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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 44 di 71

NUOVO APPRENDISTATO CONTRO LO SPRECO DI CAPITALE UMANO

Cresce in Italia il numero dei giovani che non studiano e non lavorano. Anche per il fallimento della laurea triennale. Una soluzione potrebbe essere la formazione tecnica universitaria sul modello delle scuole di specializzazione tedesche: una riforma a costo zero per le casse dello Stato. L’università, insieme a un certo numero di imprese locali, potrebbe introdurre un corso di laurea triennale caratterizzato da una presenza simultanea dello studente nelle aule universitarie e in azienda. Controlli reciproci garantirebbero la qualità della formazione.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Sono grato dei commenti che mi confortano tutti nell’idea di difendere le esigenze della didattica, fatta spesso di saperi complementari. Non è affatto da escludere che ci sia un corso di laurea afferente ad un unico dipartimento omogeneo sotto il profilo disciplinare ; ma è da temere l’autoreferenzialità che porterebbe nel tempo ad eliminare le discipline esterne al dipartimento egemone.  Meglio quindi che di norma operi  una struttura interdipartimentale, magari con pesi diversi assegnati ai dipartimenti  nel consiglio di tale  struttura , scuola o facoltà che si voglia chiamare  ( e in effetti, si poteva mantenere il nome di facoltà per  evitare che la riforma appaia di facciata e che la pluralità dei nomi crei confusione nell’opinione pubblica).
Meno consenso  ha ottenuto l’altra  mia tesi a favore di  dipartimenti  grandi e omogenei  Mi è stato ricordato che talvolta l’eccellenza si trova nei piccoli dipartimenti multidisciplinari. Nessuna obiezione: mai dire mai. Ma  nuovamente la norma  deve essere all’insegna di  dipartimenti disciplinari e semmai di centri tematici pluridisciplinari. Tre  buoni motivi a favore di tale tesi:  evitare duplicazioni  nei costi fissi;  sfruttare le economie di scala e la fertilizzazione incrociata del mondo della ricerca ( che richiedono una limitata diversità e un linguaggio comune); e soprattutto, agevolare la valutazione esterna  del Dipartimento  e le conseguenze da trarne sul  piano dei finanziamenti  all’insegna del merito. Da questo punto di vista, ribadisco di credere che la valutazione della ricerca sia  relativamente più attendibile di quella della didattica; perciò  mi sta bene che il potere di chiamata sia stato spostato sui Dipartimenti. Anche qui, tutti conosciamo qualche caso dissociazione tra buon ricercatore e buon insegnate; ma nell’insieme è alta la  correlazione tra buona ricerca e buona didattica. Il tutto dipende tuttavia da due condizioni,richiamate anche in qualche commento:  la sistematica e corretta valutazione; e un adeguato finanziamento  del sistema universitario, perché nessun modello organizzativo può supplire all’assenza di risorse.

DALLA SCUOLA AL LAVORO, PASSAGGIO DIFFICILE

La durata della transizione scuola-lavoro varia da paese a paese. Un confronto sul rapporto fra tasso di disoccupazione dei giovani e degli adulti mostra che i risultati migliori si registrano nei paesi anglosassoni, che hanno il mercato del lavoro più flessibile. Al loro fianco, Germania e Giappone, dove funziona bene il collegamento fra sistema di istruzione e mondo del lavoro. Con la crisi, però, la disoccupazione giovanile è aumentata ovunque. Ma i paesi ex-socialisti e quelli mediterranei hanno migliorato le loro posizioni.

MEDICINA, UN TEST DA RIFARE

La facoltà di medicina sembra essere quella che garantisce migliori opportunità di occupazione ai giovani italiani. Merito della scelta di introdurre il numero chiuso. Ma non per questo il meccanismo del test di ingresso garantisce che siano i candidati più brillanti ad accedere alla facoltà. Perché le graduatorie sono valide per i singoli atenei. Basterebbe una graduatoria nazionale, con la possibilità per gli studenti più meritevoli di scegliere la sede che preferiscono. La bassa crescita del paese dipende infatti anche da una cattiva allocazione dei talenti.

UNA GERARCHIA PER I PROF ABILITATI

Per migliorare l’università italiana è indispensabile rendere competitivo e meritocratico il reclutamento dei docenti. Il primo passo sono commissioni di abilitazione formate da membri di prestigio scientifico riconosciuto. Alle quali si dovrebbe chiedere di suddividere gli abilitati in due fasce. Lo stipendio dei migliori non graverebbe sul bilancio delle sedi che li scelgono, ma sarebbe a carico del ministero. Si favorirebbe così la concorrenza fra atenei e una maggiore specializzazione, con alcune università che potrebbero puntare più sull’insegnamento e altre più sulla ricerca.

UNIVERSITÀ, LA CHIAVE È IL DIPARTIMENTO

Con il potere di chiamata dei docenti spostato dalle facoltà ai dipartimenti, la riforma dell’università può davvero portare a un miglioramento della produttività scientifica e didattica degli atenei. Ecco due suggerimenti per trarre il meglio dalla riforma: creare dipartimenti effettivamente ampi e omogenei. E conservare la complementarietà degli apporti didattici, privilegiando la creazione di strutture di coordinamento interdipartimentali. L’auspicio è che anche il loro nome – facoltà o scuole – sia lo stesso.

 

TEST D’INGRESSO A MEDICINA, SPRECO DI CAPITALE UMANO

A Trieste e Udine e a Roma verrà sperimentato a settembre un nuovo meccanismo per l’ammissione ai corsi di laurea in Medicina e chirurgia. Ma l’unica vera differenza con il vecchio sistema è che si potrà sostenere il test in una università e fare domanda di ammissione in un’altra sede. Non risolve il problema degli studenti respinti in una sede, ma con un punteggio che permetterebbe l’iscrizione in un ateneo diverso. L’introduzione di un test unico per Medicina e Odontoiatria, poi, potrebbe addirittura peggiorare un sistema che già ora non brilla per efficienza.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Tra gli interessanti commenti dei lettori scegliamo di rispondere a quelli che ci permettono di fare un passo avanti nella nostra riflessione sui temi della politica economica europea e della gestione delle crisi in un’unione monetaria.
Rino scrive che “il lavoratore tedesco avrà pur il diritto di non volere pagare le tasse per gli altri”. Ecco, è proprio questo proclamato diritto uno dei motivi per cui gli interventi europei per il salvataggio della Grecia sono stati incerti, ritardati, insufficienti e assurdamente costosi sia per il “salvato” che per i “salvatori”. Senza dire poi che salvando la Grecia si salvano anche le banche tedesche e (soprattutto) francesi, i cui portafogli sono da anni ampiamente gravati da titoli del debito pubblico greco.
Ma c’è di più: l’egoismo fiscale nazionale è la principale mina per la stabilità dell’unione monetaria europea. Come ci ha ricordato da ultimo il premio Nobel Amartya Sen (Repubblica del 3 luglio 2011), gli stati che fanno parte di un’unione monetaria senza politica fiscale federale sono sempre sotto la spada di Damocle dei mercati. Anzi, lo sono molto di più di quanto lo siano paesi che abbiano la facoltà di manovrare il tasso di cambio e, quindi, di svalutare il proprio debito pubblico e il proprio debito estero (denominato in valuta nazionale), riducendo il costo del default: si veda come diversamente vanno le cose in Spagna e in Gran Bretagna, nonostante che il rapporto tra debito pubblico e Pil britannico (89%) sia più alto di quello spagnolo (72%) (De Grauwe, 2011). Solo una politica fiscale federale, in un’unione monetaria, può realisticamente correggere temporanei squilibri prima che si trasformino in crisi debitorie conclamate e difficilmente gestibili.
Ma una politica fiscale federale, ovviamente, richiede una vera Europa politica, perché giustamente vari lettori osservano che non è possibile affidare tutta la politica economica ad organismi tecnici, privi di rappresentanza e di responsabilità di fronte agli elettori. Crediamo però che gli elettori debbano essere quelli europei e non quelli nazionali (tedeschi, francesi, olandesi, italiani, ecc.). Una vera federazione Europea potrebbe prevedere una consistente cessione di sovranità dai singoli stati alla federazione e quindi permetterebbe la messa a punto di strumenti di monitoraggio e di punizione dei comportamenti devianti dei vari paesi molto più efficaci di quelli attuali, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Patto di stabilità e crescita. In breve, la permanenza e la stabilità dell’unione monetaria richiede il definitivo superamento dell’ “Europa delle patrie”, tanto cara a Charles De Gaulle, e l’approdo agli Stati Uniti d’Europa di Altiero Spinelli.
La proposta di affidare la governance dell’Efsf e del futuro Esm a un organismo tecnico europeo, va nella direzione di costituire un embrione di politica fiscale federale, sottratta ai veti dei singoli stati. È chiaro che gli interventi di salvataggio non esauriscono la politica fiscale federale e, anzi, ne rappresentano solo il lato emergenziale, da ultima o penultima spiaggia. Ma oggi c’è solo questo e da qui si deve cominciare.
Il fatto che l’organismo di governance dell’Efsf e del futuro Esm non debba richiedere l’autorizzazione unanime degli stati per ogni singolo atto di intervento non significa, però, che non possa avere direttive politiche e che non debba rispondere a nessuno del suo operato. Ma le direttive dovrebbero venire dal Parlamento Europeo e a designare i componenti del board di questo organismo dovrebbe ancora essere il Parlamento Europeo e non gli stati membri (come suggerisce Giovanni nel suo commento). Per evitare che parlamentari di paesi non aderenti all’euro e non facenti parte dell’Efsf o dell’Esm contribuiscano a scelte che non li riguardano, si potrebbe prevedere che essi non possano partecipare alla valutazione su tali scelte. Naturalmente, questa è soltanto una delle possibili idee, per di più pensata da chi non ha competenze costituzionali adeguate. Altre idee sono benvenute, purché sia chiaro che l’obiettivo è avviare fin da subito la costruzione di una nuova sovranità europea, anche per salvare l’unione monetaria.

De Grauwe P. (2011) «The governance of a fragile Eurozone», mimeo, University of Leuven

UNA LAUREA IN PRESTITO

Gli studenti italiani scelgono spesso la loro università sulla base della vicinanza al luogo di residenza. Perché allontanarsi dalla famiglia è costoso e muoversi per frequentare l’ateneo migliore resta appannaggio di pochi privilegiati. La soluzione è un sistema di prestiti per finanziare gli studi, con rimborsi calibrati sui redditi futuri. Si introdurrebbero elementi di concorrenzialità tra atenei. E le università potrebbero disporre di più risorse per migliorare la propria offerta fissando liberamente le tasse di iscrizione. Le differenze con la proposta del governo.

UN PRESTITO CON MOLTI VANTAGGI

Lo schema proposto nel primo intervento trasforma il prestito allo studente in un’attività finanziaria ibrida, che ha alcune delle caratteristiche di una “partecipazione azionaria” al suo reddito futuro. Fornisce quindi una (parziale) assicurazione allo studente contro il rischio associato al suo investimento in istruzione, rendendolo più accessibile.

INVESTIMENTO A ELEVATO RENDIMENTO

Qualcuno obietterà che il reddito atteso dei neolaureati è troppo basso per coprire il rimborso. Con questo schema, però, il rimborso è basso proprio quando il reddito è basso, e calcoli preliminari mostrano che, sulla base della distribuzione oggi osservata per i redditi futuri dei neolaureati, assumendo che sia di 15mila euro il reddito al di sotto del quale non si rimborsa, la gran parte sarebbe in grado nel tempo di rimborsare per intero il debito contratto, sia pure in periodi molto lunghi. Soprattutto, se lo schema funziona e mette in moto, attraverso il meccanismo concorrenziale, un miglioramento qualitativo dell’università, ci si può attendere che anche il “rendimento dell’istruzione” aumenterà, rendendo più semplice rimborsare il debito. E d’altra parte il sistema di prestiti potrebbe essere introdotto con gradualità, iniziando proprio da quegli atenei che, più di altri, sembrano garantire ai propri laureati prospettive lavorative migliori e più remunerative.
Il prestito, di fatto, è erogato dallo Stato allo studente, come avviene in molti dei sistemi in vigore negli altri paesi. Per evitare la creazione di una burocrazia dedicata a tale funzione (e i costi a essa collegati) si può utilizzare il sistema bancario e la sua rete distributiva, o le Poste, che verrebbero così a svolgere la funzione di “agente di pagamento” (per l’istituzione erogante l’operazione ha il vantaggio di fornire un primo contatto con nuovi giovani clienti; questo vantaggio dovrebbe contenere le eventuali commissioni per lo svolgimento del servizio). Nella fase di rimborso del credito, invece, si sfrutta la capacità impositiva dello Stato, al posto di più costosi sistemi di recupero crediti.
Da un punto di vista contabile, i prestiti sarebbero per lo Stato un’attività, finanziata attraverso l’emissione di debito lordo; si tratterebbe di un’operazione finanziaria che non avrebbe effetti sul disavanzo monitorato dalla Commissione europea. Sarebbe un caso esemplare di utilizzo del debito per il finanziamento di un investimento con un elevato rendimento sia privato sia sociale, quello in istruzione superiore. Ma se vincoli finanziari precludessero questa strada, si potrebbero elaborare alternative che prevedano un ruolo a soggetti con una forte partecipazione pubblica, ma di natura privatistica: è un aspetto che andrà approfondito.
Con lo schema proposto la possibilità che ci sia evasione fiscale nei redditi dichiarati è scarsa: a parte il caso estremo di evasione totale e permanente, l’ex-studente che dovesse dichiarare un reddito inferiore all’effettivo, avrebbe come unica conseguenza quella di allungare il periodo di rimborso e di aumentare per la componente degli interessi la cifra da rimborsare, senza nessun guadagno in termini di valore attualizzato del rimborso.
È facile introdurre in questo meccanismo, per rafforzare gli incentivi all’istruzione universitaria, elementi di sussidio a carico della finanza pubblica, così da finanziare in tutto o in parte la quota di debito che risultasse non recuperabile e ridurre il tasso di interesse con cui i prestiti sono capitalizzati e i rimborsi vengono scontati.
Se poi, come sembra opportuno, si sfruttasse la disponibilità di prestiti agli studenti per liberalizzare le tasse universitarie (almeno in parte e selettivamente) e aumentare così la copertura dei costi universitari da parte dei privati, si potrebbe prevedere che il risparmio per il bilancio pubblico così ottenuto venga, in tutto o in larga parte, utilizzato per sussidiare i prestiti concessi.

DIFFERENZE CON LA PROPOSTA DEL GOVERNO

Il governo in carica, attraverso il ministro della Gioventù, ha costituito, meno di un anno fa, il fondo “Diamogli Futuro” (con dotazione di 19 milioni di euro), riprendendo e ampliando una simile iniziativa del Governo precedente, per favorire lo sviluppo di prestiti universitari (a dire il vero, anche per la frequenza di corsi di dottorato e di corsi di lingua). Vincoli di spazio impediscono di entrare nel merito di quell’iniziativa, salvo chiarire la principale differenza con la proposta qui avanzata. Nello schema del governo, il fondo è a garanzia (parziale, in caso di mancato rimborso) di prestiti erogati da banche: si tratta di prestiti standard, in cui il rimborso è fisso e indipendente dal reddito. Ciò comporta per il giovane neo-laureato un rischio notevolmente superiore a quello che qui gli si chiede di sopportare. Per avere un’idea della differenza, supponiamo che il tasso di interesse richiesto dalla banca sia del 3 per cento reale (l’esperienza con l’iniziativa del precedente governo suggerisce che il tasso potrebbe essere anche del 4 o 5 per cento), che il prestito sia il massimo consentito dallo schema del governo (5mila euro l’anno, per cinque anni: capitalizzato al 3 per cento, genera un debito totale da rimborsare di circa 27mila euro), e che il periodo di rimborso sia anch’esso pari al massimo consentito (quindici anni); la rata di rimborso costante risulterebbe di circa 2.100 euro l’anno, ben sette volte superiore a quella che lo schema qui proposto richiederebbe inizialmente a un ex-studente il cui reddito sia pari al primo quartile della distribuzione dei redditi dei laureati, quasi due volte e mezzo quella inizialmente richiesta a un ex-studente con il reddito medio (tassi di interesse più elevati o un periodo di rimborso più breve renderebbero il confronto ancora più sfavorevole). Non stupisce che studenti e famiglie, a ragione avversi al rischio, in passato si siano in larga misura tenuti alla larga da schemi di questo tipo. Azzardo la previsione che lo stesso succederà con lo schema recentemente introdotto dal ministero della Gioventù.

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