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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 44 di 70

UNA LAUREA IN PRESTITO

Gli studenti italiani scelgono spesso la loro università sulla base della vicinanza al luogo di residenza. Perché allontanarsi dalla famiglia è costoso e muoversi per frequentare l’ateneo migliore resta appannaggio di pochi privilegiati. La soluzione è un sistema di prestiti per finanziare gli studi, con rimborsi calibrati sui redditi futuri. Si introdurrebbero elementi di concorrenzialità tra atenei. E le università potrebbero disporre di più risorse per migliorare la propria offerta fissando liberamente le tasse di iscrizione. Le differenze con la proposta del governo.

UN PRESTITO CON MOLTI VANTAGGI

Lo schema proposto nel primo intervento trasforma il prestito allo studente in un’attività finanziaria ibrida, che ha alcune delle caratteristiche di una “partecipazione azionaria” al suo reddito futuro. Fornisce quindi una (parziale) assicurazione allo studente contro il rischio associato al suo investimento in istruzione, rendendolo più accessibile.

INVESTIMENTO A ELEVATO RENDIMENTO

Qualcuno obietterà che il reddito atteso dei neolaureati è troppo basso per coprire il rimborso. Con questo schema, però, il rimborso è basso proprio quando il reddito è basso, e calcoli preliminari mostrano che, sulla base della distribuzione oggi osservata per i redditi futuri dei neolaureati, assumendo che sia di 15mila euro il reddito al di sotto del quale non si rimborsa, la gran parte sarebbe in grado nel tempo di rimborsare per intero il debito contratto, sia pure in periodi molto lunghi. Soprattutto, se lo schema funziona e mette in moto, attraverso il meccanismo concorrenziale, un miglioramento qualitativo dell’università, ci si può attendere che anche il “rendimento dell’istruzione” aumenterà, rendendo più semplice rimborsare il debito. E d’altra parte il sistema di prestiti potrebbe essere introdotto con gradualità, iniziando proprio da quegli atenei che, più di altri, sembrano garantire ai propri laureati prospettive lavorative migliori e più remunerative.
Il prestito, di fatto, è erogato dallo Stato allo studente, come avviene in molti dei sistemi in vigore negli altri paesi. Per evitare la creazione di una burocrazia dedicata a tale funzione (e i costi a essa collegati) si può utilizzare il sistema bancario e la sua rete distributiva, o le Poste, che verrebbero così a svolgere la funzione di “agente di pagamento” (per l’istituzione erogante l’operazione ha il vantaggio di fornire un primo contatto con nuovi giovani clienti; questo vantaggio dovrebbe contenere le eventuali commissioni per lo svolgimento del servizio). Nella fase di rimborso del credito, invece, si sfrutta la capacità impositiva dello Stato, al posto di più costosi sistemi di recupero crediti.
Da un punto di vista contabile, i prestiti sarebbero per lo Stato un’attività, finanziata attraverso l’emissione di debito lordo; si tratterebbe di un’operazione finanziaria che non avrebbe effetti sul disavanzo monitorato dalla Commissione europea. Sarebbe un caso esemplare di utilizzo del debito per il finanziamento di un investimento con un elevato rendimento sia privato sia sociale, quello in istruzione superiore. Ma se vincoli finanziari precludessero questa strada, si potrebbero elaborare alternative che prevedano un ruolo a soggetti con una forte partecipazione pubblica, ma di natura privatistica: è un aspetto che andrà approfondito.
Con lo schema proposto la possibilità che ci sia evasione fiscale nei redditi dichiarati è scarsa: a parte il caso estremo di evasione totale e permanente, l’ex-studente che dovesse dichiarare un reddito inferiore all’effettivo, avrebbe come unica conseguenza quella di allungare il periodo di rimborso e di aumentare per la componente degli interessi la cifra da rimborsare, senza nessun guadagno in termini di valore attualizzato del rimborso.
È facile introdurre in questo meccanismo, per rafforzare gli incentivi all’istruzione universitaria, elementi di sussidio a carico della finanza pubblica, così da finanziare in tutto o in parte la quota di debito che risultasse non recuperabile e ridurre il tasso di interesse con cui i prestiti sono capitalizzati e i rimborsi vengono scontati.
Se poi, come sembra opportuno, si sfruttasse la disponibilità di prestiti agli studenti per liberalizzare le tasse universitarie (almeno in parte e selettivamente) e aumentare così la copertura dei costi universitari da parte dei privati, si potrebbe prevedere che il risparmio per il bilancio pubblico così ottenuto venga, in tutto o in larga parte, utilizzato per sussidiare i prestiti concessi.

DIFFERENZE CON LA PROPOSTA DEL GOVERNO

Il governo in carica, attraverso il ministro della Gioventù, ha costituito, meno di un anno fa, il fondo “Diamogli Futuro” (con dotazione di 19 milioni di euro), riprendendo e ampliando una simile iniziativa del Governo precedente, per favorire lo sviluppo di prestiti universitari (a dire il vero, anche per la frequenza di corsi di dottorato e di corsi di lingua). Vincoli di spazio impediscono di entrare nel merito di quell’iniziativa, salvo chiarire la principale differenza con la proposta qui avanzata. Nello schema del governo, il fondo è a garanzia (parziale, in caso di mancato rimborso) di prestiti erogati da banche: si tratta di prestiti standard, in cui il rimborso è fisso e indipendente dal reddito. Ciò comporta per il giovane neo-laureato un rischio notevolmente superiore a quello che qui gli si chiede di sopportare. Per avere un’idea della differenza, supponiamo che il tasso di interesse richiesto dalla banca sia del 3 per cento reale (l’esperienza con l’iniziativa del precedente governo suggerisce che il tasso potrebbe essere anche del 4 o 5 per cento), che il prestito sia il massimo consentito dallo schema del governo (5mila euro l’anno, per cinque anni: capitalizzato al 3 per cento, genera un debito totale da rimborsare di circa 27mila euro), e che il periodo di rimborso sia anch’esso pari al massimo consentito (quindici anni); la rata di rimborso costante risulterebbe di circa 2.100 euro l’anno, ben sette volte superiore a quella che lo schema qui proposto richiederebbe inizialmente a un ex-studente il cui reddito sia pari al primo quartile della distribuzione dei redditi dei laureati, quasi due volte e mezzo quella inizialmente richiesta a un ex-studente con il reddito medio (tassi di interesse più elevati o un periodo di rimborso più breve renderebbero il confronto ancora più sfavorevole). Non stupisce che studenti e famiglie, a ragione avversi al rischio, in passato si siano in larga misura tenuti alla larga da schemi di questo tipo. Azzardo la previsione che lo stesso succederà con lo schema recentemente introdotto dal ministero della Gioventù.

CHI HA PAURA DELLE PROVE INVALSI? *

Quest’anno, più che in passato, le prove Invalsi sono state accompagnate da proteste e polemiche. Sembra perciò utile ripercorrere tutta la vicenda. Dalle ragioni che nel 2008 hanno spinto il ministero dell’Istruzione ad avviare un sistema di rilevazione degli apprendimenti degli studenti, alla soluzione proposta dall’Invalsi, fino a discutere la questione delle prove e degli esami di terza media. Tutto il processo ha lo scopo di fornire informazioni comparabili per aiutare le scuole a compiere scelte didattiche consapevoli.

LA SOLUZIONE DELL’INVALSI *

In risposta alla forte eterogeneità degli esiti tra scuola e scuola, l’Invalsi ha ritenuto che, nel contesto italiano, fosse assolutamente prioritario fornire alla singola scuola informazioni affidabili circa i livelli di apprendimento dei propri ragazzi comparati a qualche standard definito e a quelli dei ragazzi di altre scuole. In assenza di un sistema di rilevazione degli apprendimenti è impossibile per una comunità di educatori valutare se sta facendo bene o male, o giudicare se una certa strategia di insegnamento è migliore di un’altra o se una certa organizzazione della classe favorisce o deprime gli apprendimenti.
Viene in mente un bell’insegnamento di Seneca: “nessun vento è favorevole a chi non sa in che porto deve andare”. Senza informazioni comparabili le scuole sono come delle navi che non sanno con chiarezza in che porto sono (i nostri ragazzi stanno apprendendo più o meno degli altri?) e in che porto devono andare (per migliorare la comprensione della lingua dobbiamo migliorare la grammatica, il vocabolario, la sintassi ?).   

SCELTE DIDATTICHE CONSAPEVOLI

Si è così progettato un sistema di rilevazione per aiutare le scuole a orientare le loro scelte didattiche in modo consapevole. Da questa idea discendono le scelte operative, altrimenti incomprensibili, che hanno suscitato tante polemiche.
Per esempio, nei due anni passati l’Invalsi ha restituito i dati solo alle scuole, non alle famiglie, non all’amministrazione. La logica era quella di informare gli operatori della singola scuola, non quella di costruire ranking e graduatorie. I dati sono stati restituiti disaggregati a livello di singola domanda, mettendo a confronto i risultati della scuola e della classe con quelli di altre scuole vicine geograficamente e delle altre classi della stessa scuola. Il dettaglio di informazioni consente alla singola scuola, e alla singola classe, di capire quali siano i suoi punti di eccellenza e quali siano le sue debolezze, in modo da allocare le risorse educative dove sono più necessarie. Nessuna scuola va male o va bene in modo uniforme su tutti gli ambiti di una certa disciplina. Anche nelle scuole migliori ci saranno ambiti nei quali gli studenti sono più preparati e altri dove lo sono meno; si ha così una indicazione di quali punti occorra approfondire per migliorare ulteriormente i propri risultati. Di nuovo, il concetto fondamentale è che le scuole in assenza di informazioni comparabili con altre realtà non hanno indicazione di quale sia il livello di preparazione dei propri allievi e quali siano i punti di criticità.

IL COINVOLGIMENTO DELLE SCUOLE

In questa logica di collaborazione tra la singola scuola e l’Invalsi non si capisce perché le scuole dovrebbero “allenare” gli studenti a risolvere le prove Invalsi, oppure perché gli insegnanti dovrebbero fornire un “aiutino” alla risoluzione. Perché le scuole dovrebbero “barare” se poi sanno che l’informazione che riceveranno in cambio non potrà essere utilizzata ai fini per cui era stata pensata?
Comportamenti opportunistici potrebbero emergere se le prove fossero utilizzate come strumento per misurare la performance della scuola. Ma questo non accade se si comprende che la finalità della rilevazione è diversa. E la scuola italiana sembra aver compreso pienamente questo messaggio. Per esempio, lo scorso anno tutti gli allievi delle classi II e V della scuola primaria e tutti quelli della classe I della scuola secondaria di primo grado hanno sostenuto le prove Invalsi; parliamo di poco meno di 100.000 classi e di 1,8 milioni di studenti, e le analisi statistiche condotte dall’Invalsi, ma anche da autorevoli statistici, non hanno rilevato alcuna traccia di comportamenti opportunistici (“aiutini o copiature”).
Anche le preoccupazioni relative al fatto che gli insegnanti potrebbero essere indotti a trascurare le competenze non verificate dalle prove non trova fondamento se è chiara la finalità della rilevazione quale strumento di orientamento della didattica.
In questo quadro si capisce perché l’Invalsi non abbia mai ritenuto accettabile un modello di somministrazione delle prove basato interamente su somministratori esterni, ma abbia invece cercato di coinvolgere direttamente gli insegnanti nella produzione, nella somministrazione e nella correzione delle prove. Si è puntato sulla collaborazione e sulla fiducia, per segnalare il senso di una operazione condivisa. Si è chiesto molto impegno agli insegnanti che, nella stragrande maggioranza, hanno risposto con generosità, specialmente dove la finalità dell’operazione era stata intesa con chiarezza.
I somministratori esterni sono stati inviati solo in quel campione di scuole i cui risultati sono poi utilizzati per costruire le medie di riferimento a livello di regione, di macro-area e nazionale. La logica dietro questa scelta è quella di garantire alle scuole che il punto di riferimento rispetto al quale confrontare i loro risultati non sia affetto da distorsioni dovute a possibili comportamenti scorretti. Così le scuole sanno che i dati sottostanti alla media nazionale provengono da istituti nei quali la somministrazione è avvenuta in presenza di un somministratore esterno e pertanto sono in un certo senso certificati. È una scelta a garanzia di chi vuole usare i dati nel modo in cui andrebbero usati. 
Questo lavoro di costruzione di un rapporto basato sul rispetto e sulla collaborazione tra le scuole e l’Invalsi è andato avanti con grande costrutto per diversi anni e sta dando i propri frutti. Chi gira per le scuole sa che nella stragrande maggioranza dei casi i dati restituiti dall’Invalsi sono usati per interrogarsi sulla didattica e sul perché di alcuni risultati inattesi, per identificare e lavorare su alcune aree di debolezza. In molte scuole gli insegnanti chiedono ai ragazzi di rifare le prove e di spiegare i ragionamenti che li hanno condotti a rispondere in un modo piuttosto che in un altro, in modo da identificare i possibili salti logici o gli errori nei ragionamenti. Molti insegnanti si interrogano sul perché i bambini che sanno perfettamente cosa sia un pronome non siano però in grado di riconoscerlo nel contesto di un testo scritto. Non so se questo sia allenare i ragazzi o se sia dannoso per la scuola. A me sembrano ottimi esempi di come ragionare sugli errori per migliorare.

*Piero Cipollone è ex presidente Invalsi

LE PROVE, L’INFORMAZIONE E GLI ESAMI DI TERZA MEDIA *

Molte delle polemiche di questi giorni derivano dalle preoccupazioni circa il possibile uso delle rilevazioni per finalità diverse. Preoccupazioni legittime, ma non radicate sulla realtà dei fatti perché non esiste al momento in Italia nessuna prospettiva di altro uso delle rilevazioni. Esistono invece delle sperimentazioni avviate dal ministro; ma si tratta per l’appunto di sperimentazioni. Per definizione una sperimentazione serve a studiare quali siano le conseguenze di certe scelte. Si ragionerà sui pro e i contro di possibili modelli di accountability quando avremo le evidenze prodotte dalle sperimentazioni. In assenza di evidenze empiriche continueremo ad avere un contrasto di opinioni, tutte legittime, ma comunque opinioni.

TEST PREPARATI DAGLI INSEGNANTI

In molti commenti le prove vengono accusate di essere come i quiz della patente, fuori dalla pratica delle scuole, calate dall’alto e subite dagli insegnanti, nozionistiche, difficili, incoerenti. Non sempre questi giudizi sono radicati nella conoscenza dei fatti.
Forse è utile spiegare come la produzione delle prove avvenga in strettissima collaborazione tra le scuole e l’Invalsi. Il processo di predisposizione di una prova dura diciotto mesi e vede coinvolte professionalità molto diverse. Le prove somministrate nei giorni scorsi sono state prodotte e inviate all’Invalsi tra gennaio e marzo 2010 da insegnanti sparsi per tutta l’Italia; sono state sottoposte a un primo controllo da parte di un gruppo di insegnanti esperti di predisposizione di prove standardizzate; tra maggio e settembre del 2010 sono state testate su un campione rappresentativo di studenti (tra i 1000 e i 1500); sulla base degli esiti del pre-test, le prove sono state riviste nell’autunno del 2010 e, a seconda dei casi, validate direttamente, sottoposte a nuovi pre-test o scartate definitivamente. In genere solo una prova su tre sopravvive a questo rigoroso processo di selezione. Una volta che la prova è stata somministrata agli studenti se ne vaglia di nuovo la qualità attraverso un insieme di procedure statistiche, comuni nella pratica internazionale, i cui risultati vengono regolarmente pubblicati nei rapporti accessibili sul sito dell’Istituto. In ogni caso le prove sono liberamente disponibili il giorno stesso della prova e chiunque può leggerle, esaminarle e farsi un’idea sulla loro qualità. 

L’INFORMAZIONE ALLE SCUOLE

Un secondo chiarimento sulla informazione è necessario.
Il piano di rilevazione dell’Invalsi è noto fin dall’anno 2008, quindi già dall’ottobre del 2008 le scuole sapevano in quale anno sarebbero state interessate dalla rilevazione. Di questo le scuole sono state informate con una lettera del presidente dell’Istituto dell’inizio 2009 e da quelle successive inviate ogni anno all’indomani della uscita delle direttive ministeriali che chiedevano all’Invalsi di eseguire le rilevazioni. Le organizzazioni sindacali e le associazioni di categoria dei lavoratori della scuola sono state regolarmente informate sui piani di rilevazione in un incontro con i vertici dell’Istituto molti mesi prima della rilevazione (normalmente i resoconti di questi incontri erano sui siti web delle organizzazioni la sera stessa dell’incontro). In occasione della prima rilevazione del 2009 l’Invalsi ha organizzato seminari con tutti i dirigenti delle scuole coinvolte. All’indomani della prima rilevazione, l’Invalsi ha organizzato oltre cento seminari con i dirigenti scolastici e un altro rappresentante per ciascuna scuola in tutte le provincie d’Italia per illustrare le modalità di restituzione alle scuole degli esiti della rilevazione. La carenza di fondi ha impedito una replica di questa iniziativa nell’anno successivo. Quando invitato, il personale dell’Invalsi ha partecipato a incontri sul tema delle rilevazioni organizzati da singole scuole, reti di scuole, organizzazioni di categoria, organizzazioni sindacali. Non più tardi di agosto di ogni anno l’Invalsi ha pubblicato i rapporti sugli esiti delle rilevazioni svoltesi nel maggio precedente, dandone ampio risalto sui media. In occasione delle somministrazioni, la stampa ha pubblicato ampli stralci delle prove stesse, peraltro disponibili sul sito dell’Istituto. Insomma, si può certamente fare di meglio, ma la scuola non è stata certo colta di sorpresa dalle somministrazioni del 2011.

L’IMPATTO SUL VOTO DI TERZA MEDIA

Un ultimo punto va chiarito relativamente all’esame di stato al termine del primo ciclo, l’esame di terza media. In questo caso, la prova Invalsi contribuisce alla valutazione finale dello studente come previsto dalla legge n. 176 del 25 ottobre 2007.
La prova nazionale si è svolta per la prima volta nel giugno del 2008 e non ha avuto alcun effetto sul voto finale dell’esame. L’anno successivo, nel giugno del 2009, la decisione circa l’importanza da attribuire agli esiti della prova nazionale nella definizione del voto finale dell’allievo è stata demandata alle singole commissioni di esame. Nell’anno scolastico 2009-2010 il ministero ha deciso che la prova dovesse contribuire per un sesto sul voto finale. Nella concreta applicazione della prova nazionale i punteggi attribuiti alle singole prove erano tutti compresi nel range di voti tra 4 e 10. Pertanto la differenza massima nel punteggio finale tra chi ha fatto molto bene nella prova nazionale e ha avuto un 10 e chi non ha fatto altrettanto bene e ha avuto un 4 è di un voto. Quest’anno il peso della prova nazionale è ulteriormente sceso a un settimo.
È credibile che una prova standardizzata con effetti di questa entità sui voti degli studenti  nell’esame di terza media produca i guasti di cui si è parlato sulla stampa in questi giorni?

*Piero Cipollone è ex presidente Invalsi

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La nostra nota sull’importanza dei test di competenza disciplinare  messi a punto dall’Invalsi e sull’insensatezza dell’opposizione manifestata da vari insegnanti e studenti, soprattutto delle  superiori conteneva un’inesattezza (dovuta a ristrette di tempi e di spazi), riprodotta, poi, anche nell’articolo di Tito Boeri apparso su La Repubblica di domenica 22 maggio. L’inesattezza è consistita nel sostenere che lo studio di Irvapp era basato sui test Invalsi. Avremmo, invece, dovuto dire – com’è chiaramente indicato nel sito web di Irvapp – che l’Istituto si era avvalso della collaborazione degli esperti dell’Invalsi per mettere a punto – utilizzando una serie di quesiti estratti da quelli presenti nel repertorio di Pisa, ma non mai precedentemente utilizzati in scuole secondarie superiori italiane –  tre test  di competenza (comprensione della lingua italiana, conoscenze matematiche  e conoscenze scientifiche). Questa precisazione non ha, tuttavia, alcuna incidenza sulla fondatezza delle argomentazioni presentate nella nostra nota, né in quelle presentate da Tito Boeri nell’articolo di Repubblica. Vediamo perché.
Va, in primo luogo, chiarito che esiste un corpo consolidato di teorie e di procedure tecniche che governano la costruzione dei test di competenza cognitiva e la loro validazione, così come il calcolo dei punteggi espressivi dei livelli di abilità posseduti dagli scolari e studenti oggetto di rilevazione. (si veda, ad esempio, L. Boncori, Teoria e tecniche dei test, Torino, Bollati Boringhieri). Naturalmente, come ogni branca della scienza anche queste teorie e queste procedure tecniche sono suscettibili di continui perfezionamenti. È, però, altrettanto certo che quelle al presente disponibili funzionino più che bene e che tutti paesi avanzati utilizzino test di competenza analoghi a quelli messi a punti dall’Invalsi per misurare la preparazione raggiunta dai singoli allievi e, con essa, i livelli di funzionalità delle singole classi, delle singole scuole e da interi sistemi scolastici. Né, a questo proposito vale obiettare che ogni allievo è diverso da ogni altro, né che ogni classe è diversa da ogni altra, né, infine, che ogni scuola è diversa da ogni altra. I test in questione sono costruiti in modo da limitare e da controllare gli effetti dei condizionamenti sociali e culturali extra-scolastici che possono influire sugli apprendimenti. E, in ogni caso, le analisi statistiche condotte sui risultati dei test sono in grado di fare emergere eventuali fattori strutturali (diverse dotazioni finanziarie, edilizie e didattiche delle singole scuole, ma anche diversa capacità e diverso impegno dei singoli docenti e diverse posizioni sociali e dotazioni culturali delle famiglie e degli alunni) in grado di produrre sistematiche variazioni nei rendimenti scolastici degli allievi. È per questo che nella nostra nota abbiamo affermato che i test dell’Invalsi sono importanti al fine di mettere a punto politiche capaci di garantire una maggiore equità delle chance di apprendimento disponibili ai bambini, agli adolescenti e ai giovani italiani e, con esse, di migliorare il funzionamento dell’intero sistema scolastico. Due ultime battute.
Non abbiamo mai pensato e non abbiamo scritto nella nostra nota che le competenze rilevate dai test esauriscano gli apprendimenti promossi dalla scuola, né che quest’ultima abbia solo funzioni di istruzione. Ma è certo che il compito principale della scuola – e la ragione per cui essa si configura come una vera e propria istituzione sociale – consista nella trasmissione di modelli e strategie di pensiero efficaci, di rigorose conoscenze teorico-disciplinari e di utili abilità pratiche. E i test sono ottimi strumenti per consentire se davvero la scuola assolva ai suoi compiti istituzionali. Una semplice ispezione dei test usati dall’Invalsi per la seconda classe delle secondarie superiori e dei test Pisa fa vedere a chiunque non sia ideologicamente prevenuto che tra i due esiste una piena corrispondenza di impianto. Bisognerebbe, dunque, chiedersi perché i test Pisa siano accettati dai sistemi scolastici di decine e decine di Paesi e perché, invece, il sistema scolastico italiano debbano rifiutare quelli dell’Invalsi. L’ipotesi che l’Italia e – il che è peggio –  i suoi insegnanti siano refrattari a misurazioni e valutazioni oggettive è pertanto una possibilità da non escludere.

L’INVALSI È DEMOCRATICO

La raccolta sistematica di basi informative sulle competenze scolastiche non si configura come una forma di soffocamento della ricchezza culturale della scuola con ignobili quiz. Né come un tentativo di limitare la libertà di insegnamento. Al contrario, è uno strumento necessario per mettere a punto politiche scolastiche in grado di utilizzare nel modo migliore il denaro pubblico e garantire una maggiore efficacia dei processi di apprendimento, una più equa distribuzione delle risorse educative e una riduzione delle disuguaglianze sociali. Di scuola e università si parlerà a Trento nei giorni del Festival dell’economia.

GIOVANI, CARINI E DISINFORMATI

L’alfabetizzazione finanziaria dei giovani è un problema serio. Ed è la scuola che se ne deve occupare. In primo luogo, perché la famiglia non appare oggi preparata a fornire alle nuove generazioni un supporto educativo completo in questo ambito. Ma anche perché si registra un crescente interesse verso l’economia e la finanza tra i ragazzi che partecipano a progetti con modalità didattiche basate sulla partecipazione attiva e su esperienze percepite come reali. I risultati di una ricerca sui preadolescenti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

UNA NUOVA RISPOSTA DEGLI AUTORI

Desideriamo ringraziare i lettori dei commenti ricevuti che ci hanno sollecitato nuove riflessioni.
A differenza dei fiaccherai che dovevano far riposare il cavallo (e il cocchiere) per un certo numero di ore al giorno, i tassisti (che sono i loro successori per quanto riguarda gli assetti regolatori) hanno  tutto l’interesse a sfruttare il loro bene capitale (l’auto) 24 ore al giorno (o per lo meno tanto quanto trovano conveniente). Il problema è che  il valore dell’auto decresce col chilometraggio e con l’età. Vincolarne l’uso a un numero prefissato di ore giornaliere tende ad aumentare i prezzi per gli utenti dei servizi di taxi, dovendo i costi fissi essere spalmati su un fatturato più basso. 
Il superamento della licenza individuale separa la proprietà dell’auto dall’autista e favorisce un più intenso sfruttamento del bene capitale costoso (suddividendo la giornata di guida tra una pluralità di autisti). Tali evoluzioni non hanno effetti sulla qualità del servizio che dipende dal controllo esercitato dai Comuni sulle caratteristiche e sulle conoscenze (stradali) degli autisti. Peraltro eliminare l’obbligo della licenza individuale, non conduce alla sua scomparsa, ma, come avviene per esempio nella distribuzione commerciale, consente la coesistenza di strutture organizzative diversificate e in grado di servire clientele di tipologie diverse.
In ogni caso, anche con assetti di mercato meno irrigiditi dovrebbe essere mantenuto a tutela degli utenti il controllo sulle tariffe massime, lasciando liberi i tassisti di abbassare le tariffe se lo desiderano. Relativamente agli altri obblighi di servizio pubblico (servizio notturno o festivo per esempio), essi potrebbero essere gestiti attraverso opportuni sventagliamenti tariffari.
In relazione al numero ottimale di licenze, la teoria economica sostiene che, non essendoci un costo (né privato né sociale) associato all’emissione  della licenza, il suo valore di mercato dovrebbe essere prossimo allo zero. Ne consegue che un valore della licenza di centinaia di migliaia di euro è una misura dell’inefficienza del mercato innescata dalla regolazione. In Irlanda, per esempio, a seguito della liberalizzazione, una licenza di taxi a Dublino era passata da circa 150000 EUR a 30000.
In Irlanda la liberalizzazione ha condotto a vantaggio degli utenti a riduzioni delle tariffe e, soprattutto, dei tempi di attesa. Tuttavia i tassisti esistenti rischiavano di subire perdite considerevoli come conseguenza della riduzione di valore della licenza, indebolendo la “protezione assicurativa” che il possesso della licenza garantiva loro. Per evitarlo, l’aumento del numero delle licenze, ottenuto concedendo gratuitamente a ciascun tassista una licenza in più e poi liberalizzando il mercato, è stato  accompagnato da interventi di sostegno per rimborsare  i tassisti più anziani delle perdite in conto capitale subite. Si è trattato di provvedimenti essenziali per il successo e l’accettazione della riforma.
In questo senso, la famosa lenzuolata di Bersani aveva permesso che i Comuni mettessero all’asta le nuove licenze, con ristorno di parte del ricavato a favore dei tassisti esistenti per compensarli della riduzione del valore delle loro vecchie licenze. Ricordiamo la fiera opposizione delle organizzazioni dei tassisti e il mancato utilizzo della possibilità offerta dalla norma da parte delle amministrazioni comunali.

 

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI – 1 MARZO

I tassisti forniscono un servizio pubblico. Non sono un’associazione a delinquere. Il termine non doveva essere usato. Si tratta di una categoria in difficoltà che, al calare dei ricavi e del chilometraggio, cerca di difendere il proprio reddito reclamando un aumento delle tariffe. L’articolo sostiene che in tali circostanze l’aumento dei prezzi è una risposta miope che rischia di ridurre ulteriormente ricavi e profitti. All’aumentare dei prezzi infatti il chilometraggio diminuirà  ancora ed è un’illusione ritenere che esso abbia raggiunto il fondo. Una riduzione dei prezzi, peraltro la risposta di mercato agli eccessi di offerta,  potrebbe risolvere il problema, rendendo il servizio taxi  più attraente per tanti utenti, già oggi scoraggiati dalle tariffe elevate. L’articolo intendeva essere a favore dei tassisti romani, non contro di loro.
Molti commenti ricevuti riguardano la  liberalizzazione del servizio taxi, questione che non è stata affrontata nel nostro scritto. E’ utile ricordare al riguardo che ogni liberalizzazione del servizio taxi deve quanto meno:  1) condurre al superamento dell’individualità della licenza e consentire la nascita e la crescita di società di taxi; 2)  considerare l’importanza sociale di rimborsare i tassisti, per lo meno in parte e probabilmente solo i più anziani, della corrispondente riduzione di valore delle licenze. Le caratteristiche del servizio richiedono in ogni caso e a beneficio degli utenti una qualche forma di controllo amministrativo sulle tariffe.

FINANZIAMENTI PRIVATI PER UNIVERSITÀ PUBBLICHE

La riforma prevede la presenza obbligatoria di un numero minimo di rappresentanti esterni nei consigli di amministrazione delle università. I portatori di interessi dovrebbero assicurare un vero impegno attraverso adeguati investimenti. Che naturalmente dovrebbero inserirsi in un quadro regolamentare che ne preveda una specifica finalizzazione. Perché inutile illudersi: non si può fare affidamento sulle sole risorse statali. Meglio allora chiamare gli stakeholder realmente interessati all’istruzione superiore ad assumersi fino in fondo le loro responsabilità.

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