Le tasse universitarie italiane sono troppo basse. E il problema è particolarmente impellente in un contesto di costante riduzione del Fondo di finanziamento ordinario. Ma un innalzamento significativo finanziato tramite indebitamento è da evitare. Soprattutto perché rischia di vanificare il frutto migliore della riforma del 3+2: l’accesso generalizzato all’università. Meglio allora decidere un moderato e generalizzato aumento delle tasse. Dovrebbe essere ben accolto anche dagli studenti di famiglie più povere perché serve a far contribuire di più chi più ha.
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Una recentissima sentenza ha fatto scoppiare il bubbone delle tasse universitarie in eccesso alla normativa. Che prevede che le tasse pagate dagli studenti non superino il 20 per cento del Fondo di finanziamento ordinario. Ma è la legge che va cambiata, e con urgenza. Per vincere l’ostilità studentesca, è opportuno riprendere un punto del patto per l’università proposto dal governo Prodi: la metà dell’aumento sia redistribuita agli studenti sotto forma di borse di studio e servizi gratuiti ai meno abbienti.
Il questionario della Commissione Europea, che vuole vederci chiaro sugli effetti delle riforme promesse come elemento dello sviluppo, tocca il nervo scoperto del sostanziale fallimento delle nuove regole sulla pubblica amministrazione, sbandierate come una panacea. Il governo in questi anni non ha fatto altro che parlare di scarsa produttività dell’amministrazione pubblica, di costo troppo elevato dei dipendenti e del loro numero eccessivo. In Europa, per coerenza, si aspettano concrete riduzioni di questi indicatori. Come spiegare ora che era solo propaganda?
Uno dei pochi aspetti positivi della crisi è che ci mette di fronte al fatto che la comprensione dei problemi economici è complessa, essenziale e richiede una capacità di analisi profonda. Lo studio dell’economia aiuta a sfatare luoghi comuni e pregiudizi, a vedere le conseguenze inattese delle cose. È affascinante sia per chi ama le discipline umanistiche sia per chi preferisce quelle matematico-quantitative. Serve anche per trovare un lavoro perché l’elemento che definisce il mondo di oggi rispetto a 25 anni fa è la sua crescente complessità. E l’economia ci insegna a capirla.
Ricordate Dan Quayle? E stato tra il 1988 e il 1992 il Vice Presidente degli Stati Uniti durante il mandato di George Bush padre ed è rimasto celebre per le sue gaffes. Una volta, entrato in una scuola elementare, suggerì ad un malcapitato alunno di aggiungere una e alla fine della parola potato (patata) . Che i politici siano spesso ignoranti non è un novità. Ma di solito si tratta di peones o Scilipoti. Più raramente a personaggi di imbarazzante incapacità sono assegnate cariche importanti. Ma ogni Paese ha il suo Dan Quayle e il nostro è il Ministro Gelmini. Commentando lesperimento del Cern e dellIstituto Nazionale di Fisica Nucleare ha scritto, Alla costruzione del tunnel tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto lesperimento, lItalia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno al 45 milioni di euro. Un tunnel dal Gran Sasso a Ginevra! Più di 700 km di scavi senza che nessuno ne sapesse niente. Lo avranno fatto per non allarmare i No-Tav. Naturalmente il tunnel esiste solo nella fervida immaginazione del Ministro. Ma i 45 milioni che abbiamo speso per linesistente tunnel erano immaginari o reali? E se erano reali, che fine hanno fatto? Non è che li hanno dirottati ad altro uso? Ovviamente allinsaputa del Ministro, nella migliore tradizione di questo governo. Ma poi in fondo questo esperimento che importanza aveva? Che si possa superare la velocità della luce lo sapevamo già. Bastava vedere la rapidità con la quale il Ministro Gelmini nel 2001 passò da Brescia a Reggio Calabria per superare lesame di abilitazione alla professione di avvocato.
I test per lingresso nei corsi di laurea di medicina, biotecnologia, veterinaria, professioni sanitarie, architettura e scienze della formazione primaria si svolgono tutti lo stesso giorno, ma anziché avere ununica graduatoria nazionale, ogni sede universitaria stila la sua graduatoria. Se un candidato non riesce a entrare nellateneo in cui ha sostenuto lesame di ammissione, perde così il diritto a iscriversi in un altro, anche se magari il suo punteggio è tra i migliori e, in una ipotetica graduatoria nazionale, figurerebbe ben prima del limite fissato dal numero di posti disponibili.
In questi giorni sono state pubblicate tutte le graduatorie del test di medicina nelle varie sedi e abbiamo così potuto calcolare, limitatamente a questa facoltà, quanti sono gli studenti ingiustamente esclusi (e quanti ingiustamente inclusi) nellanno accademico 2011-12 da questo perverso meccanismo di selezione. Si tratta di 1.320 persone che hanno immeritatamente soffiato il posto ad altre che al test avevano fatto meglio di loro. Mediamente i loro punteggi erano del 10 per cento inferiori a quelli degli esclusi che invece sarebbero stati ammessi con la graduatoria nazionale. I test hanno complessivamente portato ad ammettere 7.719 studenti; quasi uno su cinque di questi ha avuto un posto che non si meritava. Se applichiamo la stessa percentuale agli iscritti alle altre facoltà (riguardo alle quali non avevamo i punteggi nelle diverse sedi) giungiamo a una stima di circa 9.312 persone ingiustamente escluse da facoltà in cui aspiravano iscriversi. È uno spreco di capitale umano ingente, che davvero non possiamo permetterci.

Distribuzione del punteggio totalizzato dallultimo studente ammesso in graduatoria, per facoltà.

Il grafico mostra la distribuzione degli studenti allinterno delle facoltà in cui hanno effettuato il test di ammissione, se la graduatoria fosse stilata a livello nazionale. Si può vedere come la gran parte degli studenti proverrebbe da Milano, la minor parte dalluniversità del Molise.

Il grafico mostra il numero di studenti addizionali, per facoltà, che sarebbero stati ammessi (o esclusi, se il numero è negativo) se il test fosse stato implementato su base nazionale.
Cresce in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche: una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L’università, insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli reciproci garantirebbero la qualità della formazione.
Sono grato dei commenti che mi confortano tutti nellidea di difendere le esigenze della didattica, fatta spesso di saperi complementari. Non è affatto da escludere che ci sia un corso di laurea afferente ad un unico dipartimento omogeneo sotto il profilo disciplinare ; ma è da temere lautoreferenzialità che porterebbe nel tempo ad eliminare le discipline esterne al dipartimento egemone. Meglio quindi che di norma operi una struttura interdipartimentale, magari con pesi diversi assegnati ai dipartimenti nel consiglio di tale struttura , scuola o facoltà che si voglia chiamare ( e in effetti, si poteva mantenere il nome di facoltà per evitare che la riforma appaia di facciata e che la pluralità dei nomi crei confusione nellopinione pubblica).
Meno consenso ha ottenuto laltra mia tesi a favore di dipartimenti grandi e omogenei Mi è stato ricordato che talvolta leccellenza si trova nei piccoli dipartimenti multidisciplinari. Nessuna obiezione: mai dire mai. Ma nuovamente la norma deve essere allinsegna di dipartimenti disciplinari e semmai di centri tematici pluridisciplinari. Tre buoni motivi a favore di tale tesi: evitare duplicazioni nei costi fissi; sfruttare le economie di scala e la fertilizzazione incrociata del mondo della ricerca ( che richiedono una limitata diversità e un linguaggio comune); e soprattutto, agevolare la valutazione esterna del Dipartimento e le conseguenze da trarne sul piano dei finanziamenti allinsegna del merito. Da questo punto di vista, ribadisco di credere che la valutazione della ricerca sia relativamente più attendibile di quella della didattica; perciò mi sta bene che il potere di chiamata sia stato spostato sui Dipartimenti. Anche qui, tutti conosciamo qualche caso dissociazione tra buon ricercatore e buon insegnate; ma nellinsieme è alta la correlazione tra buona ricerca e buona didattica. Il tutto dipende tuttavia da due condizioni,richiamate anche in qualche commento: la sistematica e corretta valutazione; e un adeguato finanziamento del sistema universitario, perché nessun modello organizzativo può supplire allassenza di risorse.
La durata della transizione scuola-lavoro varia da paese a paese. Un confronto sul rapporto fra tasso di disoccupazione dei giovani e degli adulti mostra che i risultati migliori si registrano nei paesi anglosassoni, che hanno il mercato del lavoro più flessibile. Al loro fianco, Germania e Giappone, dove funziona bene il collegamento fra sistema di istruzione e mondo del lavoro. Con la crisi, però, la disoccupazione giovanile è aumentata ovunque. Ma i paesi ex-socialisti e quelli mediterranei hanno migliorato le loro posizioni.
La facoltà di medicina sembra essere quella che garantisce migliori opportunità di occupazione ai giovani italiani. Merito della scelta di introdurre il numero chiuso. Ma non per questo il meccanismo del test di ingresso garantisce che siano i candidati più brillanti ad accedere alla facoltà. Perché le graduatorie sono valide per i singoli atenei. Basterebbe una graduatoria nazionale, con la possibilità per gli studenti più meritevoli di scegliere la sede che preferiscono. La bassa crescita del paese dipende infatti anche da una cattiva allocazione dei talenti.