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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 42 di 70

SE ALL’UNIVERSITÀ MANCA PROFUMO DI SELEZIONE

Il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro Profumo ha nominato Raffaele Liberali, capo di dipartimento per l’università e la ricerca. Il dottor Liberali dirige la Direzione K (Energia) presso la direzione generale per la ricerca e l’innovazione della Commissione europea. Andrà in pensione dalla Commissione prima di assumere il nuovo incarico.
Il nuovo capo del dipartimento avrà responsabilità centrali per l’attuazione della nuova legge universitaria: in particolare da lui dipenderanno i rapporti fra il ministero e l’Anvur. Con quale criterio è stato scelto? Quale è il gruppo di riferimento all’interno del quale il dottor Liberali è emerso come il candidato più adatto?
Ci saremmo aspettati che il governo Monti innovasse anche nelle procedure per la nomina degli alti funzionari dello Stato. La stessa Commissione europea e la Bce sempre più spesso effettuano le loro nomine al termine di una procedura pubblica in cui la posizione aperta è annunciata su mezzi di informazione, ad esempio l’Economist, e dà luogo ad una short list di candidati che vengono intervistati prima della decisone finale. La scelta del nuovo direttore generale del Tesoro offre al governo l’occasione per adottare standard europei in queste nomine.

DOVE PORTA LA RIVOLUZIONE DEL MERITO

Il governo Monti ha in agenda un capitolo delicatissimo, quello della riforma dell’università. Se realizzato, il progetto produrrà esiti davvero radicali. Ne spiegava il significato Pietro Manzini su questo sito. Il senso della riforma è essenzialmente uno: l’eliminazione del valore legale del titolo di studio.

LA “SFIGA” DI AVERE MENO OPPORTUNITÀ

Il viceministro Martone è balzato agli onori della cronaca per aver definito “sfigati” gli studenti che si laureano a 28 anni. È vero che in Italia esiste il problema della lunga durata degli studi. Ma se si guardano le statistiche, si vede che il percorso verso la laurea si allunga in particolare per gli studenti-lavoratori, per chi proviene da famiglie meno istruite e per chi studia nelle università del Sud. Insomma, una distribuzione delle opportunità asimmetrica nella società e nel territorio del nostro paese. Dichiarazioni provocatorie e discredito delle istituzioni.

PERCHÉ CANCELLARE IL VALORE LEGALE DELLA LAUREA

Il valore legale del titolo di studio fa sì che ogni laurea conferita da una qualsiasi delle ottanta università italiane abbia lo stesso peso nel mercato degli impieghi pubblici. Così gli atenei hanno scarsi incentivi a scegliere docenti preparati; i laureati bravi sono intercettati dal settore privato; le risorse delle famiglie premiano i servizi formativi scadenti. Problemi che si potrebbero superare se l’amministrazione pubblica valutasse le lauree sulla base di un ranking delle università di provenienza dei candidati. Come vorrebbe una proposta in discussione nel governo.

ANCHE GLI ECONOMISTI VANNO AL MERCATO

Si apre in questi giorni a Chicago il job market in economia e finanza, l’appuntamento annuale che permette alle università di tutto il mondo di incontrare e selezionare i migliori giovani ricercatori. È un vero e proprio mercato del lavoro, in cui la concorrenza è molto intensa. La grande maggioranza delle università italiane non dispone né delle risorse finanziarie né di una reputazione scientifica adeguata per parteciparvi. Si tratta di una condizione di autarchia che favorisce abusi e nepotismi e per questo bisogna uscirne. Anche con l’aiuto della politica.

IL CAPITALE UMANO? SI FA COL PRESTITO

Ringraziamo Daniele Checchi e Marco Leonardi per il loro commento critico (vedi “All’università col prestito d’onore? No, grazie.”) alla nostra proposta (vedi gli articoli “Una laurea in prestito” e “Un prestito con molti vantaggi”). Ecco le nostre risposte, punto per punto, alle loro obiezioni. In alcuni casi sembra quasi che Daniele e Marco non abbiano compreso (senz’altro per nostra colpa) parti importanti di quello che abbiamo scritto.

SE I POVERI EVITANO I RISCHI

La prima obiezione che ci viene mossa è che gli individui hanno gradi di avversione al rischio diversi (verosimilmente maggiori quanto minore è il reddito e la ricchezza) e che questo è un forte deterrente nei confronti di un investimento dal rendimento incerto come quello universitario. Non potremmo essere più d’accordo! È proprio per questo che abbiamo proposto dei prestiti il cui rimborso sia proporzionale al reddito, invece che prestiti di tipo tradizionale. (1)
In particolare, nell’appendice mostriamo che con prestiti condizionati al reddito la scelta di investire in istruzione domina quella di non farlo, indipendentemente dal grado di avversione al rischio (ovviamente sotto l’ipotesi che l’investimento in istruzione sia efficiente, cioè che generi un reddito superiore al costo). Con un prestito income contingent il rimborso è basso o nullo proprio quando è più costoso per lo studente rimborsarlo, ed è questa caratteristica che lo rende attraente in presenza di avversione al rischio. E dal momento che la conclusione vale per qualunque grado di avversione al rischio, il fatto che questa sia diversa tra individui, o che quelli più poveri siano più avversi, semmai porta a concludere, come scriviamo nel nostro saggio, che questi prestiti avranno un effetto maggiore sui poveri che non sui ricchi. Consideriamo un investimento in istruzione con un rendimento  maggiore del suo costo. Senza prestiti condizionati al reddito, il ricco lo farà lo stesso perche è poco avverso al rischio. Il povero invece, proprio per la maggiore avversione al rischio, non lo farà. L’introduzione dei prestiti condizionati sarà sostanzialmente irrilevante per il ricco, mentre consentirà al povero di effettuare un investimento vantaggioso.
Forse però l’obiezione di Daniele e Marco è più radicale: gli individui più poveri e con meno istruzione non sono proprio in grado di comprendere il vantaggio associato al prestito income contingent, se ne terrebbero alla larga “a prescindere”, come Totò. Può essere. Con razionalità limitata e regole euristiche di comportamento la nostra conclusione salta, così come salta un bel pezzo dell’analisi economica. Ma ci sembra che l’onere della prova sia su chi sostiene che la razionalità non sia l’ipotesi appropriata, e la tavola presentata da Daniele e Marco non basta a fornirla. Le persone (di ogni classe sociale) comprano case con mutui, macchine con prestiti, fanno investimenti finanziari di vario tipo: difficile pensare che tutto questo accada senza capire che cosa ci sta sotto. In ogni caso proviamo nel concreto, in via sperimentale, e saranno i dati a dirci chi ha ragione.
La seconda obiezione è che il rendimento dall’istruzione in Italia è basso, e quindi non giustifica un investimento rilevante (e dal rendimento incerto). Anche qui, siamo completamente d’accordo, ma ci sembra che la risposta sia nel tentare di alzarlo, migliorando l’offerta formativa (attraverso una combinazione di maggiori risorse, maggiore autonomia, maggiore pressione concorrenziale), invece di accontentarsi di ampliare l’accesso a un’università troppo spesso di bassa qualità. Daniele e Marco sanno benissimo, perché lo hanno scritto nei loro lavori, che un’università di bassa qualità ma gratis per tutti serve a poco. La nostra proposta, che unisce ai prestiti un aumento significativo delle tasse universitarie solo per quei corsi in grado di costruire in modo credibile un’offerta formativa migliore, mira invece ad alzare il rendimento dell’istruzione terziaria.

CHI PAGA? IL CONFLITTO INTERGENERAZIONALE

La terza obiezione è che caricare sui giovani di oggi una parte maggiore del costo di fornire loro un’istruzione superiore è ingiusto, poiché questi giovani sono già oggetto di una pesante redistribuzione intergenerazionale a loro sfavore. Far pagare l’istruzione terziaria alla generazione dei genitori è un modo per bilanciare, sia pure parzialmente, questo squilibrio tra generazioni. Tuttavia in linea di principio(e crediamo che Daniele e Marco siano d’accordo su questo) è del tutto sensato e in linea con criteri di razionalità ed efficienza economica che coloro che si approprieranno di una buona parte dei benefici dell’investimento in istruzione superiore siano chiamati a sopportarne in misura rilevante i costi. L’obiezione però è: si, ma non cominciamo proprio adesso, questa generazione è già fin troppo penalizzata. Come genitori di ragazzi che appartengono a questa generazione penalizzata non siamo insensibili a questo argomento. D’altra parte, c’è sempre un buon motivo per rinviare il cambiamento, e forse questo governo può essere, meno di altri che lo hanno preceduto e che lo seguiranno, preda di “miopia elettorale” e quindi più disposto a prendere in considerazione soluzioni nuove a problemi antichi. E poi, perché non dovremmo pensare che la generazione corrente dei padri e delle madri, che si vedrebbero sgravati da una parte del costo di finanziare l’istruzione superiore dei propri figli, non trasferiscano comunque a loro quel “risparmio”? 

La quarta obiezione è che la nostra proposta di aumentare in modo generalizzato e rilevante le tasse universitarie avrebbe l’effetto di ridurre l’accesso, specialmente per i più poveri, e invertirebbe quindi la tendenza a colmare il divario nella quota dei laureati con gli altri paesi. A riprova di questo Daniele e Marco citano la recente esperienza inglese, con la forte caduta delle immatricolazioni seguita all’aumento delle tasse universitarie. Su questo abbiamo varie cose da dire. In primo luogo, noi non proponiamo aumenti generalizzati delle tasse universitarie. Pensiamo ad aumenti solo per alcuni corsi di eccellenza, e differenziati per livello di reddito dei genitori: aumenti che mediamente portino 7500 euro per studente-anno nelle università e per i corsi che partecipano allo schema, con variazioni piccole o addirittura nulle per i meno abbienti, e maggiori di 7500 euro per coloro che se lo possono permettere. In secondo luogo, l’obiettivo di aumentare l’accesso all’università ha senso solamente se accoppiato con quello di garantirne (e, secondo noi, migliorarne) la qualità. Perseguire il primo a discapito del secondo ci farebbe salire in qualche graduatoria Ocse, ma non migliorerebbe le prospettive reali di crescita del paese e le condizioni di vita dei nostri ragazzi. In terzo luogo, proprio perché proponiamo di intervenire in modo selettivo e in via graduale, la nostra proposta è molto diversa da quella recentemente introdotta in UK, dove l’aumento delle tasse universitarie è stato generalizzato e soprattutto non differenziato in base al reddito della famiglia d’origine: queste due caratteristiche, con l’aggiunta della grave fase recessiva potrebbero spiegare il calo di iscrizioni del 15% in UK; in Australia, negli anni ’90, in corrispondenza di una trasformazione simile, non si è verificato alcuna flessione delle iscrizioni, né un peggioramento delle condizioni di accesso per gli studenti più poveri. Un recente lavoro di Ian Walker conclude, sulla base di stime per le diverse discipline, che il combinarsi di tasse maggiori e  prestiti ha sostanzialmente lasciato invariati i rendimenti interni dell’istruzione in UK. L’effetto osservato per quest’anno potrebbe essere soltanto congiunturale. E comunque le iscrizioni sono ancora aperte nelle università inglesi! Infine non pensano Daniele e Marco che possa essere utile alle università italiane finanziarsi facendo pagare il costo pieno dell’istruzione agli studenti stranieri, offrendo però loro un’istruzione di qualità, come regolarmente accade per esempio nelle università del Regno Unito? In Italia attualmente non è possibile. La nostra proposta lo consentirebbe.

UNA SPINTA DAL MERCATO

La quinta obiezione è che la nostra proposta mira a costruire delle “macchie di eccellenza”, piuttosto che un generalizzato innalzamento della qualità della nostra università. È vero, pensiamo che una strategia di piccoli passi, con alcuni atenei e corsi di laurea che sperimentano e costruiscono un’offerta formativa migliore, da allargare successivamente quando si sia verificato che funziona, possa essere più efficace di un “grande piano” che coinvolge tutti allo stesso momento; e crediamo anche che sia opportuno concentrare le risorse per costruire e rafforzare i segmenti in cui abbiamo dei “vantaggi comparati”, piuttosto che distribuirle in modo uniforme su tutti. Anche su questo, peraltro, ci sembra che Daniele e Marco concordino. Ma allora perché va bene una differenziazione basata sulla “distribuzione incentivante di soldi pubblici”, e non una che lascia alle gambe e alla testa degli studenti la responsabilità di portare maggiori risorse alle università e ai corsi migliori? Noi non proponiamo di abolire la prima: è un ingrediente importante, e crediamo che l’Anvur stia muovendosi bene. Ma pensiamo che un aiuto “di mercato” non guasterebbe. 
Detto questo, riconosciamo che tutta la questione è controversa, e coinvolge la natura fondante e fondamentale dell’istruzione superiore in una società moderna: luogo di formazione della classe dirigente e di produzione dell’innovazione, o luogo di costruzione dei diritti di cittadinanza e dell’identità sociale delle nuove generazioni? Il tema è sul tappeto.

 

(1) Vedi nel documento Eief “Un sistema di prestiti per finanziare gli studi universitari in Italia“. La Sezione 2.3 (Incertezza dell’investimento in istruzione e avversione al rischio), la Sezione 2.4 (Come ridurre con un prestito gli effetti dell’incertezza e dell’avversione al rischio) e l’Appendice (Scelte di istruzione in condizioni di incertezza) trattano esattamente di questo.

ALL’UNIVERSITÀ COL PRESTITO D’ONORE? NO, GRAZIE

 Le tasse universitarie italiane sono troppo basse. E il problema è particolarmente impellente in un contesto di costante riduzione del Fondo di finanziamento ordinario. Ma un innalzamento significativo finanziato tramite indebitamento è da evitare. Soprattutto perché rischia di vanificare il frutto migliore della riforma del 3+2: l’accesso generalizzato all’università. Meglio allora decidere un moderato e generalizzato aumento delle tasse. Dovrebbe essere ben accolto anche dagli studenti di famiglie più povere perché serve a far contribuire di più chi più ha.

ATENEO PIÙ CARO, MA CON PIÙ BORSE DI STUDIO

Una recentissima sentenza ha fatto scoppiare il bubbone delle tasse universitarie in eccesso alla normativa. Che prevede che le tasse pagate dagli studenti non superino il 20 per cento del Fondo di finanziamento ordinario. Ma è la legge che va cambiata, e con urgenza. Per vincere l’ostilità studentesca, è opportuno riprendere un punto del patto per l’università proposto dal governo Prodi: la metà dell’aumento sia redistribuita agli studenti sotto forma di borse di studio e servizi gratuiti ai meno abbienti.

 

LE IMBARAZZANTI DOMANDE DELL’EUROPA SULLA PA

Il questionario della Commissione Europea, che vuole vederci chiaro sugli effetti delle riforme promesse come elemento dello sviluppo, tocca il nervo scoperto del sostanziale fallimento delle nuove regole sulla pubblica amministrazione, sbandierate come una panacea. Il governo in questi anni non ha fatto altro che parlare di scarsa produttività dell’amministrazione pubblica, di costo troppo elevato dei dipendenti e del loro numero eccessivo. In Europa, per coerenza, si aspettano concrete riduzioni di questi indicatori. Come spiegare ora che era solo propaganda?

STUDIARE ECONOMIA? VALE LA PENA

Uno dei pochi aspetti positivi della crisi è che ci mette di fronte al fatto che la comprensione dei problemi economici è complessa, essenziale e richiede una capacità di analisi profonda. Lo studio dell’economia aiuta a sfatare luoghi comuni e pregiudizi, a vedere le conseguenze inattese delle cose. È affascinante sia per chi ama le discipline umanistiche sia per chi preferisce quelle matematico-quantitative. Serve anche per trovare un lavoro perché l’elemento che definisce il mondo di oggi rispetto a 25 anni fa è la sua crescente complessità. E l’economia ci insegna a capirla.

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