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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 56 di 70

SE LA SCUOLA NON HA TEMPO PER LE MAMME

Il tempo pieno è un servizio educativo importante e un punto fermo nell’organizzazione delle famiglie italiane, in particolare quando la mamma lavora. Esiste un legame stretto tra questa modalità d’orario nella scuola dell’infanzia e primaria e l’occupazione femminile. Le donne che escono dal mercato del lavoro per le difficoltà a conciliare vita lavorativa e familiare, difficilmente riescono poi a rientrare. Il tasso di occupazione delle madri italiane è già molto basso. Non abbiamo certo bisogno di politiche che disincentivino ulteriormente il lavoro femminile.

 

CRESCE L’UNIVERSITA’ DEGLI ABBANDONI

La proliferazione dell’offerta universitaria è stata una soluzione solo parziale all’annoso problema della bassa scolarizzazione degli italiani. La facoltà sotto casa ha favorito l’iscrizione di chi in passato avrebbero rinunciato per ragioni di costo, di motivazione o di preparazione. Però alla laurea arriva solo uno studente ogni due iscritti. Come affrontare la questione? Una soluzione è innalzare la selettività all’ingresso, ma richiede interventi per mantenere l’uguaglianza delle opportunità. Purché non si decida di abbassare gli standard per fare cassa.

STUDIARE, L’INVESTIMENTO CHE NON RENDE

Tra il 1993 e il 2004 i rendimenti dei titoli di studio di livello universitario e di scuola media superiore sono diminuiti in Italia in modo consistente e statisticamente significativo. E la diminuzione è più marcata quando si considerano separatamente gli individui con un’età inferiore o superiore a 35 anni. Un risultato sorprendente soprattutto se comparato con le dinamiche di altri paesi sviluppati. Tre le possibili spiegazioni: il ruolo svolto dalle nuove tecnologie, la struttura del commercio internazionale, le caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro.

CLASSI PONTE? UN’INVENZIONE ITALIANA

Nei paesi avanzati non ci sono precedenti per la scelta di classi separate per i bambini immigrati. Ci sono invece molte esperienze di didattica speciale, volta al rafforzamento delle competenze linguistiche. Nel nostro paese la percezione di un’emergenza educativa è drammatizzata dallo smantellamento delle risorse per fronteggiarla. Il fatto stesso che alcune scuole abbiano investito di più nella didattica interculturale non di rado diventa un pretesto per convogliare solo verso queste gli alunni immigrati. Problemi di merito e metodo della proposta.

QUALI MIGLIORI?

GLI OBIETTIVI DEL PRINCIPALE

Il sistema universitario italiano (pubblico, speriamo ancora per molto) chiede ai docenti ricercatori di assicurare didattica e ricerca di qualità. Nonostante la bidimensionalità dell’obiettivo, è opinione corrente che un buon ricercatore sia in grado di assicurare una buona didattica e che quindi i due obiettivi non siano in conflitto. Non v’è dubbio, infatti, che la ricerca di qualità sia un ottimo complemento della didattica di qualità. È pur vero, tuttavia, che il tempo dedicato alla didattica è stretto sostituto del tempo dedicato alla ricerca. Se l’individuo concentra il proprio impegno principalmente nella ricerca è possibile che la prestazione sia contraddistinta da nicchie di didattica assolutamente marginale, congedi continui e sporadiche presenze, con limitatissime esternalità positive sulla crescita degli studenti. Allo stesso modo, se l’individuo è indotto dal sistema a spendere una maggiore quantità di tempo nella didattica, spiegando il vincolo di bilancio a centinaia di studenti, sperimenterà come minimo tempi di crescita più lunghi sul fronte della ricerca. Nelle carriere già mature, il conflitto tra gli obiettivi di didattica e ricerca si attenua (ma non sempre), anche grazie al supporto delle leve più giovani. Il giusto mezzo dipende dagli schemi di incentivo elaborati dal principale.

L’ACCADEMIA DEGLI INSIDER

Il meccanismo di reclutamento e progressione della carriera accademica è basato sulla stratificazione del potere accademico degli insiders. Le cariche politiche sono riservate alle fasce più alte, così come la gestione delle procedure di selezione. La progressione dipende, almeno formalmente, dalla qualità scientifica e la carriera è il meccanismo incentivante che dovrebbero dirigere l’impegno verso l’obiettivo di qualità della ricerca. A parte il noto inconveniente di promuovere gli individui “al loro livello di incompetenza” (Becker, Jensen e Murphy, 1988), non è chiaro perché debba esserci una così rigida piramide di potere. Sembra che il meccanismo di carriera si basi sull’ipotesi che il semplice incentivo economico non sia sufficiente a stimolare l’impegno del ricercatore e che ad esso debba essere necessariamente affiancata la promessa del maggiore potere accademico che deriva dal passaggio di fascia. Il maggiore potere accademico comporta la possibilità di dirigere le selezioni secondo le proprie preferenze di “scuola”, indirizzare i fondi alle attività e/o alle ricerche di interesse ecc. Se il nepotismo esiste è perché esso trova ragion d’essere nella stratificazione del potere.

LE COLPE DEI PADRI RICADANO SUI FIGLI!

Checchi e Jappelli propongono che “per limitare il nepotismo, i concorsi dovrebbero però prevedere alcune semplici regole di incompatibilità – ad esempio che non sia possibile assumere un ricercatore nelle università in cui si è conseguita la laurea o il dottorato.”
Non è una novità. Quando un sistema si incancrenisce la soluzione più semplice è quella di introdurre ancora un altro elemento di flessibilità al margine. Secondo la proposta di Checchi e Jappelli, coloro che aspirano a svolgere ricerca come professione non solo dovrebbero affrontare i lunghi anni di precariato sottopagato dei dottorati, master ecc., ma dovrebbero caricarsi dei costi aggiuntivi di una mobilità obbligatoria. Se è vero che la mobilità può essere un valore aggiunto per chi fa ricerca, è anche vero che l’insieme di opportunità di un precario della ricerca è sempre vincolato alle sue risorse finanziarie, che non necessariamente coincidono con il talento. Quali migliori saranno selezionati con questo criterio?

LE FASCE E GLI OBIETTIVI

Due obiettivi trasversali e tre fasce verticali creano un poligono dalle strane forme, che mostra contemporaneamente spigoli di eccellenza e volumi confusi. Peccato che l’emergere delle eccellenze dipenda spesso soltanto dalla “buona coscienza” di pochi. Ridurre le dimensioni di variabilità delle carriere potrebbe aiutare a rendere più trasparente, democratica ed efficiente la struttura dell’Università italiana.Per consentire una migliore distinzione degli obiettivi è bene riflettere sull’opportunità di valutare separatamente la performance di chi fa solo ricerca e non subisce gli effetti di sostituzione della didattica e chi, invece, sceglie consapevolmente di perseguire entrambi gli obiettivi. Due carriere differenti permetterebbero di salvaguardare la complementarietà “buona” tra didattica e ricerca, consentendo a coloro che non sono in grado di sopportare il costo scientifico della didattica di contribuire, secondo le proprie possibilità, alla crescita dell’accademia. Naturalmente, il maggior costo derivante dalla didattica dovrebbe essere opportunamente retribuito, creando così una divisione funzionale e retributiva tra i due tipi di carriera. All’interno di ciascun tipo di carriera, inoltre, la progressione dovrebbe limitarsi ad un democratico incremento retributivo, determinato in base al raggiungimento o meno dell’obiettivo o degli obiettivi a seconda della carriera.

A chi pretende di sapere tutto meglio degli altri,
gli uomini ben presto non daranno più consigli.
(Esagramma 31 dell’I Ching)

FACOLTA’ DI AGRARIA: TUTTO IN FAMIGLIA

Perché interessa tanto il nepotismo nell’università italiana? Perché rappresenta la punta dell’iceberg del malcostume che inevitabilmente si instaura quando non vi siano incentivi e penalità, sia a livello individuale che di ateneo, nel reclutamento del personale accademico. I casi delle facoltà di Agraria di Catania e Palermo, con un buon numero di docenti di uno stesso dipartimento legati da rapporti di stretta parentela.

INSEGNAMENTI DISPERSI *

Il ritardo della scuola italiana nei confronti di quella degli altri paesi europei, e del Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord, non si limita ai livelli di apprendimento degli studenti, ma riguarda anche la dispersione scolastica. Che si concentra per lo più tra la fine della scuola media e l’inizio della secondaria superiore. Un background familiare meno agiato aumenta le probabilità d’insuccesso, ma anche l’offerta educativa locale conta. Il tempo lungo riduce sia la dispersione sia il condizionamento della famiglia d’origine sui risultati scolastici.

OMONIMIE IN CATTEDRA

Da qualche tempo siamo tormentati da docenti della Sapienza che pensano di avere trovato delle falle nel libro di Perotti e nell’ articolo di Boeri su Repubblica sul familismo nell’università. Finora sono solo riusciti a imbarazzare se stessi, e i professori Mei e Panconesi (la cui lettera è riportata qui sotto) nella lettera indirizzata a lavoce non fanno eccezione.
 Mei e Panconesi  ipotizzano   che non ci rendiamo conto di un fatto elementare, che capirebbe anche un bambino di 10  anni: il tasso di omonimia nell’ intera popolazione italiana deve essere  praticamente  il 100 percento (quasi tutti hanno almeno un omonimo nell’ intera   popolazione).  Se però avessero letto con attenzione l’articolo e,
soprattutto, il libro,  scoprirebbero che i nostri risultati non soffrono di questo problema. E soprattutto scoprirebbero che i dati alternativi che essi forniscono sono grossolanamente errati, e scaturiscono da una macroscopica  mancanza di comprensione delle procedure utilizzate nel libro di Perotti. 
Il tasso di omonimia in una determinata facoltà di Medicina  è definito in due modi alternativi: come la probabilità che un docente in quella facoltà abbia almeno un altro collega  con lo stesso nome nella sua stessa facoltà (“indice 1”), oppure nelle altre facoltà di Medicina della Regione (“indice 2”). Prendendo due facoltà a caso, alla Sapienza questi tassi di omonimia  sono rispettivamente del 21 e 30 percento, a Messina del 33 e 38 percento.
Le stesse statistiche per la Bocconi sono il 3 e 9 percento, rispettivamente. Mei e Panconesi sostengono, invece, che il tasso di ominimia per la Bocconi è del 40 percento. Come è possibile che siano incorsi in un infortunio così imbarazzante?  Ovviamente  non hanno compreso la definizione utilizzata nel libro di Perotti, ammesso che l’abbiano letto. Sospettiamo che essi calcolino il  tasso di omonimia per la Bocconi prendendo a universo di  confronto TUTTE le facoltà di TUTTE le università lombarde, ma ovviamente dei pasticci altrui è meglio chiedere conto direttamente agli autori.
Ma Mei e Panconesi non si fermano qui. Sostengono (come, ripetiamo, comprenderebbe anche un bambino di 10 anni) che sia inevitabile trovare un grado di omonimia più alto in un campione casuale più ampio. Ma il punto è precisamente che i campioni non sono casuali! Se avessero guardato la Tabella 4 del libro (pag.58), avrebbero notato che alcuni fra gli indici più alti si registrano nelle facoltà più piccole. E avrebbero notato che l’ indice 2 della Bocconi,  basato su di una popolazione di circa 700 docenti di Economia in Lombardia,  è poco più di un quarto dell’ indice 1 di Medicina di Messina, che pure è basato su una popolazione di docenti inferiore.
Vi è un metodo assai semplice per dimostrare formalmente tutto questo, così come per rispondere ad una diversa possibile obiezione alla nostra definizione (che però Mei e Panconesi, nella loro foga distruttrice,  ignorano completamente): se per motivi storici o culturali in Sicilia o in Lazio vi fossero molti meno cognomi che in Lombardia, sarebbe più facile trovare omonimie nelle prime che nella seconda. Ovviamente sappiamo che differenze così enormi come quelle evidenziate non possono essere spiegate da questo fattore, ma per eccesso di zelo, in un lavoro accademico in progress di Perotti con altri coautori (Durante, Labartino e Tabellini), abbiamo calcolato il nostro indice di omonimia ponderando la frequenza dei cognomi che si ripetono più di una volta per la frequenza relativa degli stessi cognomi in vari bacini di riferimento, quali la provincia, la regione etc.  (Tecnicamente, la soluzione consiste  nel creare una distribuzione  artificiale. Chiediamo al computer di estrarre a caso dalla popolazione di riferimento un sample di individui pari al numero di professori in una certa  unita’ accademica, e di calcolare l’indice di omonimia  corrispondente. Ripetendo la procedura per 100.000 volte  e registrando ogni volta il valore assunto dall’indice di omonimia, otteniamo alla fine una distribuzione dei valori simulati rispetto alla quale possiamo confrontare il dato osservato nella realtà e calcolare quanto sia statisticamente significativo). Con questa procedura, ecco alcuni valori  secondo la prima definizione (omonimie all’interno della stessa facoltà) quando il bacino di riferimento dei cognomi è la provincia.

In TUTTI i casi tranne la Bocconi, l’ipotesi che l’indice empirico possa derivare da un processo puramente casuale è rigettata (con p-value generalmente molto alti). Inoltre, il nostro indice non presenta alcuna distorsione in relazione al numero di docenti: alcune facoltà molto piccole presentano infatti indici molto più alti che altre ben più
grandi. Si noti per esempio Veterinaria a Messina: con soli 65 docenti, ma con un indice di omonimia riferito alla stessa facoltà che raggiunge un incredibile 50 percento: metà dei 65  docenti ha almeno un collega con lo stesso cognome!
Tutta l’operazione di Mei e Panconesi  si commenta dunque da sè, così  come il sarcasmo degli autori, che meriterebbe una causa migliore. In versioni precedenti della loro lettera, inviate a giornali e siti web, Mei e Pancanesi parlavano infatti del paradosso "Boeri-Perotti", che essi pensavano di avere scoperto, come un ottimo strumento didattico, da utilizzare con i propri studenti per insegnare loro come non si fa ricerca; liberissimi di farlo, ma  se fossimo fra i loro studenti cercheremmo  un altro
ateneo quanto prima.
Ma il vero paradosso e’ quello di  "Mei-Panconesi": come e’ possibile  che  ordinari dell’ università più grande d’ Europa perdano il loro tempo per  operazioni di disinformazione così maldestre? Ripetiamo quello che uno di noi  ha  scritto a un vostro collega, impegnato in una simile operazione di discredito,  risoltasi anch’ essa  in una figuraccia imbarazzante per il suo autore: il vostro tempo sarebbe stato molto meglio speso se  vi foste dissociati  pubblicamente dalla scandalosa elezione del rettore Frati. Bastava un minuto e una riga, una sola riga.

 

IL TESTO DELLA LETTERA INVIATA DA ALESSANDRO MEI E ALESSANDRO PANCONESI

Gentile Redazione

Qualche giorno fa è apparso su La Repubblica un articolo che riportava dati apparentemente eclatanti sul nepotismo nelle università italiane: "A Messina quasi il 40 per cento dei docenti (sì, proprio 4 su dieci) ha un omonimo in qualche università della Regione. A Napoli (Federico II e Seconda Università) si viaggia attorno al 35% di omonimie, a Roma (Sapienza, Cattolica e Tor Vergata) non si scende sotto al 30 per cento." L’articolo portava la firma del prof. Boeri che riportava un’analisi del prof. Perotti, suo collega alla Bocconi.

In realtà l’unica cosa impressionante di questi dati è il fatto che si basano su un errore piuttosto grossolano. Innanzitutto, utilizzando la stessa "metodologia" risulta che, analogamente allo "scandaloso" caso dell’università di Messina, circa il 41% dei docenti della Bocconi ha un omonimo tra le università della stessa regione. Rimanendo in Lombardia, il dato per la Statale di Milano sale al 47%. Che il grado di nepotismo della Bocconi e delle altre università lombarde sia addirittura superiore a quello della vituperata Sapienza? Può darsi. Il problema è che è impossibile scoprirlo con la "metodologia" Boeri-Perotti.

Anche chi è completamente a digiuno di matematica può iniziare ad intravedere il grossolano errore chiedendosi quante sono le persone che hanno un cognome unico in Italia, un cognome cioè che non ha nessun altro: Perotti? Difficile. Boeri? Neanche a dirlo. Mei? Ma vah! Neanche un cognome raro come Panconesi è unico. I casi di omonimia per un insieme grande come la popolazione italiana saranno quasi il 100%. Prendendo un insieme molto più piccolo come la popolazione di Milano la percentuale di omonimia continuerà ad essere vicina al 100%. Considerando insiemi via via più piccoli il tasso di omonimia deve iniziare a scendere. Viceversa, se non lo fa, esso può essere considerato il sintomo di qualcosa di anomalo. Ma quanto deve essere piccolo questo insieme affinchè il tasso di omonimia del 41% della Bocconi possa considerarsi sospetto? Il punto è che gli insiemi considerati da Boeri e Perotti sono statisticamente enormi e il tasso di omonimia risultante non è significativo. Questo lo si può vedere facendo un po’ di conti, ma l’esempio della Bocconi dovrebbe essere convincente, se non altro per i due diretti interessati!

In realtà questo fenomeno apparentemente sorprendente è ben noto a chi si occupa di calcolo delle probabilità e va sotto il nome di "Paradosso del Compleanno".

Da un punto di vista più generale queste analisi si inseriscono nel contesto di una campagna denigratoria contro l’università. Tanto per essere chiari, riteniamo l’università italiana una catastrofe di cui La Sapienza, l’università nella quale lavoriamo, ne è un esempio particolarmente eclatante, ma attenzione!
L’università italiana non è tutta uguale e l’attuale rappresentazione mediatica è un po’ come se si parlasse dei problemi del Nord-Est raccontando quello che succede a Napoli o in Valle D’Aosta.  
Analogamente, quello che accade a medicina non può essere considerato rappresentativo di realtà come informatica, fisica o matematica, discipline che, pur con le loro magagne, sono mondi diversi e che, per inciso, nel loro complesso sono allineate con i migliori standard internazionali.

Quello che vorremmo far notare è che se si denigra in modo indifferenziato, prendendo gli esempi più eclatanti come rappresentativi di una realtà molto più variegata, non solo non si rende un gran servizio alla verità, ma si danneggia ulteriormente la parte buona dell’università. Nonostante il contesto infrastrutturale deplorevole, l’università italiana ha al suo interno un notevole patrimonio di eccellenze, scandalosamente sotto-finanziate, basandosi sulle quali il sistema potrebbe iniziare ad essere bonificato. Spesso queste persone, oltre a fare ottima scienza, sono in prima linea in una battaglia interna per migliorare l’università come istituzione. Campagne come quella in atto non fanno altro che indebolire ulteriormente la loro posizione.

Sarebbe, crediamo, molto più utile dare una rappresentazione mediatica di questi sforzi e di queste eccellenze, che non sono poi così sporadiche come si vorrebbe far credere, e chiediamo ai colleghi Boeri e Perotti e ai giornalisti interessati al miglioramento della nostra società di darci una mano in questo. La cosa avrebbe se non altro il merito di orientare l’opinione pubblica e soprattutto gli studenti dalla parte giusta. In caso contrario ne risulterà solo un folle e irresponsabile gioco al massacro.

Cordialmente

Alessandro Mei – Alessandro Panconesi
Docenti di informatica
Sapienza Università di Roma

LA SCUOLA DEI TAGLI SENZA UN PROGETTO

Condivisibile l’obiettivo di una riduzione del personale e di una riorganizzazione della rete delle scuole. E probabilmente ragionevole una revisione degli orari di insegnamento almeno negli istituti professionali. Ma nel piano del governo manca un progetto educativo e non c’è alcuna valutazione delle conseguenze dei provvedimenti decisi. Sembra emergere solo la necessità di far cassa rapidamente. Gli stessi risultati si potevano ottenere con interventi alternativi, che non avrebbero colpito altrettanto pesantemente e casualmente l’offerta didattica. Il problema del sostegno.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo per i commenti ricevuti, davvero molto numerosi. Questo articolo fornisce una replica complessiva, affrontando le critiche che sono state più frequentemente sollevate.

L’obiezione più ricorrente è quella secondo cui “anche altri” sono i problemi dell’università italiana. Indirettamente, questa critica conferma che il punto da noi sollevato merita attenzione. Siamo del resto ben consapevoli che ci siano altri nodi da risolvere nell’Università italiana. L’articolo aveva però la finalità di concentrarsi su un solo di questi aspetti: il numero di volte in cui un esame può essere sostenuto. La preparazione dei docenti, la qualità della didattica e della ricerca, l’adeguatezza delle strutture, l’eccessivo numero di corsi, la sovrapposizione dei programmi, la dubbia coerenza di taluni insegnamenti sono tutti temi già ampiamente dibattuti, anche su questo sito. Non averli menzionati non significa pensare che non siano parte del problema. A nostro avviso, però, una riforma del sistema degli esami nella direzione da noi indicata sarebbe una di quelle riforme a costo zero (anzi a risparmio) che indurrebbe infine vantaggi anche e soprattutto per gli studenti. Ci teniamo particolarmente ad enfatizzare il seguente punto. Crediamo che il circolo vizioso in cui ci ha trascinato la possibilità di appello infinito sia il seguente: il basso costo di ripetizione dell’esame induce molti studenti a tentare diverse volte l’esame senza davvero prepararsi adeguatamente per passare al primo colpo; questo, a sua volta, causa un ingolfamento nelle sessioni di appello, al quale molto spesso (purtroppo) molti professori reagiscono abbassando la qualità dell’esame: per non rivedere “le stesse facce” negli appelli successivi, agli studenti viene concesso poco tempo per dimostrare la loro preparazione e a volte essi sono promossi con il famoso 18 politico; questo alla fine genera frustrazione, senso di arbitrarietà e disaffezione verso lo studio: un problema che molti studenti intervenuti nei commenti hanno denunciato. Cosa cambierebbe con un sistema con pochi appelli? Noi crediamo che si innesterebbe un circolo virtuoso tra studenti più preparati e docenti più motivati, generando risultati negli esami che riflettono più fedelmente la preparazione di ciascuno.

Poiché però siamo parte in causa, cogliamo l’occasione per arricchire il “carnet delle riforme a costo zero”, come quella dell’esame unico, con la proposta della pubblicazione on line obbligatoria delle valutazione degli studenti al corso e al docente. Proprio perché auspichiamo un aumento della qualità dell’università italiana, siamo favorevoli alle valutazioni della nostra didattica e della nostra ricerca e non contrari. Come tanti altri giovani ricercatori, sogniamo – e ci aspettiamo – una progressione della nostra carriera basata sul merito. E la misurazione del merito deve passare necessariamente attraverso determinate valutazioni (degli studenti e anche ministeriali). Ci aspettiamo che gli studenti stessi si battano per promuovere il merito nelle Università. Certo, sarebbe auspicabile che anche il sistema di remunerazione dei docenti assecondasse in parte i “meriti didattici” degli stessi. Ad oggi nelle università dove le cose funzionano bene, i docenti trovano motivazioni (in termini di progressione di carriera, di accesso a fondi, etc.) nel fare ricerca mentre in quelle dove le cose vanno male i docenti non hanno alcun incentivo se non la propria volontà e senso del dovere. In entrambi i casi la qualità della didattica non trova spazio. Bisognerebbe trovare delle formule che incentivino i docenti ad essere sia dei bravi ricercatori che dei bravi insegnanti, con tutte le tensioni che un simile trade-off si porta appresso.
Alcuni commenti sottolineano poi che non sia possibile fare confronti con le realtà all’estero perché la realtà nostra è peculiare. Pur facendo salve le specificità del nostro sistema non possiamo però rinunciare a guardare cosa fanno gli altri (tutti gli altri) solo perché il confronto è imbarazzante. Senza scomodare il mondo anglosassone, sistemi universitari molto più vicini al nostro, come quelli tedesco e francese, non hanno l’anomalia dell’esame ad libitum che abbiamo noi. Da questo dato di fatto emerge la domanda: questa peculiarità è un vantaggio o uno svantaggio per gli studenti? Noi pensiamo che sia decisamente uno svantaggio.
Lo studente che si prepara seriamente all’esame dimostra capacità di apprendimento e senso di responsabilità. Questo studente non teme l’appello unico; egli potrebbe però temere la cattiva organizzazione degli appelli e siamo sorpresi che pochi commenti abbiano evidenziato questo fatto. Avere a distanza di pochi giorni (addirittura nello stesso giorno) esami molto impegnativi può essere scoraggiante o psicologicamente pesante per ogni studente (i patiti dei confronti con l’estero sappiano però che in Gran Bretagna – per esempio – questo è la norma). Crediamo che gli studenti debbano pretendere una distribuzione degli esami più razionale.

La critica secondo cui l’appello unico rischia di penalizzare troppo gli studenti è immotivata. Paradossalmente, anzi, rischia di favorirli fin troppo. Il timore è il seguente: se trovo il docente con la luna storta, verrò sicuramente bocciato. Questo ragionamento vale ovviamente per tutti gli studenti. Il risultato sarebbe un appello senza promossi. Cosa potrebbe accadere l’anno seguente? Nota la severità (o lunaticità) del docente, il suo corso, se non addirittura la sua facoltà, non raccoglierebbero più iscritti. Per evitare questo rischio, i docenti potrebbero forse rendere addirittura fin troppo semplice l’esame, per non scoraggiare i nuovi studenti. In mezzo a questi due estremi, crediamo che con l’appello unico si avrebbero una buona percentuale di studenti promossi e piccole percentuali di studenti bocciati e promossi con lode.

Molte obiezioni riguardano gli studenti lavoratori. Lo studente lavoratore in genere è fuori corso non perché prenda poco seriamente gli esami (per la nostra esperienza infatti, l’impegno e la motivazione di uno studente lavoratore sono mediamente superiori a quelli di uno studente non-lavoratore) ma perché spesso i corsi di laurea sono pensati ed organizzati solo per studenti a tempo pieno.  A nostro avviso la strada da percorrere è quella battuta dall’università di Trento che chiede agli studenti diverse modalità di iscrizioni a seconda che essi siano studenti full o part time. Da questi ultimi ci si aspetta ovviamente ritmi di progressione più lenti, ma questo ha poco o nulla a che fare con la cadenza degli appelli e la possibilità di ripetere gli esami all’infinito e rifiutare i voti positivi. Un’obiezione simile vorrebbe che una riforma siffatta bloccasse l’accesso delle classi meno abbienti all’università. Francamente ci sembra un passaggio ardito. Crediamo che chiedere agli studenti di prepararsi bene per l’esame e programmare con un po’ più di anticipo questa preparazione sia benefico in primo luogo per gli studenti stessi, che infine riuscirebbero, nella maggioranza dei casi, a finire il loro percorso in minor tempo. Sono anzi gli studenti delle classi più abbienti quelli che possono concedersi di rimanere parcheggiati in Università ed espugnare infine un titolo con la strategia della stanchezza solo perché l’istituzione non vede l’ora di liberarsi di loro. A questo ultimo punto si collega una metafora usata in uno dei commenti che ci è piaciuta molto: la metafora sullo studio universitario inteso come “corsa” opposta allo studio visto come “tiro al bersaglio”. Facciamo solo notare che anche nelle gare di tiro al bersaglio vi è un tempo massimo oltre al quale l’avere fatto centro o meno perde di significato.

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