro appaiono come lavoratori meno “produttivi”. Di conseguenza il mercato li ripaga offrendo loro salari più bassi e una carriera retributiva meno dinamica. Tuttavia il fuoricorso se associato a studenti lavoratori (ovvero che hanno maturato qualche esperienza lavorativa, seppur non continuativa) comporta una minore  penalizzazione, in quanto il mercato del lavoro riconosce un valore monetario aggiuntivo all’esperienza lavorativa già conseguita. Sembra dunque emergere una sorta di mix ottimale tra ritardo alla laurea ed esperienza lavorativa che consente di massimizzare il rendimento del titolo di studio.
Un altro studio recente (2) mostra che essere fuoricorso aumenta la probabilità di essere occupati in un posto di lavoro per il quale è sufficiente un titolo inferiore alla laurea (cosiddetta overeducation) e di percepire un salario del 7 per cento circa inferiore al salario medio di un laureato.
Ciò suggerisce quindi che la tesi, stranamente molto diffusa, secondo cui laurearsi velocemente comporta uno scadimento qualitativo della formazione è smentita dall’evidenza empirica. A tal fine l’idea che più tempo si impiega per laurearsi migliore è la preparazione vale a due condizioni: la prima è che il tempo in più sia effettivamente utilizzato per studiare, ma questo spesso non è il caso dei fuoricorso; la seconda è che ci si specializzi, piuttosto che studiare nuove materie solo a livello introduttivo.  La riforma del “3+2” offriva la prospettiva di dividere la formazione di base da quella specialistica proprio per consentire un maggiore approfondimento ed un innalzamento qualitativo della formazione terziaria.  Purtroppo, però, come notano anche molti lettori, il biennio specialistico è stato interpretato dai docenti come un mero proseguimento del percorso iniziato nel triennio. Ciò, unitamente al mancato riconoscimento della laurea triennale nel mondo del lavoro, ha fatto in buona parte fallire la riforma, con la conseguenza che il percorso di studi anziché accorciarsi si è ulteriormente allungato.

ALTRE CONSEGUENZE NEGATIVE

È vero che la vita media si è allungata, ma rinviare la laurea, spesso per diversi anni, comporta anche la tendenza a posticipare il momento in cui si costituisce una famiglia e si fanno figli, con effetti evidenti anche sul tasso di natalità. Non va dimenticato, poi, che ai tempi lunghissimi del conseguimento del titolo universitario si aggiungono quelli non meno lunghi della transizione dall’università al lavoro.

ANCORA SULLE CAUSE

Siamo d’accordo sul fatto che il nostro articolo non prende in considerazione tutte le possibili cause del fenomeno. In particolare un punto sollevato da alcuni lettori ci sembra piuttosto rilevante: quale l’eccessiva mole di lavoro richiesta agli studenti per laurearsi. Questo può essere il caso di alcune singole realtà che non hanno voluto rimodulare i programmi degli insegnamenti in modo da renderli coerenti con il percorso del 3+2. Tuttavia occorre notare che lo strumento dei crediti formativi universitari (cosiddetti CFU) è nato proprio con questo obiettivo, ovvero rendere i carichi di lavoro sostenibili e, soprattutto, uniformi a livello nazionale ed europeo (questo facilita il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero e dei singoli esami sostenuti ad esempio con il programma Erasmus). Fra l’altro poco importa (o dovrebbe importare) in quanti pezzetti viene smembrato un singolo esame. Per laurearsi alla laurea triennale lo studente deve aver conseguito 180 CFU e non può aver sostenuto più di 20 esami (chi scrive di 40 esami per conseguire la laurea confonde l’esame vero e proprio – quello registrato sul libretto per intenderci – con gli esoneri/parziali, ecc.).  Lo strumento del credito è utile però anche per capire perché ci sono tanti studenti che non si laureano in tempo. Considerando che in media occorre conseguire 60 CFU l’anno e che ad ogni CFU dovrebbero corrispondere 25 ore di lavoro per lo studente (in cui sono comprese le ore di didattica frontale), risulta che per superare tutti gli esami di un anno lo studente “medio” dovrebbe impegnarsi per 1500 ore l’anno (60×25). Considerato che, secondo i dati OCSE, il numero medio di ore lavorate all’anno da un lavoratore italiano è pari a poco meno di 1800, di fatto lo studio universitario – se si vuole rimanere al passo con gli esami – è un impegno a tempo pieno e, di conseguenza, lo spazio per attività extra (lavorative e non) è davvero limitato. Forse di questo molti studenti, all’atto dell’iscrizione, non si rendono pienamente conto .
Veniamo al ruolo dell’orientamento. Noi non conosciamo studi che leghino l’efficacia dell’orientamento con le performance degli studenti, anche se siamo d’accordo sulla loro utilità. Volutamente non siamo entrati nel dibattito su come dovrebbe essere organizzato l’orientamento perché sappiamo essere un tema estremamente complesso. Certamente un’attività di orientamento più efficace avrebbe – fra gli altri – il merito di rendere le scelte dei ragazzi più slegate dalla dotazione di capitale culturale delle famiglie di provenienza e, quindi, aumentare l’efficacia del sistema formativo nel suo complesso.
Quanto al problema che sarebbe rappresentato dallo scarso numero di appelli noi pensiamo l’esatto contrario. Riteniamo infatti che avere più possibilità di dare gli esami durante l’anno in realtà sia deleterio per gli studenti, specie per quelli meno organizzati/motivati che posticipano gli esami o li tentano varie volte. Nella maggior parte dei paesi gli studenti devono sostenere gli esami alla fine del corso e hanno poi una sola possibilità di recupero nel caso non li superassero. In questo modo è impossibile posticipare e si capisce subito chi è in grado di proseguire con il percorso di studi e chi no.

(1) Aina, C. e  Casalone, G. “Does  time-to-degree matter? The effect of delayed graduation on employment and wages”, AlmaLaurea Working Papers n° 38, 2011
(2) Aina, C. e F. Pastore, 2012, “Delayed Graduation and Overeducation: A Test of the Human Capital Model versus the Screening Hypothesis”, IZA discussion paper, n° 6413

MENO VALORE ALLA LAUREA E PIÙ ACCESSO ALLE PROFESSIONI

La consultazione del governo sul valore legale del titolo di studio chiede come favorire la competizione al rialzo tra le università sul modello anglosassone e così superare la cultura del “pezzo di carta”. C’è però il rischio di incagliarsi su meccanismi tecnici pericolosi, come il ripesamento dei titoli e voti di laurea. La priorità invece è aprire ai giovani l’accesso a concorsi e professioni, valorizzando la varietà dei percorsi individuali di studio.

ALLE RADICI DEL FUORICORSISMO

In Italia, gli studenti universitari fuoricorso sono una quota pari al 40 per cento degli iscritti. È un fenomeno dovuto a diversi fattori: dal sistema di regole di accesso e di prosecuzione dell’università alle modalità di finanziamento degli atenei, ai rendimenti della laurea sul mercato del lavoro. Le soluzioni, allora, dovrebbero puntare a rafforzare le attività di orientamento già negli ultimi anni delle scuole superiori, a ripensare l’impianto delle tasse universitarie e a migliorare nettamente i collegamenti fra sistema d’istruzione e mercato del lavoro.

LA LUNGA ATTESA DELLA RIFORMA GELMINI

La riforma dell’università è stata approvata più di un anno fa. Ma la legge 240 prevede un complesso intreccio di norme, già approvate o ancora da approvare, che rendono impossibile per ora un qualsiasi giudizio sui suoi effetti. Servono almeno altri tre o quattro anni perché entri a pieno regime. E dunque per capire se, come e dove il disegno riformatore inciderà effettivamente sul funzionamento del sistema universitario. Una lunga attesa sia per chi ha accolto con favore la legge Gelmini sia per chi ne ha rilevato fin dall’inizio alcune evidenti problematicità.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Cari Lettori,

Grazie di avere commentato così numerosi il mio articolo sulla scelta della facoltà universitaria. Rispondo brevemente, e in maniera collettiva, per ragioni di tempo e spazio.
Il titolo e il riassunto iniziale —che non ho scelto: è responsabilità degli editori— suggeriscono impropriamente che l’articolo riguardi la crescita dell’Italia. Non era questo il mio intendimento. L’articolo era diretto al singolo individuo e riguardava l’opportunità economica per questo individuo di scegliere una facoltà universitaria piuttosto che un’altra. Gli effetti sociali delle singole scelte non erano il tema di questo articolo. In particolare, non credo che semplicemente cambiando la distribuzione delle facoltà universitarie scelte dalla popolazione si risolverebbe il problema della crescita. Mi dispiace del fraintendimento.
Il paragone con Singapore ha forse contribuito a questo fraintendimento. La mia intenzione non era di suggerire che l’Italia debba diventare tale e quale a Singapore in ogni suo aspetto. Il punto era solo di mostrare che ci sono società avanzate e di successo che hanno una allocazione dei talenti molto diversa da quella italiana. E che, per queste società, il capitale umano è la base del modello economico. Questo mi sembra un punto importante. E’ interessante anche comparare con modelli diversi. Gli Stati Uniti, dal punto di vista di scelta delle materie all’università, assomigliano più all’Italia umanistica che al Singapore tecnico. Di conseguenza gli USA producono pochi cervelli “autoctoni” in materie tecniche, e devono importarne dall’estero.
Alcuni lettori hanno forse interpretato l’articolo come una mancanza di rispetto nei confronti della cultura umanistica. Nulla di più lontano dalle mie intenzioni. Sono un appassionato dell’arte, della musica, ecc. E ritengo che le arti e le scienze umane e sociali siano un patrimonio importantissimo. Soltanto osservo che si può apprezzare la cultura senza farne una professione. Si può anche farne una professione, beninteso, ed è importante che qualcuno lo faccia. La questione è: quanti, in percentuale.
Alcuni lettori rivendicano il patrimonio culturale Italiano “che tutto il mondo ci invidia” a sostegno della tesi che va bene laurearsi in discipline umanistiche. Sono d’accordo che il turismo sia una risorsa importante per l’Italia. Non ne segue necessariamente che laurearsi in discipline umanistiche sia una scelta di carriera vincente (in media).
Un aspetto importante che non ho toccato nell’articolo è la vendibilità all’estero di un profilo professionale. Mi pare che discipline scientifiche ed economiche siano più trasportabili, in media, e quindi offrano un ulteriore vantaggio rispetto a discipline meno trasportabili (legge, per fare un esempio). Un lavoro all’estero, sebbene dal punto di vista dell’Italia sia una perdita (abbiamo speso soldi per istruire una persona che poi non produce in Italia), dal punto di vista individuale è spesso un ottimo lavoro.

Grazie dell’attenzione.

RICETTE PER LA CRESCITA: PIÙ INGEGNERI E MENO FILOSOFI

La mancanza di sbocchi lavorativi per i laureati italiani è un problema serio. Tuttavia, a renderlo ancora più grave contribuiscono le scelte dei giovani, che spesso si orientano verso le facoltà umanistiche tralasciando quelle scientifiche o manageriali. Dovremmo invece seguire l’esempio di Singapore, un paese che non ha risorse naturali, ma che negli ultimi anni è cresciuto più dell’Italia. Perché ha investito nel capitale umano dei suoi giovani e oggi produce, in proporzione, il doppio dei nostri ingegneri e manager, un ottavo dei nostri avvocati e un quarto dei nostri umanisti.

LETTERA DALL’UNIVERSITÀ DELL’INSUBRIA

Troviamo giusto che i mezzi di informazione si occupino delle vicende dell’Università, anche quando queste non sono le più esaltanti. Niente da dire, quindi, a proposito dell’attenzione che alcuni giornali,siti ecc. hanno recentemente dedicato a un concorso svoltosi presso la Facoltà di Economia dell’Università dell’Insubria (dove lavoriamo in qualità di ricercatori e professori) se non un generale apprezzamento per il ruolo positivo che spesso l’informazione svolge appunto nel portare alla luce situazioni davvero imbarazzanti.
Formalmente – veniamo adesso al concorso in questione e al commento che gli ha dedicato Fausto Panunzi – la Facoltà non c’entra con gli esiti della valutazione : c’è una commissione che valuta e c’è un rettore che sancisce  la legittimità della procedura. La Facoltà non può che prenderne atto. Tuttavia c’è un obiettivo di trasparenza e di massima correttezza che la Facoltà di Economia dell’Insubria vuole perseguire.

Crediamo che vada letta in tal senso   la sua probabile decisione di non chiedere (in questo caso) l’anticipazione della presa di servizio del vincitore della valutazione comparativa in oggetto, in modo da lasciare il tempo adeguato perché ogni ombra sia dissipata. Se così sarà, avremmo da parte della Facoltà un modo per schierarsi concretamente , e non solo a parole (più o meno facili), a favore di quegli obiettivi di trasparenza e correttezza  che prima richiamavamo.


Gianluca Colombo
Patrizia Gazzola
Angelo Guerraggio

QUANDO LE PROCEDURE CANCELLANO IL MERITO

La selezione dei ricercatori e degli scienziati più capaci ed eccellenti rappresenta uno dei meccanismi più importanti per far progredire la ricerca scientifica. In Italia i concorsi universitari sono stati frequentemente oggetto di forti critiche sia per le modalità di selezione delle commissioni che per non aver scelto candidati eccellenti con  criteri di merito condivisi dalla comunità scientifica.
Esiste a nostro avviso un altro aspetto, sconosciuto a gran parte del pubblico, ma estremamente rilevante nel determinare se un concorso va a buon fine o meno: il  funzionamento delle “procedure concorsuali”.

UN AUMENTO EQUO DELLE TASSE UNIVERSITARIE

Ringrazio Andrea Ichino e Daniele Terlizzese per la loro risposta puntuale al commento critico all’articolo di Daniele Checchi e Marco Leonardi. Nella possibile riforma strutturale che andrò a proporre terrò in considerazione, sottolineando punto per punto, gli elementi portati alla luce da Ichino-Terlizzese.
Questa mia ipotetica proposta di riforma del sistema universitario italiano si basa sull’idea che, allo stato attuale dei fatti, ulteriori modifiche marginali alla vigente struttura avrebbero costi (sia di implementazione che di accettazione sociale) molto superiori agli eventuali benefici. D’altro canto i benefici derivanti dal ridisegnare ex-novo l’intero sistema avrebbero verosimilmente luogo solo dopo diverso tempo. Da qui l’idea di una possibile ristrutturazione del solo sistema di tassazione che faccia da base a nuove migliorie come, ad esempio, quelle illustrate dai due autori sopracitati che ben si integrerebbero con il mio modello teorico.

VECCHI GLI ATENEI, VECCHI GLI STUDENTI

Per decidere in quale modo riformare l’attuale sistema di rette universitarie  bisogna concentrarsi su quelle che sono le principali inefficienze dell’attuale sistema. Una criticità da cui partire è, a mio avviso, l’elevatissimo numero di studenti fuori corso. Parlando dei soli corsi di studio triennali nel 2010 il 40% degli studenti era iscritto fuori corso e il 60% si era laureato oltre i tre anni canonici. Non bastassero questi dati, di per sé preoccupanti, va detto che solo il 13% degli iscritti risulta avere un’età inferiore ai 22 anni, mentre il 34% ha più di 27 anni. Il dato che però desta maggiore perplessità è che il 27% delle facoltà in Italia non abbia nel 2010 alcuno studente laureatosi con meno di 22 anni: ciò significa che più di un corso di laurea su quattro produce solo studenti “vecchi”. Non c’è da stupirsi dunque se si parli dell’università italiana come di un vero e proprio parcheggio.

LA PROPOSTA

Personalmente credo che un buon sistema di incentivi potrebbe ridurre queste inefficienze. Quello che propongo qui è infatti un modello che riduca parallelamente il numero di studenti fuori corso,  concentrando gli abbandoni solo dopo i primissimi anni dall’immatricolazione.
Una possibile soluzione sarebbe quella di alzare le “rette relative”, ovvero la quota di retta a carico dello studente che attualmente è di circa il 20% a fronte del 80% finanziato dallo stato. Ad esempio, queste quote potrebbero invertirsi:  il che equivarrebbe, secondo le ultime stime di Federconsumatori a far pagare circa 5000 euro ad ogni studenti e i restanti 1000 allo stato. Con i soldi così risparmiati sarebbe possibile istituire nuove borse di studio sia per chi non ha la possibilità di affrontare le spese universitarie sia per gli studenti meritevoli.
Il sistema di incentivi potrebbe essere strutturato in modo che, dopo aver sostenuto un test d’ammissione per l’immatricolazione, alla fine di ogni anno accademico la retta venga parzialmente rimborsata in funzione della media dei voti ottenuta dallo studente. Una media del 30 e lode su tutti gli esami dell’anno equivarrebbe a una completa esenzione dalla tassa. Di fatto questo comporterebbe per gli studenti bravi la necessità di ottenere un prestito solo per il primo anno, andando a pagare in media meno di quanto non paghino nel sistema attuale. Questo invece non varrebbe per gli studenti meno bravi, che dovrebbero confrontare la nuova spesa universitaria, superiore a quella del sistema vigente, con i rendimenti attesi dell’istruzione terziaria. L’incentivo economico, inoltre, concentrerebbe gli abbandoni solo nei primi anni ed eviterebbe non solo le situazioni estreme (anche se attualmente piuttosto ordinarie) di studenti che si ritirano dopo 6-7 anni passati fuori corso ma anche lo stesso numero complessivo di studenti fuori corso. Ovviamente continuano a valere le considerazioni sull’avversione al rischio già ben illustrate da Andrea Ichino e Daniele Terlizzese nella loro risposta che menzionavo prima.
Nella retta così strutturata sarebbero compresi infine tutti i servizi offerti tipicamente dall’università, quali lezioni, accesso alle strutture ecc…, ma un solo tentativo di esame. Dal secondo tentativo lo studente dovrà pagare un supplemento per ogni volta che lo sosterrà. I supplementi in questione potrebbero essere strutturati in diversi modi: potrebbero essere delle tasse fisse per ripagare i costi di gestione oppure potrebbero essere anch’essi funzione della media ottenuta in precedenza e/o del numero di volte che si tenta il medesimo esame. Questi però sarebbero solamente un inasprimento aggiuntivo del sistema di incentivi, in quanto è verificabile che il solo rimborsare la retta universitaria anno per anno in funzione della media ottenuta, aumentandone però l’entità, sarebbe di per sé sufficiente ad ottenere sensibili miglioramenti per le problematiche qui trattate.
Una trattazione più analitica sia dei dati sopraesposti che del modello in questione è disponibile nel file allegato.

IN AMERICA NON SAREBBE SUCCESSO? FORSE SÌ

Hanno destato giustamente scandalo, nella comunità scientifica italiana, e non solo, due recenti concorsi per ricercatore di economia all’università del Piemonte Orientale e all’università dell’Insubria, in cui a vincere sono stati i candidati con i contributi scientifici obiettivamente più scarsi. Lavoce.info ne ha riferito, facendo eco a iniziative partite da altri gruppi e siti web. (1)
In questi giorni si è spesso sostenuto che in altri paesi, e specialmente in Nord America, cose del genere non sarebbero mai successe. Vogliamo qui lanciare invece una provocazione, sostenendo che anche in università nordamericane, candidati simili avrebbero potuto risultare come i migliori, nonostante il loro magro o inesistente curriculum scientifico. Il motivo risiede nel funzionamento del mercato accademico e nell’organizzazione del sistema universitario in Nord America, che fanno sì che criteri diversi possano essere usati per assumere candidati in diverse università, per garantire maggior efficienza e responsabilità.
Prima di sviluppare il nostro ragionamento, tuttavia, è importante precisare che, date le regole che governano i concorsi in Italia e i criteri di svolgimento e selezione che le commissioni sono tenute a seguire, le nostre osservazioni non sono attualmente applicabili al contesto italiano. E proprio per questo, esiti come quelli dell’università del Piemonte Orientale e dell’università dell’Insubria vanno segnalati e combattuti.

LA SELEZIONE DEI DOCENTI IN USA

Il mercato accademico in Nord America (e sempre più anche in altri contesti) è del tutto decentralizzato (qui il precedente intervento). Ogni università comunica l’apertura di posizioni di ricercatore o professore; la posizione può essere specifica o idiosincratica alla particolare università o dipartimento. Per rimanere al caso di economia col quale abbiamo più familiarità, un dipartimento può aver bisogno di un economista industriale o del lavoro, o di un macroeconomista. Di conseguenza, i criteri per assumere un candidato non sono sempre gli stessi. Se un dipartimento cerca un ricercatore che insegni e si occupi di economia del lavoro, potrebbe non offrire la posizione al candidato col maggior numero e qualità di pubblicazioni, se queste non sono pertinenti alla materia di interesse, o, più in generale al candidato, pur bravissimo, che non risulti un buon “fit” (anche, perché no, in termini di personalità) per quel particolare gruppo di colleghi.
Altrettanto importante è il fatto che non tutte le università sono uguali, sullo stesso livello e interessate agli stessi parametri qualitativi e quantitativi. Ci sono università orientate alla ricerca: qui si darà importanza ai risultati e al potenziale scientifico di un candidato. Ci sono poi le università in cui l’attività di ricerca è limitata o inesistente. Rientrano in questa categoria i “Liberal Arts colleges”, così come i community colleges, ovvero istituzioni locali che offrono programmi post-secondari specifici. In queste scuole, si cercano docenti con capacità e interessi diversi: non sempre, ad esempio, il miglior scienziato è anche il miglior insegnante. Inoltre, esiste anche una differenziazione “verticale”: in entrambi i gruppi ci sono università di migliore e peggiore qualità. Ad esempio, alcuni Liberal Arts colleges, dove l’attività di ricerca è minima, sono tuttavia molto prestigiosi e hanno educato importanti leaders. Per esempio, il segretario di Stato Hillary Clinton ha studiato a Wellesley, un Liberal Arts college, imparando da professori con un curriculum scientifico limitato, ma di certo ottimi insegnanti e formatori.
Le università locali e i community colleges godono di uno status inferiore. Questo non le rende meno importanti, ma semplicemente diverse e non paragonabili alle research universities o ai Liberal Arts colleges. (2)
Le differenziazioni hanno conseguenze importanti in termini di finanziamento e riconoscimento. Non tutte le scuole sono finanziate con gli stessi criteri e in egual misura (sia quelle pubbliche, sia quelle private) e anche i salari dei professori sono differenziati. Per le università orientate alla ricerca, produrre risultati scientifici di eccellenza è essenziale per ottenere fondi, e anche per attirare un certo tipo di studenti. Per le università dedicate principalmente all’insegnamento, i criteri di finanziamento sono diversi, improntati, appunto, alle attività didattiche.
L’annuncio di un posto vacante in un determinato dipartimento specifica le caratteristiche richieste dalla posizione, ma i criteri di scelta di ciascun dipartimento non sono di solito resi pubblici. Al contrario, ciascun dipartimento sceglie tra i vari candidati in piena autonomia. Tuttavia, il dipartimento stesso sopporta i costi dell’eventuale assunzione di un candidato mediocre o inadatto alla posizione: il suo prestigio cala, e con esso calano i finanziamenti e la disponibilità a pagare degli studenti. Dunque, ha tutti gli incentivi per fare la scelta migliore. I dipartimenti godono anche di piena autonomia nello stabilire il carico di insegnamento e il salario dei singoli ricercatori e professori. Quindi, candidati con diverse preferenze, predisposizioni e livelli qualitativi vengono “abbinati” alle diverse scuole dai meccanismi di mercato.

IL CONFRONTO CON L’ITALIA

Le differenze con la situazione italiana sono notevoli. In Italia, i dipartimenti godono di autonomia nella selezione dei vari candidati, ma non pagano le conseguenze di scelte sbagliate, perché i finanziamenti sono in larghissima misura slegati dalla performance dei docenti (di ricerca o di insegnamento). È per questo motivo che casi come quello dell’università del Piemonte Orientale o dell’università dell’Insubria fanno tanto clamore: l’autonomia slegata dalla responsabilità si trasforma in puro arbitrio, e quindi in ingiustizie e inefficienze.
Date le regole attuali, una maggiore trasparenza nei criteri di selezione, accompagnata da maggiore attenzione da parte della comunità accademica, possono essere efficaci nell’individuare e prevenire casi come quelli del Piemonte Orientale o dell’Insubria in cui viene scelto il candidato obiettivamente peggiore. (3)
Crediamo però che il sistema andrebbe riformato in modo da garantire che i talenti vengano assegnati alle posizioni in cui sono maggiormente produttivi. Perché ciò accada, occorre però accettare che spesso il candidato migliore per una certa posizione non è quello con i titoli migliori sulla carta. I dipartimenti devono avere autonomia nello scegliere ricercatori e professori, ma devono anche essere responsabilizzati e pagare le conseguenze di scelte sbagliate. Se l’università del Piemonte Orientale o quella dell’Insubria vogliono assumere il candidato con zero pubblicazioni facciano pure, a patto che ne sopportino le conseguenze. Se vogliono caratterizzarsi come università votate alla ricerca, assumendo i peggiori candidati dovranno pagare le conseguenze in termini di minori finanziamenti e attrattività verso i futuri ricercatori – e anche in termini di prestigio dei selezionatori stessi. Se invece vogliono caratterizzarsi come università locali, di livello inferiore, oppure votate prevalentemente all’insegnamento, allora magari i candidati che scelgono sono dei buoni insegnanti. La competizione per i finanziamenti dovrà essere separata da quella delle università votate alla ricerca. In particolare, sarà in gran parte dovuta alle rette degli studenti, che saranno disposti a pagare in proporzione alla qualità dell’insegnamento. I docenti, con ogni probabilità, verranno pagati meno di coloro che svolgono anche attività di ricerca. L’allocazione dei talenti sarebbe così più efficiente. Maggiore competizione, su livelli multipli (qualità, vocazione dell’ateneo), toglierebbe potere contrattuale ai “baroni” e consentirebbe, ad esempio, ai migliori giovani ricercatori di competere “ad armi pari” e di avere maggior accesso a posizioni di ricerca.
Quanto descritto qui non può avvenire in Italia a “regime vigente”, ma solo riconoscendo che le università non sono necessariamente tutte uguali – e l’abolizione del valore legale del titolo di studio sarebbe un primo passo – rendendo più diretto il legame tra qualità e finanziamenti e mettendo in moto meccanismi per cui i vari atenei siano stimolate ad eccellere, anche in virtù di una sana concorrenza, e a differenziarsi.

 

(1)  http://petizionesecsp01.wordpress.com/2011/12/09/33/ e http://petizionesecsp01.wordpress.com/2012/02/18/
(2) Queste differenze di tipo e di qualità sono formalizzate da una serie di programmi di accreditamento e da graduatorie stilate da varie organizzazioni. Ad esempio, la Carnegie Foundation classifica le università in diversi livelli qualitativi (in generale e in relazione al tipo o focus della scuola); la rivista Us News pubblica periodicamente classifiche di università e programmi post-laurea, generali e in base a specifiche sottocategorie. Per quanto riguarda specifiche facoltà, esistono programmi di accreditamento come quello offerto da AACSB International, Association to Advance Collegiate Schools of Business, nel caso di facoltà economico-aziendali.
(3) Nei due casi le tabelle comparative non hanno bisogno di ulteriori commenti. Vedi: http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2011/12/concorso-alessandria-322.pdf; http://petizionesecsp01.files.wordpress.com/2012/02/concorso-insubria.pdf

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