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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 54 di 71

UN ANNO DI GOVERNO: UNIVERSITÀ

 

I PROVVEDIMENTI

Gli aspetti più rilevanti del primo anno di attività del governo in tema di università sono i tagli al Fondo di finanziamento ordinario e l’articolo del decreto legge del 10 novembre 2008, poi convertito in legge a gennaio 2009, che stabilisce, per la prima volta in Italia, che una quota significativa delle risorse per gli atenei verrà attribuita sulla base dei risultati conseguiti.
La manovra di finanza pubblica predisposta con il decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 contiene misure rilevanti per le università. Il perno è costituito dalla riduzione progressiva, su un arco quinquennale, del Fondo di finanziamento ordinario, collegata al rallentamento degli scatti automatici di anzianità (da due a tre anni) e alla limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato. L’effetto negativo del taglio non è tanto legato ai singoli provvedimenti di riduzione o rallentamento della spesa, quanto piuttosto al fatto che è stato distribuito in modo uniforme tra tutti gli atenei. A legislazione invariata i tagli al finanziamento si faranno sentire pesantemente nei prossimi anni, rendendo difficile il necessario ricambio generazionale, il sostegno alla didattica e il finanziamento della ricerca.
Per quanto riguarda invece la quota di risorse distribuite in modo premiale, il decreto del 10 novembre stabilisce che già nel 2009 il 7 per cento delle risorse del Fondo di finanziamento ordinario dovrà essere distribuito in funzione della “qualità dell’offerta formativa, dei risultati dei processi formativi e della qualità della ricerca scientifica”. Le linee guida pubblicate dal ministero a novembre stabiliscono inoltre che nei prossimi anni la quota salirà al 30 per cento. Perché il decreto avvii una trasformazione delle università e dei comportamenti del corpo docente occorre che le regole di ripartizione del fondo siano molto nette e trasparenti: devono premiare dipartimenti, facoltà e atenei che hanno conseguito buoni risultati e non finanziare gli altri. E, all’interno di ciascun ateneo, devono individuare quali gruppi di ricerca hanno contribuito maggiormente al risultato.
Entro il 31 marzo 2009, il ministro avrebbe dovuto definire con apposito decreto in che modo la qualità dell’offerta formativa e della ricerca saranno utilizzate per ripartire i fondi. Non lo ha fatto e il ritardo è grave e inspiegabile, anche perché nei prossimi anni le università subiranno i tagli previsti dal decreto legge 133 del giugno 2008, tagli che peraltro hanno colpito tutti gli atenei, indipendentemente dai risultati conseguiti.

GLI EFFETTI

I documenti informali sui criteri con cui il 7 per cento sarà ripartito che attualmente circolano tra ministero, rettori e Cun sono preoccupanti. Mentre procede l’utilizzo di indicatori sulla performance didattica per la ripartizione dei fondi legati alla programmazione triennale 2007-9, si ventila l’utilizzo di indicatori diversi con pesi diversi per quanto riguarda l’assegnazione del fondo del 7 per cento. Con il probabile risultato che verranno individuati molteplici criteri, nominalmente riferiti a qualità della didattica e della ricerca, ma di fatto fortemente correlati alla spesa storica delle singole università. Basti dire che nella programmazione triennale gli atenei possono scegliere i pesi da assegnare agli indicatori sulla base dei quali verranno assegnati loro i fondi. Vale la pena di ricordare che una valutazione efficace deve basarsi su pochi indicatori, chiaramente comprensibili da chi deve essere valutato e deve riguardare delle variabili di risultato che siano chiaramente sotto il controllo degli atenei. A titolo di esempio, il numero dei corsi attivati, il numero e la qualità delle pubblicazioni scientifiche, l’impatto delle pubblicazioni sulla comunità scientifica. Se così non fosse, la frustrazione nel mondo accademico sarebbe enorme, anche tra coloro che avevano guardato con favore a riforme basati sul merito e la valutazione.
È imminente la presentazione di un disegno di legge di riforma della struttura organizzativa e di governo delle università, della quale circolano svariate versioni. Dovrebbe prevedere una riduzione dei compiti delle facoltà a beneficio dei dipartimenti, un tetto massimo alla rieleggibilità negli organi di governo e l’ingresso di soggetti esterni nell’amministrazione economica degli atenei. Sembra accantonata la progettata trasformazione degli atenei in fondazioni di diritto privato.
Nel corso dell’anno il ministro ha anche più volte annunciato un piano di riforme con un disegno di legge sulle regole di reclutamento dei professori universitari, la governance e lo stato giuridico. Sempre stando alle anticipazioni, si tratterebbe di una legge delega al governo, che avrebbe un anno di tempo per varare un nuovo sistema di reclutamento, apparentemente centrato su un’idoneità da conseguire a livello nazionale e decisioni di reclutamento e promozioni prese a livello locale. Questo iter potrebbe prolungare l’attuale blocco delle assunzioni per almeno altri due anni (tra approvazione della legge delega e varo dei decreti delegati), arrivando facilmente al 2012. Se si considera che le uscite del personale docente previste tra 2009 e 2012 si posizionano tra 1.500 e 2mila unità per anno, ci si ritroverebbe al varo della nuova modalità di reclutamento con un arretrato di rimpiazzi necessari compreso tra 6mila e 8mila unità, ingolfando immediatamente le nuove procedure con migliaia di domande di partecipazione.

OCCASIONI MANCATE

L’impianto generale dei progetti annunciati – ad esempio per quanto riguarda l’abolizione dei concorsi esclusivamente locali e una maggiore indipendenza dei rettori dai corpi accademici – è condivisibile, ma una cattiva partenza sulla ripartizione del 7 per cento e una dilatazione dei tempi avrebbe un effetto fortemente negativo sull’efficacia di un processo di riforma.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo chi ha voluto commentare il nostro articolo. Alcuni argomenti sono largamente condivisibili, come i dubbi che sorgono sulla necessità di iniziare la riforma del sistema scolastico proprio dalla scuola primaria, che in realtà presenta buone performance. E’ anche utile sottolineare la difesa dei moduli, oltre che del tempo pieno.

Sintetizziamo e tentiamo di rispondere agli scetticismi principali avanzati verso le nostre argomentazioni:

  1. il tempo pieno non fa bene al bambino, perché troppe ore a scuola sono pesanti e negative per il suo apprendimento. Si tratta di un argomento condivisibile, ma privo di fondamento scientifico. Come abbiamo sottolineato, l’organizzazione e la qualità del tempo pieno sono fondamentali.
  2. Se il lavoro è scarso, è meglio darlo ai padri prima che alle madri. Si tratta in questo caso di un giudizio culturale. Dal punto di vista scientifico è privo di fondamento, in quanto basato sull’idea (non necessariamente vera) che il numero di posti di lavoro sia fisso e uomini e donne perfettamente sostituibili.  
  3. E’ meglio scegliere serenamente chi dei due deve restare a casa invece di chiedere più servizi. Anche in questo caso si tratta di un giudizio culturale che non condividiamo: il superamento della divisione dei ruoli e la promozione della doppia carriera sono essenziali nella società attuale, per proteggere dai rischi, sempre più diffusi, di lavoro e anche di scioglimento delle famiglie.
  4. Il part-time e il telelavoro potrebbero essere la vera soluzione invece che il tempo pieno. Su questo punto c’è molta confusione e il dibattito suscitato dal nostro articolo si è argomentato in maniera confusa e anche poco corretta. Occorre sottolineare alcuni aspetti: (i) in Italia il part-time è poco diffuso e il telelavoro ancora meno; (ii) spesso il part-time è una scelta irreversibile; (iii) il part-time si associa a forme di discriminazione verticale, che relegano le donne in mansioni meno prestigiose e meno remunerative. Se l’obiettivo è promuovere la doppia carriera all’interno della famiglia, e non solo l’occupazione di entrambi i partner, puntare tutto sul part-time può essere fuorviante.
  5. I tagli degli insegnanti porteranno grandi risparmi. Il decreto sugli organici, approvato in via definitiva, prevede dal primo settembre un taglio di 42100 posti. La Campania conquista il primato con 5645 cattedre soppresse, segue la Sicilia con 5020, la Puglia con 3600 e la Calabria con 2800. Aumentano gli alunni, ma calano i professori e di conseguenza il livello del servizio offerto. Si consideri, inoltre, che in Italia la spesa per istruzione primaria e secondaria pubblica (dati in percentuale del PIL) è inferiore rispetto alla maggioranza dei Paesi Ue, ad eccezione di Grecia e Germania (Eurostat, “Population and social conditions”, 2008).

La nostra preoccupazione riguarda principalmente l’organizzazione e la qualità del tempo scolastico e la promozione di un modello di riferimento in cui non prevalga la divisione dei ruoli tra padre e madre. I tempi lunghi della scuola potevano aiutare in questa direzione.

IL PONTE SUL FUTURO

Secondo il Corriere della Sera la ricognizione ministeriale sull’edilizia scolastica è in dirittura d’arrivo. Questa è una buona notizia. L’anagrafe delle strutture scolastiche potenzialmente pericolose era iniziata nel ’96 ma nessun governo l’aveva portata a termine. Un plauso va quindi al Ministro Gelmini. Dopo un inizio sconcertante, basato su proposte irrilevanti (voti al posto dei giudizi), dannose (il maestro unico) o inutilmente populiste (il "libro unico"), che sembravano indicare che il Ministro avesse in mente di riportare la scuola italiana agli anni ’70, c’è stata una decisa correzione di rotta. La flessibilità promessa alle famiglie nello scegliere l’impegno scolastico dei figli, garantendo il tempo pieno a chi ne facesse richiesta, e adesso l’anagrafe dell’edilizia scolastica mostrano un approccio meno ideologico e più orientato ad affrontare i problemi della scuola. Ma il resoconto del Corriere è impietoso. Dei 43 mila edifici scolastici, solo un terzo è stato costruito negli ultimi trenta anni! Più di mille sono stati costruiti prima dell’Ottocento e più di tremila tra il 1800 e il 1920. Di quasi 7mila edifici non si sa neanche la data di costruzione. Dopo il 1990 solo il 22% delle strutture è stato ristrutturato. Sono cifre indegne di un Paese civile, senza voler usare l’aggettivo “sviluppato”. Una scuola in cui le aule sono pericolose, ma anche semplicemente una scuola in cui i bagni non sono utilizzabili, in cui mancano palestre e laboratori, senza parlare di strutture didattiche di supporto come i PC, è una scuola in cui motivare i ragazzi allo studio è un’impresa ardua. Ci saranno, lo immaginiamo, i benaltristi, quelli secondo cui ben altri sono i problemi della scuola italiana. E’ vero, la scuola italiana ha molti altri problemi, ma i numeri di queste anticipazioni sono semplicemente inaccettabili. Non si può morire schiacciati dal cedimento di un soffitto in un’aula di lezione come a Rivoli e come ieri poteva capitare in una scuola materna a Verona. Le priorità sono importanti per un governo: prima del ponte sullo Stretto si rinnovino le scuole italiane, il ponte sul futuro dei nostri figli. Servirà anche a rilanciare l’economia, perché i lavori per le manutenzioni, a differenza di quelli per il ponte, si attivano subito.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

1. Situazione al Nord
Parlo del Sud perché ne ho esperienza diretta. Al Nord, almeno stando ai risultati PISA, credevo che la situazione fosse migliore.

2. Soluzioni
Non penso di avere la soluzione in tasca, e non penso che quello che succede all’estero sia sempre giusto. Sono sicuro solo del fatto che non è bene ignorare il problema.

3. L’Arte, il Bello e la Storia
L’asserzione sulle dieci materie come bene di lusso e’ per me estremamente sofferta. Quando piango ascoltando un pezzo di musica poi penso spesso Ma uno
che queste cose non le prova mai che vive a fare? I miei quattro piccoli figli studiano tutti musica anche se nessuno di loro è un talento. Penso anche che
uno che sa la Storia è diverso da uno che non la sa. Dico di più. Qual è oggi la differenza fra destra e sinistra? La mia risposta è: delle tre cose importanti della vita, Salute Amore e Lavoro, per uno di destra il Lavoro viene prima dell’Amore, per uno di sinistra è il contrario. Purtroppo la mia opinione qui ed ora è quella che ho espressa nell’articolo. Perché se non si comincia col sapere l’Italiano tutto il resto non arriva.

QUANTI RISCHI NELLA RINUNCIA AL TEMPO PIENO

Tra fine marzo e aprile si decide il numero di insegnanti assegnati a ciascuna scuola. Si capirà dunque qual è il futuro del tempo pieno, al di là del gran numero di famiglie che continua a sceglierlo. La riduzione di questo modello di organizzazione scolastica ha conseguenze importanti. Non solo il probabile peggioramento della qualità dell’insegnamento e una minore capacità di recupero degli svantaggi sociali. Ma anche un ostacolo all’occupazione femminile e un passo indietro nel percorso verso il superamento della divisione dei ruoli all’interno della famiglia.

I DISASTRI DELLA SCUOLA CHE PROMUOVE TUTTI

Se descrivessimo il sistema dell’istruzione in Italia con la terminologia della finanza, apparirebbe evidente che almeno al Sud avviene ogni anno un indiscriminato salvataggio dell’impresa-scuola, con una sopravvalutazione dell’attivo, ovvero delle competenze degli studenti diplomati. La conseguenza ・una universit・fortemente sovradimensionata. Mentre sarebbe necessario ricominciare a investire nella scuola dell’obbligo, con risorse progettuali oltre che finanziarie. Per esempio, si potrebbero misurare i progressi non solo per anno, ma anche per materia.

IDENTIKIT DEL LAUREATO-INSEGNANTE

Lungi dall’essere un corpo omogeneo, l’universo degli insegnanti è al suo interno molto differenziato. Significative le differenze nei meccanismi e nei fattori di selezione e autoselezione in entrata dei laureati-insegnanti. Ciò riflette differenti motivazioni culturali, ma anche la presenza di asimmetrie nelle opportunità occupazionali e professionali, effettive o percepite. L’unico elemento comune a tutti sembra essere l’elevata quota e la lunga durata della condizione di precarietà. I risultati di una indagine della Fondazione Agnelli su dati Almalaurea.

L’UNIVERSITA’ DELLE CATTEDRE GRIGIE

I professori universitari italiani sono i più vecchi d’Europa e godono del privilegio di andare in pensione più tardi dei colleghi europei senza dover produrre risultati scientifici. Il decreto legge 180/08 del ministro Gelmini fissa le quote d’immissione dei giovani ricercatori nel sistema universitario, ma non affronta il nodo dell’età pensionabile dei docenti ordinari. All’università serve una riforma che diminuisca rapidamente il numero degli ordinari, preservando al contempo la trasmissione del sapere fra le generazioni.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

 È importante sottolineare fin dall’inizio che avevo tentato di fare un discorso sui bilanci a rischio degli atenei Italiani. Specialmente quelli che avevano sforato il tetto del 90 percento del FFO per spese di personale di ruolo. E avevo – sia pur brevissimamente – individuato la fragilità di tali bilanci nell’espansione, senza piano di lungo periodo, del personale di ruolo. Data la rigidità dei bilanci e i tagli previsti del FFO mi sono concentrato su questo tipo di personale accademico.
Alcuni commenti fanno una questione di dati, altri di classificazione più dettagliata e di omogeneità, altri infine di stipendi. Non entro, tuttavia, nel dettaglio di ciascun commento che, seppur interessante, mi porterebbe lontano dal punto che volevo sottolineare. Questa volta, la "carenza di dati" si riferisce alla California. Voglio dire che, per fortuna, in California non esiste un Ministero dell’Università e dellaRicerca. Per questo motivo non esiste una banca dati centralizzata come quella del MIUR da cui si possono attingere in breve tempo e con grande dettaglio le informazioni sull’Università italiana nel suo complesso, pubblica e privata.
Per la California, dunque, occorre fare un lavoro certosino (dipartimento per dipartimento) e può darsi che abbia commesso un errore di sottostima, errore che mi ero proposto di evitare includendo tra il personale di ruolo in California anche i professori assistenti, che di ruolo non sono.
So bene che nei dipartimenti delle università in California ruotano (cioè sono impiegate) categorie come visiting professors, lecturers(molti non di ruolo), professori emeriti (pensionati, non a carico del bilancio dell’università ma del fondo pensione), post-doctoral fellows e graduate students.
Queste categorie permettono flessibilità nell’organizzazione della didattica. Tali categorie sono state escluse nel mio conteggio, così come descritto nell’articolo.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Come era prevedibile, una parte dei commenti si è divisa in due fronti contrapposti. Da un lato quelli che plaudono a “un articolo finalmente controcorrente”, come ha scritto un lettore, e che “scava fra le macerie del provincialismo”, come ha scritto un altro. Dall’altro quelli che vi hanno visto “una difesa d’ufficio”, o addirittura l’espressione di “una casta che intende perpetuare i propri privilegi”. La maggior parte dei lettori che hanno scritto un commento, tuttavia, entrano nel merito, con osservazioni interessanti per le quali li ringrazio.
Poiché la proliferazione dei corsi di laurea è stata un effetto della riforma del 3+2, un primo gruppo di commenti si sofferma su questo nuovo modello di organizzazione degli studi. Prevale un giudizio moderatamente positivo sulla riforma, con alcune riserve. Chi scrive condivide questa posizione, e in particolare la convinzione che ora la priorità non sia certo un’ulteriore revisione del 3+2, bensì altri aspetti cruciali che questa riforma non ha toccato: un efficace sistema di valutazione, la governance degli atenei, i sistemi di reclutamento e di carriera.
Un secondo gruppo di commenti riguarda l’aumento del numero dei docenti, che la riforma, e la moltiplicazione dei corsi di laurea in particolare, hanno comportato. Le cifre richiamate oscillano fra il 19 e il 32% dal 2000 al 2007. Tuttavia, i confronti internazionali mostrano che in Italia non c’è affatto sovrabbondanza di docenti, né rispetto alla popolazione né in rapporto agli studenti. I dati OCSE per il 2005 danno un rapporto di 20.4 studenti equivalenti a tempo pieno per docente in Italia, a fronte di un rapporto decisamente più basso in Francia, Olanda, UK e USA, e ancor più basso in Germania e Spagna.
Infine, un terzo gruppo di commenti riguarda più specificamente il senso e le conseguenze della moltiplicazione dei corsi di studio. Alcuni lettori continuano a considerarla solo una assurda fonte di costi, altri un falso problema, o una illusione ottica, come si diceva nel mio articolo. Un lettore nota come i dati mostrino che anche in altri paesi alcuni “prodotti universitari” vengono lanciati, falliscono e vengono ritirati dal mercato, in una logica di “sperimentazione come necessaria all’evoluzione”. Ma un altro osserva che il sistema dei crediti, se potesse essere utilizzato in percorsi flessibili anziché rigidi, consentirebbe allo studente di personalizzare il suo curriculum anziché dover scegliere tra alternative che vengono “inutilmente burocratizzate con percorsi diversi chiamati corsi di laurea”. In effetti, il meccanismo delle “classi dei corsi di laurea”, dettato dalla paura di concedere troppa autonomia alle strutture didattiche e dalla mentalità burocratica per cui si assicura la qualità standardizzando ex ante anziché valutando ex post, ha finito con lo spingere le facoltà a moltiplicare i corsi di studio, anziché a contenerli come era nelle intenzioni.
In conclusione, ringrazio i lettori per avere in larga misura compreso come l’obiettivo dell’articolo, e più in generale del lavoro da cui è tratto, fosse di mostrare che, guardando ai dati in chiave comparata, emerge la necessità di valutazioni più equilibrate rispetto ai pregiudizi, alla disinformazione e alla tendenziosità che purtroppo imperano nel dibattito sull’università italiana.

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