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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 46 di 70

L’università della conservazione

Introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni: sugli obiettivi della riforma dell’università esisteva fino a poco tempo fa un consenso molto ampio. Che sembra ora evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti individuati per realizzarla e le parole d’ordine si fanno sempre più ideologiche. Se la riforma non sarà approvata, i propositi di modernizzazione saranno abbandonati e prevarrà la conservazione dello status quo.

 

La risposta ai commenti

Nei commenti dei lettori sono state poste due questioni inerenti il diritto allo studio universitario: l’’età per accedere alla borsa di studio, l’’importo di borsa relazionato al costo della vita.
In Italia non esiste un limite di età per beneficiare della borsa di studio ma i criteri che determinano l’’idoneità sono esclusivamente due: quello economico, avere un valore ISEE inferiore ad una certa soglia, e quello di merito, acquisire un determinato numero di crediti in relazione all’’anno di iscrizione. Ne consegue che quando si parla di borsisti non necessariamente si parla di “sbarbatelli”. In Piemonte, ad esempio, il 2% dei borsisti ha oltre 35 anni; il borsista più anziano ha 71 anni.
Differentemente, in Francia e Germania hanno diritto al sostegno economico gli studenti che non abbiano compiuto, rispettivamente, 28 anni e 30 anni, sebbene in Germania sia in discussione l’’innalzamento del limite di età a 35 anni.
Anche questo dovrebbe essere un argomento da prendere in esame in sede di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
In merito al commento che giustificherebbe le differenziazioni regionali in ragione sia della competenza regionale in materia di diritto allo studio sia dei differenti costi di vita, il discorso è più articolato e difficile da sintetizzare in poche righe. In primo luogo, il “riformato” Titolo V della Costituzione stabilisce che l’’autonomia legislativa delle Regioni è limitata dalla competenza esclusiva del legislatore statale, cui spetta definire i livelli essenziali delle prestazioni per garantire nel paese l’’uniformità delle condizioni di vita. In attesa che avvenga tale definizione vige la normativa attuale, che da talune Regioni non viene rispettata quando fissano degli importi di borsa inferiori al livello minimo previsto, e che presenta il limite di non specificare quali costi la borsa intenda coprire.
Ne consegue che gli importi differiscono da regione a regione senza che vi sia un fondamento oggettivo a tali differenze. Un esempio su tutti: l’’importo massimo di borsa dello studente in sede è pari a 2.430 euro in Puglia, a 2.510 euro in Lombardia, a 2.083 euro in Piemonte ed a 1.000 euro in Toscana: è evidente che questi non riflettono i diversi costi di mantenimento. L’’importo massimo è poi ridotto in base a differenti criteri, così come è diverso l’’importo detratto dalla borsa dello studente fuori sede beneficiario di posto letto, da 1.500 euro a 2.200 euro, e quello detratto per il servizio ristorativo. La difformità non poggia su motivi fondati.
Sarebbe necessario che lo Stato nel riformare la materia del diritto allo studio esplicitasse quali costi di mantenimento la borsa di studio debba sostenere, e conseguentemente il metodo di calcolo dell’’importo di borsa che dovrebbe essere lo stesso per tutti gli studenti, come accade nella federale Germania. Regole certe, chiare e uguali per tutti su tutto il territorio nazionale probabilmente favorirebbero anche la diffusione di informazione sulla possibilità di sostegno: le analisi condotte in Piemonte dimostrano che vi è circa un 40% di studenti iscritti al primo anno che non presenta domanda di borsa pur avendone diritto.

L’università dell’incertezza

La riforma dell’università , contestata da studenti, ricercatori e opposizioni, sembra ormai l’ultima bandiera di un governo in difficoltà. Ma richiede decine di decreti attuativi e tempi lunghi per la sua applicazione. E dunque, se approvata, finirà per aggiungere un’ulteriore dose di incertezza nel mondo universitario. Intanto, sui finanziamenti per l’anno in corso e per il futuro regna la confusione, i concorsi sono bloccati e la valutazione della ricerca è ferma al 2001-2003.

 

La mobilità accademica nella proposta di riforma

In un articolo apparso su lavoce.info Giovanni Abramo sogna di creare nuove università riservate a bravi scienziati. Certamente il nostro paese ha forte bisogno di tali istituzioni, ma allo stato attuale delle cose non è pensabile che si riescano a trovare risorse ex-novo per un simile progetto. Inoltre, non è detto che trovare risorse sia sufficiente a garantire il risultato auspicato, come insegna la storia recente di alcune istituzioni di ricerca nate per essere trasparenti ed eccellenti, ma che veleggiano in direzione completamente diversa.
Molto probabilmente un sistema di migrazione spontaneo del corpo docente potrebbe essere il sistema più efficiente per la formazione di poli di eccellenza, ma in Italia la mobilità accademica è rara. Giusto per avere un’idea, esaminando i 15.232 concorsi universitari, svolti tra marzo 1999 e luglio 2002, si scopre che di tutti i docenti immessi in ruolo solo 202 non provenivano dalla stessa università.
Il fatto che un sistema universitario aperto e capace di mescolarsi sia un vantaggio è cosa acclarata e lo stesso Miur ha già dichiarato di credere in questo valore in quanto nella valutazione dei risultati dell’attuazione dei programmi delle Università (D.M. 18 ottobre 2007, n. 506) l’indicatore E2 premia la proporzione dei punti organico utilizzati per assunzioni di professori ordinari e associati precedentemente non appartenenti all’Ateneo. Purtroppo questo e la legge Zecchino per la mobilità non sembrano, dati alla mano, bastare, e bisogna fare qualcosa di nuovo.

LA PROPOSTA

L’azione che auspichiamo è semplicissima: i singoli docenti universitari devono essere i comodatari del proprio budget. Quindi i concorsi a trasferimento diventano a costo zero. In caso di trasferimento di un docente viene contestualmente anche trasferita la risorsa retributiva. Quando un docente si pensiona (o cessa il servizio) il suo budget viene assegnato d’ufficio all’ateneo dove in quel momento egli prestava servizio.
Tecnicamente basta modificare di poco il punto del Ddl oggi in discussione dove si parla di federazione e fusione di atenei e razionalizzazione dell’offerta formativa, autorizzando gli Atenei, soggetti a valutazione positiva da parte dell’Anvur, a coprire posti di ruolo tramite trasferimento di professori e ricercatori da altro Ateneo con contestuale trasferimento della risorsa retributiva.
Naturalmente è necessario che gli Atenei che bandiscono i posti siano incentivati ad aumentare la propria qualità dal punto di vista della didattica e della ricerca. Questo pone un limite al numero dei concorsi a trasferimento e garantisce che l’Ateneo opererà una selezione all’ingresso. Si può anche pensare ad un meccanismo che permetta solo trasferimenti vincolati su base di progetti di alto livello scientifico confermati dalle valutazioni Anvur.
Facciamo presente che nel collegato alla Finanziaria 2010 l’articolo12 già prevede: “in caso di trasferimento di un docente dalla Scuola Superiore di Economia e Finanze ad Università Statale viene anche trasferita la risorsa retributiva”.

IMPLICAZIONI DELLA PROPOSTA

A livello diretto per i docenti questa norma non può che essere vantaggiosa in quanto  non coercitiva. Anche per gli atenei riceventi si hanno solo vantaggi. Supponiamo che in un ateneo virtuoso un docente si pensioni. Il Ministero toglie il 50 per cento del budget del pensionato. Se viene bandito un posto a trasferimento e l’ateneo possiede capacità attrattive non ci sono grossi problemi. Infatti, non solo si riesce a mantenere invariata la proposta didattica grazie al trasferimento, ma il 50 per cento del pensionamento diventa una risorsa aggiuntiva. Certo per l’ateneo di provenienza del trasferito si ha una perdita secca del 100 per cento e maggiori problemi.
Questa norma ha naturalmente molte altre conseguenze. Per esempio, essa permette un auto-riordino delle sedi decentrate. Siccome, oggi, la coperta corta i vari trasferimenti permetterebbero di mettere a nudo le sedi che si reggono sul nulla, dove magari i docenti sono quasi esclusivamente pendolari. Inoltre la norma permette all’autonomia universitaria di diventare più democratica: ogni docente diventa attore di un piccolo pezzo di autonomia, un qualcosa che adesso troppo spesso è in mano a gruppi di potere piuttosto che ai docenti più seri. Quindi un docente potrebbe trasferirsi perché in disaccordo con la politica del proprio ateneo, oppure perché stufo del provincialismo del proprio dipartimento dove un settore scientifico-disciplinare comanda tutto e bandisce posti solo per i notabili della zona.
Soprattutto questa norma darebbe la possibilità di costituire gruppi di ricerca più efficienti ed efficaci per esempio dove ci sono interessanti facilities sperimentali ed in generale dove esiste più attenzione per la ricerca. Infatti, chiaro che solo i docenti attivi e di buona qualità hanno un vero interesse verso la mobilità. Questo sarebbe un primo passo verso l’idea di Giovanni Abramo. Certo, Abramo sogna molto di più ma questa norma a costo zero e ha il vantaggio di non basarsi su difficili ed improbabili esercizi legislativi.

CONCLUSIONI

Non bisogna nascondere che questa norma possa essere anche fastidiosa. Gli equilibri di potere nelle università potrebbero diventare più mutevoli e sappiamo che questo è un problema per chi vive nei corridoi dei rettorati o per chi vuole sistemare dei protetti. Per questo motivo la nostra proposta, avanzata già in altre sedi di discussione tra docenti universitari, ha sollevato molte reazioni negative. Purtroppo il nostro sistema universitario ha paura di qualunque cambiamento. Paura che i trasferimenti alterino gli equilibri di potere. Paura che arrivi uno bravo sul serio a perturbare la quiete del fannullone. Paura che l’ateneo marginale scompaia nel nulla. Paura che l’Università in Italia diventi una cosa seria.

La risposta ai commenti

Nel ringraziare i lettori che hanno commentato il mio articolo, vorrei fornire qualche doveroso chiarimento.

Innanzi tutto per completezza di informazione (in un breve articolo non si può dire tutto e quello pubblicato l’’ho dovuto accorciare di più della metà per farlo entrare nelle dimensioni standard de La Voce) gli otto ranking da me presi in considerazione e sintetizzati nella figura 1, sono: (1) Higher Education Evaluation & Accreditation Council of Taiwan; (2) Academic Ranking of World Universities, Shanghai Jiao Tong University (Cina); (3) Times Higher Education World University Ranking; (4) Webometrics Ranking of World Universities, Cybernetics Lab del Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC), Spagna; (5) Quacquarelli Symonds World University Rankings; (6) International Professional Classification of Higher Education Institutions – École des Mines, ParisTech; (7) Centre for Science and Technology Studies, Leiden University; (8) Global Universities Rankings della Rating of Educational Resources, Russia. Non ho invece tenuto conto dello Scimago Institutions Ranking, Granada University (Spain), perché in esso è fatto solo sul numero delle pubblicazioni, senza pesare i vari criteri e quindi senza pervenire ad un indice unitario, con inevitabili distorsioni (gli enti più grossi, come i vari enti di ricerca nazionali con staff di migliaia di persone, sono chiaramente avvantaggiati).
Il ranking citato da più lettori (in cui non vi sono università italiane tra le prime 200, che è verosimilmente anche quello presentato dal Corriere della Sera) e che ha fatto recentemente scalpore nei mass media è quello del Times Higher Education che, –come chiarifico in un altro mio articolo, – ha la caratteristica di non essere basato solo sulla qualità della produzione scientifica calcolata in base a criteri bibliometrici (impat factor ecc.), ma su tanti altri parametri. La qualità della produzione scientifica incide solo per il 35%. Invece quello da me citato (HEEACT) fa una classificazione interamente basata sui criteri bibliometrici (come anche qualche altro tra gli otto citati). Per cui non è corretto sospettare che qualcuno mente e qualche altro dice il vero: semplicemente i parametri presi in considerazione dai diversi ranking sono diversi. Se, ad es, si prende in considerazione anche il rapporto tra le università e le industrie come criterio di valutazione (come fa il Times Higher Education), allora è evidente che le università italiane risultano svantaggiate rispetto a quelle degli USA. Purtroppo, spesso, di queste differenze non si tiene conto nei discorsi che si fanno.
Nonostante le diversità tra i vari ranking, tuttavia, ho voluto mettere in evidenza come vi sia una convergenza degli otto esaminati nell’’indicare un certo numero di università italiane come quelle che sono piazzate tra le prime 500; alcune per un motivo, altre per un altro, ma in ogni caso presenti. Che qualche lettore veda certe anomalie rispetto alle convinzioni possedute o alla reputazione generale, dipende dal fatto che sono avvantaggiate le università che presentano il range maggiore di discipline, mentre sono sfavorite quelle specializzate (come i politecnici e la Bocconi). E questo è un importante fattore che deve essere preso in considerazione, insieme ad altri, invece di prendere le classifiche così come vengono proposte senza interro­garsi su come sono fatte. Ecco perché che il confronto tra gli otto ranking abbia almeno in parte ovviato alla parzialità che può provenire dal prenderne solo uno di essi e leggerlo come il Vangelo. Purtroppo per un lettore, non ci sono ranking sloveni; ma qualora ci fossero, basterebbe andare a vedere la metodologia che ne sta alla base e qualora essa fosse corretta non vedrei nulla di male a prenderlo in considerazione. Nel mio articolo non si vuole difendere l’’indifendibile, ma semplicemente far vedere come la situazione offerta da una valutazione comparativa dei diversi ranking (se li dobbiamo prendere sul serio) non è così semplice come ci si vorrebbe far sembrare dal prenderne in considerazione solo uno, a seconda della tesi che si vuole dimostrare.
In merito alla mia proposta sulla mobilità dei ricercatori (sganciando il loro budget dai singoli atenei), non so quante università al mondo la pratichino, ma di certo in Italia ci si lamenta della loro scarsa mobilità: ci si laurea in una università, vi si fa il dottorato e vi si diventa docenti, sino al pensionamento. E allora a mali estremi, un rimedio radicale. È ovvio che esso deve essere accompagnato da altre misure, altrimenti si potrebbero verificare le patologie lamentate da un lettore: innanzi tutto l’’università dove ci si vuole trasferire deve essere disposta ad accogliere il nuovo ricercatore, il suo corpo docente deve essere commisurato in qualche modo agli studenti e così via. Infine deve esserci una valutazione della produzione scientifica dei dipartimenti, per evitare di accogliere i ricercatori che si trasferiscono solo per motivi di comodo. Insomma la mia è una proposta che deve essere ulteriormente articolata e contestualizzata; ma mi sembra che sia comunque un forte elemento di rimescolamento e di dinamismo nella sclerotizzata realtà italiana. E poi, non si vuole arrivare alla formazione di un certo numero di università di eccellenza, con una sufficiente massa critica di ricercatori? Si cominci allora da questa innovazione.

Se il diritto allo studio non è uguale per tutti

Pochissime risorse per il diritto allo studio. A cui si aggiunge una elevata disparità di trattamento sul territorio nazionale. Nel 2009-10 solo in dieci Regioni la borsa è stata assegnata a tutti gli idonei, mentre in media uno studente su sei aventi diritto non l’ha ottenuta. Anche l’entità dell’assegno varia di Regione in Regione. Così come le detrazioni per i servizi garantiti. Una riforma è dunque necessaria. Dovrebbe ripartire dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nell’ambito del diritto allo studio e indicare chi li deve finanziare e come.

 

Le buone università ci sono, costruiamo l’eccellenza

Su università italiane e università americane ci sono alcuni luoghi comuni da sfatare. Non è vero che la situazione delle nostre sia così nera come si vuole a volte dipingerla. Né è vero che quelle di oltre oceano siano tutte eccellenti. La posizione dell’Italia nei ranking internazionali è del tutto adeguata al suo ruolo di settima potenza industriale del mondo. Se poi vogliamo creare anche da noi sedi di eccellenza, basta permettere la libera circolazione dei ricercatori. E aggiungere un rifinanziamento virtuoso degli atenei per i cosiddetti costi indiretti.

 

La risposta ai commenti

Ringraziamo le risposte fin qui giunte.
Il nostro obiettivo è quello di spostare l’attenzione sulle altre barriere che impediscono la diffusione delle reti wi-fi territoriali a larga diffusione in Italia. La nostra tesi è che purtroppo l’abrogazione del decreto Pisanu non allevierà la carenza di reti-wifi in Italia proprio perchè non elimina quelle che noi riteniamo essere le reali barriere. Secondariamente sosteniamo anche che le ragioni di sicurezza del decreto Pisanu non sono peregrine. Prova ne è il fatto che regolamentazioni à-la Pisanu esistono anche in altri Paesi (Russia, India, Uk) nonostante sulla stampa il decreto Pisanu sia stato dipinto come un unicum italiano.
Vorremmo partire dalla nostra esperienza, crediamo condivisa con la maggior parte dei lettori de Lavoce, di utilizzatori di reti wireless in mobilità sia in Italia che all’estero. Le reti ad accesso anonimo, pur presenti in molti paesi (ed anche in Italia se ne trova ancora qualcuna), sono comunque degli incontri saltuari (non puoi prevedere dove le troverai) ed inaffidabili sia dal punto di vista della qualità del servizio che da quello della sicurezza, in quanto possono essere molto facilmente dirottate (il cosiddetto spoofing). Il loro utilizzo è fonte di distrazione e perdite di tempo: si passano decine di minuti a cercare tali reti con i vari devices ed a tentare di capire perché non funzionano o perché sono intasate. Da quando la minaccia dello spoofing si è diffusa poi, noi personalmente abbiamo proprio smesso di usarle per questioni di sicurezza (sul nostro laptop abbiamo praticamente tutta la vita).
Le reti migliori, perché accessibili in continuità ed in mobilità, che si trovano dove e quando se ne ha bisogno, nei posti giusti e con la qualità e sicurezza necessaria, sono quelle aperte non anonime di cui parliamo nell’articolo. Ci sono in tutte le città europee ed americane, le trovi per strada, negli aeroporti ed in altri spazi strategici. Purtroppo sono spessissimo a pagamento. Di queste reti non ne ricordiamo una sola che fosse ad accesso anonimo. Anche l’esempio dei treni danesi portato da Silvio, siamo certi che richiedesse la registrazione di un profilo.
Se questa esperienza è in parte condivisa da altri lettori, ci poniamo le seguenti domande: come mai all’estero, almeno nei paesi dove non vige alcun obbligo alla Pisanu (eh si lo ribadiamo, il Pisanu non è un unicum italiano, vedi sotto), si sono comunque sviluppate tantissime reti che richiedono qualche forma di autenticazione? Se avessero ragione i detrattori del Pisanu -come molti dei commenti- che dicono che qualsiasi forma di autenticazione impedisce l’uso di tali reti, non dovremmo osservarne alcuna. Ed invece sembrano un florido business nel resto del mondo. Se questo è vero, vorrete convenire con noi che il decreto Pisanu non può essere la vera barriera alla diffusione di queste reti in Italia. Come può essere che imporre una forma di autenticazione impedisca lo sviluppo di reti che all’estero si sviluppano già con qualche forma di autenticazione senza alcuna imposizione legale? Noi crediamo che il paradosso è presto spiegato: il Pisanu c’entra poco o nulla con il sotto-sviluppo di queste reti territoriali. In Italia sono difficili da realizzare per gli altri motivi che individuiamo nell’articolo.
Vogliamo sottolineare che l’obbligo di autenticare le connessioni ad internet tramite wifi non è un unicum italiano. Obblighi in linea con il decreto esistono in paesi come la Russia, l’India e la civilissima Gran Bretagna. Anche li hanno ovviamente sollevato polemiche. Però questo va a conferma del fatto che il quadro del decreto Pisanu forse non è così peregrino come lo si vorrebbe dipingere e che le ragioni di sicurezza che esso solleva, che non riguardano solo i casi -magari remoti- di terrorismo, sono comunque sentiti anche in altri importanti paesi.
Alla luce di queste riflessioni noi riteniamo che il tradeoff tra sicurezza e facilità di accesso, per quanto riguarda l’accesso ad internet tramite wifi sia ormai ampiamente superato nei fatti. Sistemi di login acquistabili anche dai piccoli esercizi a costi contenuti sono in commercio. Tra le aziende che li producono ci sono anche quelle citate nei commenti. Quello che serve fare ora -lo abbiamo enfatizzato nel testo- è favorire la diffusione delle reti territoriali che sono ostacolate da normative che con il decreto Pisanu non c’entrano nulla.

La risposta ai commenti

PER GLI STUDENTI SCETTICI

Supponiamo di ridistribuire in maniera casuale tutti i calciatori delle prime 90 squadre di calcio della Lombardia, a partire dalle Serie A e B e via via proseguendo per le divisioni minori. Cosa accadrebbe a Milan e Inter nel medio termine? Retrocederebbero in campionati di divisioni minori, la partecipazione in Champions League diventerebbe un miraggio, i calciatori di talento italiani e non migrerebbero verso altre squadre, gli spettatori abbandonerebbero gli stadi, i giovani più promettenti non si iscriverebbero alle loro scuole calcio, gli sponsor non supporterebbero più i due club. Mutatis mutandis, quella descritta è più o meno la situazione delle università italiane rispetto a quelle anglosassoni. L’’Italia ha bisogno di università che stanno all’’higher education come Milan, Inter, Juventus, Roma stanno al calcio.

MERITOCRAZIA E DEMOCRAZIA

Possono convivere? Da piccolo avrei voluto entrare nelle giovanili dell’’Inter, ma non ne avevo la stoffa. Qualcun altro c’’è riuscito e io ho trovato la mia realizzazione in un altro campo (non di calcio). L’’importante è che nel mio paese ci fosse innanzitutto una Inter e a me fossero date opportunità pari agli altri per potervi accedere. E’’ inutile pretendere università omogenee perché la selezione, dopo, la fa in ogni caso il mercato (quello reale) del lavoro.

FATTIBILITA’

Perché mai Harvard, Oxford, ecc. dovrebbero saper condurre una selezione efficiente dei docenti e noi no? Basta misurare il tasso di concentrazione di top scientist dell’’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano per realizzare che anche in Italia è possibile. La proposta di policy è percorribile perché farebbe felici molti, senza scontentare nessuno.

COSTO

La progressiva chiusura delle sedi universitarie distaccate e il continuo incremento del numero delle matricole rendono in ogni caso necessario un progressivo aumento della capacità produttiva delle attuali università. Il costo incrementale di nuove università, al netto di quello per l’’espansione, è quindi relativamente basso. Il ritorno socio-economico dell’’investimento è evidentemente altissimo. Sistema produttivo e amministrazioni locali (la Provincia autonoma di Trento si è già mossa in tal senso) dovrebbero adoperarsi tutti, insieme al governo, perché ciò si realizzi. Il più grande aiuto di stato legale che possa esser fatto al sistema industriale è realizzare la gemmazione di nuove top university dalle esistenti. Where there is a will, there is a way”

La riforma dell’università parte dalla governance

L’approvazione del disegno di legge Gelmini sull’università è stata rinviata alla fine dell’anno, in attesa che governo e parlamento trovino le risorse necessarie. Una battuta d’arresto che può essere utile per introdurre nel disegno di legge quegli elementi che lo renderebbero una vera riforma. Perché così come è adesso non interviene sulla questione centrale dell’autoreferenzialità dei nostri atenei. Nuove norme sulla governance interna degli atenei sono il presupposto indispensabile per l’affermarsi della meritocrazia e per contrastare il potere dei baroni.

 

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