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Categoria: Scuola, università e ricerca Pagina 59 di 70

SCUOLA

PROVVEDIMENTI

Il ministro Fioroni (a differenza del ministro Mussi) si è caratterizzato per una politica di apparente continuità con i provvedimenti del precedente governo, mentre in realtà ha adottato una politica graduale (il famoso “cacciavite”) per modificare i contenuti più invisi alla nuova maggioranza. Tra i provvedimenti adottati:
1) innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni, e parziale disapplicazione della alternanza scuola-lavoro prevista dalla precedente riforma Moratti (in particolare mancata sottoscrizione di accordi di sperimentazione regionale).
2) commissariamento della agenzia nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione (Invalsi), ma incompleta realizzazione di un sistema di valutazione nazionale. Il Ministro ha espresso pareri contradditori sulla necessità di una valutazione “campionaria” contrapposta ad una valutazione “censuaria” delle scuole.
3) riscrittura dei programmi scolastici, definendo dal centro traguardi terminali e linee di indirizzo e non prescrizione di contenuti specifici, ma nel contempo preoccupandosi di un recupero contenutistico nella attuale scuola dell’obbligo, a seguito del ridimensionamento degli stessi introdotto dalla riforma Moratti.
4) ripristino della serietà delle verifiche (in particolare reintroducendo i commissari esterni per l’esame di maturità, ma anche con la reintroduzione dell’esame di riparazione in sostituzione del meccanismo del recupero crediti)
5) accettazione della riduzione degli organici previsto in finanziaria 2007 (in particolare con l’imposizione di un tetto massimo agli insegnanti di sostegno) in cambio di una progressiva immissione in ruolo dei precari, con la conseguente chiusura delle graduatorie ed il passaggio ad un nuovo meccanismo di ingresso nella professione insegnante basato sulle scuole di specializzazione (SIS).
6) sperimentazione di nuove forme di gestione a livello locale delle risorse docenti disponibili (proposta avanzata nel quaderno bianco sulla scuola, recepita in finanziaria 2007 ed attualmente in corso di definizione nelle linee di indirizzo del Ministero della Pubblica Istruzione).

QUANDO SI VEDRANNO GLI EFFETTI

Gli effetti attesi dovrebbero essere quelli di innalzamento della scolarità giovanile (intervento 1) e di miglioramento della qualità degli apprendimenti (interventi 3 e 4). Incerti gli effetti degli interventi sugli organici (interventi 5 e 6), sia sul piano del bilancio che su quello della formazione impartita.

OCCASIONI MANCATE

Due sembrano i nodi non ancora affrontati:
1) il riassetto del sistema formativo, alla luce della preoccupante performance negli apprendimenti emersa dalle indagini internazionali. Molti indicatori di inefficienza puntano i riflettori sulla scuola secondaria di primo grado, che in seguito all’innalzamento dell’obbligo avrebbe potuto essere ridisegnata legandola in modo più organico alla scuola secondaria di secondo grado. È curioso che un provvedimento di rilevante portata (quale l’età dell’obbligo) sia finito in Finanziaria, e non invece inserito in una legge appropriata. È stata correttamente arrestata la licealizzazione della formazione tecnica sponsorizzata dal governo precedente, senza però sciogliere il nodo di quale fosse l’assetto desiderato.
2) non si può avere maggior autonomia gestionale a livello decentrato senza la costruzione di un adeguato sistema di valutazione censuario. Come già in passato, non si è avuto il coraggio di andare in una direzione attuativa dell’autonomia scolastica (trasferendo risorse e responsabilità a livello della dirigenza delle singole scuole) costruendone la precondizione di verifica a posteriore dei risultati.

IL DECLINO DEL DIPLOMATO AMERICANO*

Secondo le statistiche ufficiali le scuole degli Stati Uniti diplomano oggi circa l’88 per cento degli studenti e negli ultimi quaranta anni il tasso di diplomati fra i neri ha registrato una tendenza a convergere verso quello dei bianchi. Dati che però sono ribaltati da studi più approfonditi: le percentuali di chi completa gli studi superiori sono in calo, soprattutto per le minoranze. Un fenomeno che ha ripercussioni sul livello di qualificazione della forza lavoro. E che rischia di ridurre la produttività e di favorire la disuguaglianza nell’America di domani.

UNIVERSITA’

PROVVEDIMENTI

Sono pochi quelli significativi.
La Legge 270 sugli ordinamenti didattici ha aumentato i cosiddetti requisiti minimi di docenza e ridotto il numero di esami necessari per conseguire una laurea triennale o magistrale.
La Legge finanziaria 2008 ha disposto l’abolizione a partire dal 1 gennaio 2010 del periodo di fuori ruolo per i docenti universitari attraverso un meccanismo di graduale riduzione, per cui dal 1° gennaio 2008 il periodo è ridotto a due anni, dal 1° gennaio 2009 a un anno e, infine, dal 1° gennaio 2010 è definitivamente abolito. Le intenzioni del provvedimento sono quelle di alleggerire i bilanci delle università mettendo a carico della previdenza sociale (piuttosto che degli atenei) il costo dei docenti anziani. Va nello stesso senso un provvedimento previsto dalla medesima Legge Finanziaria, che stabilisce che a partire dal 2008 gli incrementi degli stipendi del personale delle università saranno a carico del ministero e non delle singole università.
È stata istituita l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Tuttavia, l’Agenzia non è stata attivata e non ha quindi iniziato ad operare.
Sono state emanate le nuove regole per i concorsi dei ricercatori. Tuttavia, nel 2008 i concorsi avranno ancora luogo con le vecchie regole. Sono stati sbloccati per un anno i concorsi per professori ordinari e associati mantenendo le vecchie regole con una sola idoneità.

QUANDO SI VEDRANNO GLI EFFETTI

La riforma degli ordinamenti didattici è già in vigore e gli atenei stanno completando la riforma dei corsi di laurea. Il nuovo regime avrà inizio con il prossimo anno accademico e occorrerà attendere alcuni anni prima di vederne gli effetti sui nuovi laureati.
I provvedimenti della Legge Finanziaria relativi ai docenti fuori ruolo sono già in vigore. Per quanto riguarda invece lo sblocco dei concorsi di associato e ordinario occorre attendere la conversione in legge del cosiddetto decreto "mille proroghe", prevista per fine febbraio.
La nuova agenzia di valutazione (Anvur) potrà iniziare a lavorare solo quando saranno nominati i suoi componenti.

OCCASIONI MANCATE

Sono molte. Anche se in pochi mesi non si arresta il declino drammatico dell’università, alcuni provvedimenti avrebbero potuto dare almeno il segnale di un’inversione di tendenza. Gli esempi non mancano. Già nel 2007 una quota consistente del fondo di finanziamento ordinario e dei posti di ricercatore, dottorati di ricerca e assegni di ricerca si sarebbe potuta attribuire sulla base del punteggio CIVR. Lo stesso CIVR avrebbe dovuto essere prontamente rifinanziato. Si è lasciato invece giacere in un limbo per oltre un anno: il nuovo bando CIVR per la valutazione della ricerca (già pronto da ottobre) non è stato ancora firmato. Nel frattempo le graduatorie esistenti invecchiano, e avrà facile argomento chi sostiene che non sono più utilizzabili.
Si sarebbe potuto uniformare l’età di pensionamento dei docenti universitari a quella degli altri paesi europei (tipicamente 65 anni, con facoltà di estensione fino a 68 anni per i docenti attivi nella ricerca che ne fanno richiesta) istituendo allo stesso tempo incentivi per i giovani, riformare le regole di governance delle università, istituire regole di incompatibilità per limitare il nepotismo, abolire il valore legale della laurea, riformare i criteri di ripartizione delle matricole tra le facoltà di medicina, eliminare le quote riservate a docenti con più di 15 anni di anzianità nei prossimi concorsi a professore ordinario e associato. Sono provvedimenti che non costano; però incidono sul potere delle lobby accademiche. Non rappresentano un progetto di riforma organico; se attuate, avrebbero però dato almeno una speranza che la distribuzione delle risorse future premierà il merito. Sono mancati invece il coraggio di superare gli ostacoli posti dai conservatori dello status quo e la visione di un’università moderna.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Lorenzini dice che non è vero che gli insegnanti in Italia siano tanti una volta che si tenga conto di alcune caratteristiche fisiche del nostro paese – la frammentazione del territorio e la necessità di offrire il servizio anche in zone "periferiche" – e di alcune scelte di civiltà – il sostegno, superando la ghettizzazione di una volta, agli alunni portatori di handicap. Sul piano dei numeri questa affermazione è però forzata: un semplice esame econometrico descrittivo (cfr. G.Barbieri, P. Cipollone e P. Sestito, Il mercato del lavoro degli insegnati in Italia, maggio 2007) evidenzia come caratteristiche del Comune e incidenza degli alunni portatori di handicap spiegano solo in piccola parte le differenze tra scuole nel numero degli insegnanti (in rapporto agli alunni). Soprattutto, il quesito rilevante è se la modalità di determinazione del fabbisogno di insegnanti impiegata in Italia sia o meno efficiente, non solo in generale (e qui sappiamo che i risultati della scuola italiana sono in media poco lusinghieri e spaventosamente variabili tra scuole) ma anche per il raggiungimento di quegli obiettivi specifici che Lorenzini cita. In altri termini, riusciamo ad integrare gli alunni portatori di handicap meglio di quanto non facciano altri paesi? Ricorrere a figure di sostegno con uno status di insegnante a tutti gli effetti – in Italia spesso si tratta di precari ai loro primi passi nella carriera di insegnante e che usano questa come una strada di accesso alla professione tout court – è meglio o peggio di avere scuole con figure di sostegno in posizione di staff e non riferite alle singole classi? Purtroppo non vi sono, a mia conoscenza, valutazioni precise dei risultati della via italiana al sostegno ed all’integrazione degli alunni con handicap (l’unico studio che conosco, che non può peraltro considerarsi una valutazione vera e propria ma solo un’azione di monitoraggio sul rispetto delle norme di legge, è un documento Invalsi del 2007, a 15 anni di distanza dalla legge 104/1992!). La poca evidenza aneddotica che conosco suggerisce che i risultati italiani non sono così soddisfacenti. Spesso, le scuole finiscono per sollecitare le famiglie a richiedere un insegnante di sostegno proprio perché prive di modalità alternative di attenzione al disagio. Questo, non affrontato da un sistema organizzativamente centrato sulla classe e sull’insegnate e non sulla scuola, viene così trasformato in handicap: nella scuola italiana (elementare e media inferiore) così gli alunni portatori di handicap crescono (come incidenza sul totale) con l’età, laddove le statistiche sulla popolazione complessiva prodotte dall’Istat farebbero predire l’esatto contrario.
Caruselli descrive, in maniera ben più nitida di quanto non possa aver fatto io sulla base di numeri e statistiche, la giostra degli insegnanti. Concordo con lui che quanto accade non è "colpa" di chi alla giostra prende parte. Il punto che però rileva, nel valutare l’efficacia del sistema, è se le regole che sottendono a questa giostra stimolano l’impegno degli insegnanti o meno. La mia tesi è che accade esattamente il contrario. Lo stare in una giostra riduce la motivazione e l’impegno nel delineare e portare avanti un progetto educativo in una data scuola e con un dato gruppo di alunni (questa e quelli saranno presto abbandonati). La mancanza di vaglio da parte della scuola a cui si viene assegnati impedisce a questa di essere parte attiva di quel processo di matching tra lavoratori e posti di lavoro che tanta parte ha, nel resto dell’economia, al fine di migliorare la qualità del servizio lavorativo prestato. Laddove in altre attività (del mercato del lavoro privato) il precario è magari poco motivato – perché pensa al prossimo lavoro più che a quello corrente, con un orizzonte limitato – ma anche costretto a darsi da fare perché si sente sempre a rischio di essere ritenuto non all’altezza – una sensazione umanamente spiacevole ma di forte stimolo all’efficienza – nella scuola si rischia di avere il peggio della precarietà (l’orizzonte troppo breve) ed il peggio della inamovibilità (la sicumera di chi si sente al riparo dai giudizi del datore di lavoro). Ciò che semmai deve stupire è che con simili regole di ingaggio e senza quasi sostegno da parte delle scuole e del sistema nel suo complesso vi siano tantissimi insegnanti che si danno da fare con impegno e dedizione!

SE LO SPINELLO FA MALE ALLA SCUOLA*

I ragazzi che consumano cannabis hanno risultati scolastici peggiori e abbandonano la scuola presto, soprattutto se iniziano prima dei quindici anni. Tutto ciò ha conseguenze sui loro futuri guadagni e sul tipo di lavoro che andranno a svolgere. Ma si riflette anche sull’intera società, che ne paga i costi in termini di potenziale di crescita e di tassi di occupazione. Un problema da affrontare con urgenza vista la sua diffusione tra gli studenti delle scuole superiori europee e americane. Attraverso campagne di informazione, ma anche un innalzamento dei prezzi.

Classifiche dettate dal contesto

Il Quaderno bianco sulla Scuola, pubblicato a cura del ministero della Pubblica istruzione e del ministero dell’Economia e delle Finanze, avanza una serie di proposte per il miglioramento della qualità della scuola italiana, definita come “il settore che farà la differenza fra ripresa o stagnazione della mobilità sociale e della produttività” nel nostro paese.

Alla scuola di qualità non bastano le risorse

Le variabili solitamente utilizzate nella letteratura economica per approssimare le risorse investite nella scuola sono la spesa per studente, il rapporto studenti/insegnanti e la numerosità delle classi. Il loro ruolo nell’influenzare il rendimento degli studenti è oggetto di aspre controversie fin dal 1966, quando negli Usa è stato elaborato il rapporto Coleman per spiegare i peggiori rendimenti scolastici che caratterizzavano alcune minoranze. Da allora, si sono susseguiti centinaia di contributi che, basandosi su metodologie non sperimentali, sono arrivati a conclusioni molto diverse tra loro. Per questo motivo, alcuni autori hanno scritto rassegne che avevano l’obiettivo di sintetizzare l’imponente mole di lavori disponibili. Tuttavia, anche le rassegne hanno raggiunto conclusioni opposte, in base al modo utilizzato per sintetizzare i contributi esistenti. Tutto ciò la dice lunga su quanto controverso sia il ruolo delle risorse.

Risorse e risultati

Ci sono anche ragioni teoriche che possono spiegare il fatto che non si trovi una relazione robusta tra risorse e risultati. Prendiamo la numerosità delle classi, ad esempio: una relazione negativa tra dimensioni delle classi e performance degli studenti potrebbe essere mascherata dal fatto che l’allocazione degli studenti in classi grandi o piccole non è casuale. Se gli studenti "peggiori" risultano concentrati con maggiore probabilità in classi di dimensioni ridotte, quelle più numerose possono anche risultare migliori. Recentemente, alcuni studi hanno fornito evidenza sperimentale sull’argomento e sembra esistere un effetto positivo, sebbene debole. Nel Tennessee l’esperimento Star ha assegnato in modo casuale una coorte di studenti, e i relativi insegnanti, a classi di diverse dimensioni: i risultati in test standardizzati sono migliorati di circa il 4 per cento durante il primo anno in cui gli studenti sono inseriti in classi più piccole, e dell’1 per cento in ciascun anno successivo. (1)
Pur in presenza di voci a volte molto discordanti, il dibattito in letteratura avviene in un ambito delimitato da alcuni punti fermi:
1) Un meccanismo automatico che leghi maggiori risorse investite nella scuola a migliori rendimenti degli studenti è tutt’altro che ovvio.
2) Anche gli autori che si mostrano più scettici sul ruolo delle risorse scolastiche non si spingono ad affermare che investire nella scuola sia inutile.

Il caso Italia

Il primo punto trova in Italia una immediata conferma. Come ben documentato nel Quaderno bianco sulla scuola (parte I, par. 4.2), l’Italia spende per l’istruzione più della media dei paesi Ocse. Particolarmente elevata risulta la spesa per il personale, in virtù dell’alto rapporto insegnanti/studenti. Ciò è dovuto, da un lato, al maggior impegno orario degli studenti, particolarmente nella scuola primaria e in misura minore nella scuola secondaria inferiore. Dall’altro, alla maggiore incidenza di alcune tipologie di insegnanti: di sostegno, di religione, e fuori ruolo. Anche al netto di queste figure, tuttavia, il rapporto è di 9,1 insegnanti per 100 studenti in Italia, contro una media di 7,5 nei paesi Ocse. Eppure, i risultati che emergono da indagini standardizzate internazionali, come ad esempio Pisa, pongono le competenze degli studenti italiani sistematicamente sotto la media. Anche all’interno del nostro paese non emerge una correlazione tra quantità di risorse investite, distribuite abbastanza uniformemente a livello territoriale, e risultati degli studenti, che mostrano un forte svantaggio delle regioni centro-meridionali. Inoltre, se la quota di spesa in conto capitale risulta correlata positivamente con le competenze degli studenti, non lo è altrettanto la spesa per insegnanti, mentre quella per altro personale e consumi intermedi mostra addirittura una correlazione negativa. (2)
L’assenza di sistematiche correlazioni positive tra quantità di risorse investite e risultati non esclude che esistano altri effetti sulle competenze degli studenti che le variabili elencate sopra non consentono di cogliere. E qui veniamo al secondo punto. Le differenze tra scuole potrebbero essere in parte spiegate da determinanti di tipo istituzionale anziché dall’ammontare delle risorse investite. O da altri fattori che influenzano la qualità della scuola, come il livello di preparazione e di motivazione degli insegnanti. La letteratura evidenzia fra questi la centralizzazione degli esami, il livello di autonomia scolastica, il livello di autonomia didattica degli insegnanti, l’esistenza di valutazioni da parte degli studenti e il livello di concorrenza da parte di scuole private.
In parole povere, la questione non è solo quanto spendere per la scuola, ma soprattutto come. E visto che in Italia la quantità di risorse investite non è inferiore a quella degli altri paesi sviluppati mentre sono inferiori i risultati ottenuti, è obbligatorio ripensare al modo in cui le risorse sono spese.
A proposito del decentramento delle responsabilità e delle competenze nel governo della scuola intrapreso in Italia dagli anni Novanta, sempre nel Quaderno Bianco (pag. 32) si legge che:
"È mancata l’assegnazione alla scuola di autonomia economico-finanziaria, ma anche la strumentazione per monitorarla; e, ancora, l’attribuzione alle scuole di poteri effettivi che consentano a ognuna di esse di attuare gli interventi necessari al miglioramento dei propri risultati".
Si tratta di una descrizione coincisa ed efficace di come una qualunque riforma sia destinata a rimanere incompiuta, finché al decentramento non si affianchi l’attribuzione di poteri effettivi e responsabilità in capo a chi è chiamato a gestire la fornitura del servizio. Se a questo aggiungiamo la già dimostrata avversione dei principali attori del sistema scolastico, ovvero gli insegnanti, alla loro valutazione e incentivazione su base meritocratica, risulta abbastanza facile prevedere che eventuali risorse addizionali da destinare alla scuola non sortiranno effetti di rilievo sulle competenze degli studenti.

(1) Krueger, A.B. (1999). "Experimental Estimates of Education Production Functions" Quarterly Journal of Economics 114(2): 497-532.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February) – Bonn: IZA.

I conti fatti senza i bambini stranieri

Quanti saranno gli studenti della scuola nei prossimi anni? Di quanti insegnanti avremo bisogno, e dove? Non è semplice rispondere a queste domande, fondamentali per ogni serio esercizio di pianificazione in un campo cruciale come l’istruzione pubblica. Nel Quaderno bianco sulla scuola un modello di simulazione cerca di farlo, ma sconta il mancato aggiornamento delle previsioni demografiche e una scarsa considerazione dell’effetto della recente “rivoluzione demografica” sulla presenza di alunni stranieri.

La giostra degli insegnanti

Il Quaderno bianco sulla scuola costituisce un’importante presa d’atto dei problemi e delle difficoltà del sistema scolastico italiano. La sua importanza è per più versi accresciuta dal suo essere un documento congiunto del ministero di spesa settorialmente competente e del ministero di controllo della spesa. In quanto tale, ben potrebbe rappresentare il punto d’avvio d’una riflessione sulla efficacia ed efficienza del sistema scuola in Italia. Riflessione tanto più opportuna alla luce del fatto che il nostro paese, anche nel confronto internazionale, spende tanto, in rapporto al numero di studenti, a fronte di risultati, in termini di competenze raggiunte dai nostri studenti, in media poco soddisfacenti e molto iniquamente distribuiti, con un forte divario tra Nord e Sud e tra scuole diverse, anche all’interno dello stesso ordine di scuole. (1)

I suggerimenti del Quaderno

La spesa è elevata soprattutto a causa di un elevato rapporto insegnanti/alunni, non per via di un’elevata retribuzione unitaria degli insegnanti. Il Quaderno sembra voler rappresentare una sterzata rispetto ai dibattiti abituali sulla scuola, molto centrati – soprattutto in questa stagione dell’anno, alla vigilia della predisposizione della legge Finanziaria – sulle quantità degli input (gli aspiranti insegnanti a cui trovare un contratto stabile) e poco sulla qualità dell’output – gli apprendimenti, alquanto differenziati tra scuole, nonostante l’uniformità di regole e trattamenti.
La direttrice suggerita per superare questo stato di cose sembra essere quella fornita dal combinato disposto di maggiore autonomia delle scuole (quella che viene definita l’attuazione di una "riforma già fatta") e maggiore capacità di governo e monitoraggio centrali del sistema (in termini di programmazione dei flussi di personale e di valutazione degli apprendimenti e quindi delle scuole da parte dell’Invalsi). La direttrice in questione pare in linea con le evidenze disponibili a livello internazionale, che nel binomio autonomia (e flessibilità operativa) e valutazione (omogenea e quindi in qualche misura centralizzata) vedono un’accoppiata vincente, l’una cosa senza l’altra rischiando di produrre più danni che benefici. Naturalmente, molti aspetti di dettaglio richiedono ulteriori precisazioni e approfondimenti, l’obiettivo del Quaderno sembrando esser proprio quello di aprire in proposito un vivace dibattito. Senza entrare nel merito delle proposte più specifiche contenute nel documento, qui ci si limita a sintetizzare alcune evidenze significative sul come regole omogenee e meccanismi centralizzati di allocazione del personale finiscano col produrre risultati fortemente differenziati. La centralizzazione, ancor prima che il loro non affidarsi a meccanismi programmatori pluriennali (quali quello esposto nel Quaderno), sembra infatti fonte di inefficienze.

Il "va e vieni" dei docenti

In Italia molti degli insegnanti annualmente incaricati presso le diverse scuole sono precari, con incarichi fino al termine delle attività didattiche o fine al termine dell’anno scolastico. Gli incarichi, circa il 15 per cento delle posizioni annualmente in essere, sono definiti annualmente ripercorrendo l’ordine in graduatoria di chi aspira a un contratto permanente da insegnante. (2) Di per sé, la natura centralizzata e amministrativa degli incarichi annuali porta a un notevole turnover del corpo docente delle singole scuole: anche se la gran parte dei precari con incarico annuale in un dato anno è poi occupata anche nell’anno scolastico successivo, molto spesso ciò accade in una scuola diversa.
Il turnover effettivo è poi ulteriormente innalzato da quegli insegnanti che, pur avendo un contratto a tempo indeterminato, si muovono, su loro richiesta, da una scuola all’altra. Nel complesso, ogni anno circa un insegnante su cinque è un nuovo arrivato nella specifica scuola in cui si trova a operare. L’indicatore in questione, peraltro, sottovaluta l’instabilità del corpo docente perché considera la situazione assestata degli incarichi annuali, senza tener conto del fatto che spesso le assegnazioni definite a settembre vengono poi mutate nel corso dell’anno. Ma il fenomeno è plausibile fonte di difficoltà nello svolgimento e nella programmazione dell’attività didattica. La programmazione didattica è del resto in Italia affidata più al collegio dei docenti (e ai singoli docenti) che alle scuole in quanto tali, che in questo "va e vieni" di docenti sono un elemento alquanto passivo, non potendo "scegliersi" gli insegnanti. Il turnover, oltre a variare molto tra scuole, appare negativamente correlato con i risultati (nelle scuole secondarie superiori) dell’indagine Pisa.

Le scuole più desiderate

Approfondendo i processi sottostanti questa giostra del personale docente, in particolare per quanto riguarda la mobilità del personale di ruolo alla ricerca di una sede ritenuta più consona, si può evidenziare come le richieste di uscita da una particolare scuola siano alquanto diffuse. In media, il 17 per cento circa degli insegnanti di ruolo operanti in una data scuola vorrebbe in realtà andare altrove. Plausibilmente saranno ben poco motivati a ben operare in quella scuola. Confrontando le diverse scuole, questa percentuale, interpretabile alla stregua di un indicatore di mismatch e di insoddisfazione rispetto alla propria situazione lavorativa corrente, è più elevata nelle scuole del Sud, nella media inferiore e negli istituti professionali e, nel caso delle scuole secondarie superiori per cui si dispone dei risultati di Pisa, tra quelle peggio piazzate.
Un ultimo indicatore è ottenibile considerando non solo le scuole da cui molti docenti di ruolo vogliono andar via, ma anche quelle verso cui l’intera popolazione dei docenti di ruolo italiani vorrebbe andare. L’indicatore in questione coglie le preferenze rivelate dai docenti nei confronti di una data scuola, preferenze che plausibilmente colgono la minore o maggiore difficoltà di operare come insegnante in quel contesto, visto che le condizioni retributive in quanto tali non mutano tra scuole. Una scuola avrà valori positivi dell’indicatore laddove è desiderata da più docenti di quanti non siano quelli che dalla stessa vogliono andare via. L’indicatore denota una grande variabilità tra scuole – a riprova della natura sistematica dei flussi di docenti, evidentemente non governati solo da preferenze idiosincratiche – ed è positivamente correlato coi risultati Pisa. Sembra quindi che i docenti italiani (almeno loro) sappiano bene quali sono le scuole di qualità. Con pochi incentivi ad andare e a impegnarsi in quelle "difficili", quando capitano, nella marcia di avvicinamento verso la sede desiderata, esprimono preferenze alquanto marcate nei loro confronti.

* Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali e non necessariamente impegnano l’Istituzione di appartenenza.

(1) Il divario rispetto ad altri paesi in termini di competenze, per come misurato dall’indagine Pisa, sembra più marcato di quello in termini di conoscenze (le prime essendo definibili in termini di capacità di utilizzo delle seconde). Ciò potrebbe in parte discendere da un orientamento culturale più "scolastico" e tradizionale della scuola italiana, non ben rappresentato da misure originatesi in prevalenza nel mondo anglosassone. Più discusso è se ciò rifletta un problema – connesso ad esempio al rischio che la nostra scuola sottovaluti l’empirismo, la scienza e la tecnologia moderne. L’opinione di chi scrive è che, almeno in parte, nell’orientamento culturale della nostra scuola vi siano dei tratti problematici. Il punto che però qui più interessa è che una scarsa qualità media degli apprendimenti degli studenti italiani è comunque confermata anche da altre misure (ad esempio Pirls e Timms) una volta che si effettuino confronti su base omogenea con gli altri paesi. Se dal confronto tra le diverse indagini una conclusione deve trarsi è semmai che i ritardi degli studenti italiani crescono al procedere del corso degli studi, segnalando le difficoltà della scuola, in particolare di quella media inferiore. Soprattutto, quelle misure (e quelle definite dall’Invalsi a livello esclusivamente nazionale) confermano il pattern delle differenze interne all’Italia.

(2) Essi non esauriscono l’universo del precariato, in cui vanno anche ricompresi i soggetti incaricati per periodi più brevi. Sono le cosiddette supplenze
brevi, definite dalle singole scuole, la cui effettuazione poi consente, in assenza di qualsivoglia concorso e meccanismo di verifica di attitudini e capacità, di entrare nelle liste degli aspiranti al ruolo da cui sono anche tratti i docenti con incarichi annuali.

Correlazione tra mobilità dei docenti e risultati del test Pisa 2003 (a livello di scuola)

  Matematica letteratismo
Dati grezzi    

Turnover

-.238 -.27

Mismatch

-.281 -.353

Preferenze rivelate

.227 .318
Dati Pisa al netto degli effetti di genere e background familiare    

Turnover

-.159 -.200

Mismatch

-.228 -.323

Preferenze rivelate

.231 .369
Dati Pisa al netto degli effetti di genere, background familiare, provincia e tipo di scuola e indicatori di mobilità al netto degli effetti di provincia e tipo di scuola    

Turnover

-.265 -.325

Mismatch

-.485 -.580

Preferenze rivelate

.392 .534

Fonte: Gianna Barbieri, Piero Cipollone e Paolo Sestito: Labour market for teachers: demographic characteristics and allocative mechanisms, mimeo, luglio 2007

Se la selezione resta fuori dall’aula

Il Quaderno bianco potrebbe essere ancora più esplicito, ma il messaggio per il ministro Fioroni nelle pagine dedicate all’organizzazione delle risorse umane è chiarissimo: "le caratteristiche dell’attuale assetto vanno in direzione difforme da quella suggerita dalle evidenze internazionali oltre che dal buon senso".
È infatti in primo luogo il buon senso, oltre che una sconfinata mole di ricerca teorica ed empirica nell’area della "Personnel economics", a suggerire che la gestione delle risorse umane nella scuola italiana sia un fallimento in entrambi i suoi pilastri fondamentali: la selezione e l’incentivazione del personale. Così come attualmente strutturati i due pilastri potrebbero funzionare solo se gli insegnanti fossero tutti santi, missionari e dotati naturalmente di caratteristiche perfette e inossidabili per fare il loro lavoro.
Se il ministro concorda sul fatto non ci si possa attendere dagli insegnanti di avere queste caratteristiche, i due pilastri vanno ricostruiti ex novo.

Selezione del personale

I lavori di Hanushek e altri, citati dal Quaderno bianco, mostrano in modo inequivocabile che ci sono caratteristiche individuali e persistenti nel tempo degli insegnanti, in virtù delle quali chi è "bravo" lo è in qualsiasi scuola e con qualsiasi gruppo di studenti, mentre è poco frequente il caso di insegnanti "bravi" in un contesto e non in un altro. Chiamatelo come volete, ma l’evidenza empirica (e anche le esperienze personali) suggeriscono che esista un "talento del saper insegnare" che non tutti hanno in ugual misura. E ben poco può fare la formazione professionale per sopperire alla mancanza di talento, poiché serve a poco versare acqua dove nulla può crescere.
Questo è vero per molte professioni, e non a caso la selezione del personale è forse il problema più difficile da risolvere nella gestione delle risorse umane, ma ciò che qui importa è che il sistema dei concorsi pubblici è palesemente incapace di evitare l’assunzione di persone che non dovrebbero fare gli insegnanti. Prima ancora che un problema di incentivazione, gli "insegnanti fannulloni" di cui tanto si parla sono il sintomo di una selezione sbagliata del personale all’inizio della carriera. Se un appunto può essere fatto al Quaderno bianco, è che sul problema dei concorsi e del reclutamento dice troppo poco.
In particolare, il Quaderno non mette in luce il motivo strutturale che impedisce ai concorsi pubblici italiani di selezionare in modo efficiente gli insegnanti. Che è semplice: chi sceglie, ossia la commissione concorsuale, non subisce le conseguenze di una scelta sbagliata. Nella migliore delle ipotesi, si limita alla verifica di requisiti burocratico-formali che spesso non garantiscono l’esistenza di una reale "capacità di insegnare", guardandosi bene dal prendere in considerazione ben più rilevanti caratteristiche sostanziali, per il timore di accuse di arbitrarietà discriminatoria. Nell’ipotesi peggiore, ma purtroppo frequente, l’arbitrio della commissione viene mascherato sotto il velo della correttezza burocratico-formale non per selezionare il meglio, ma solo al fine di far passare i raccomandati di turno.
In questo come in altri settori della pubblica amministrazione, è necessario sostituire il sistema concorsuale con un sistema in cui le decisioni di assunzione vengano prese da chi sopporta le conseguenze di decisioni sbagliate, ossia in primo luogo dai presidi di ciascuna scuola. Chiamiamoli pure concorsi locali e stabiliamo con chiarezza e trasparenza quali requisiti formali oggettivi i candidati debbano avere, ma lasciamo anche spazio per una valutazione del "non misurabile" da parte dei presidi: non ci saranno rischi di corruzione se la valutazione di performance delle scuole (su cui il Quaderno opportunamente fa numerose dettagliate proposte) verrà utilizzata per premiare i presidi che facciano scelte giuste. E anche in assenza di questo, ci saranno i genitori e gli studenti a premere perché i presidi non facciano errori. E la pressione va benissimo per questo e altri problemi, purché ai presidi vengano dati gli strumenti giusti per governare le risorse umane a loro affidate.

Incentivazione del personale

È di nuovo il buon senso prima ancora che la teoria economica a suggerire che solo dei santi possono essere disposti a dare il massimo senza ricevere alcun compenso per il loro impegno. È giunta l’ora di mettere in soffitta l’ipocrisia di chi ritiene che l’insegnamento sia una missione da non svilire abbinandola a problemi di "vil denaro".
I fatti sono chiarissimi nelle tabelle del Quaderno bianco: non è che gli insegnanti italiani siano pagati drammaticamente meno che negli altri paesi in termini di retribuzione oraria o annua. Anche senza questa evidenza, basterebbe a dimostrarlo il fatto che i concorsi hanno un numero di candidati largamente superiore ai posti disponibili. Quindi per molti, a conti fatti, la carriera dell’insegnante è attraente proprio perché paga relativamente bene per quanto concretamente richiesto dal datore di lavoro.
Il vero problema è che la retribuzione e la progressione di carriera degli insegnanti sono interamente determinate dall’anzianità di servizio o da incarichi particolari, e completamente indipendenti dall’impegno profuso e dai risultati ottenuti, comunque misurati. Per gli insegnanti non esistono nemmeno promozioni tra livelli, ancorché meramente contrattuali, come invece accade in altri settori della pubblica amministrazione.
La soluzione è una sola ed è urgente: le retribuzioni e le carriere degli insegnanti devono dipendere in misura maggiore dalla performance, misurata almeno a livello di scuola e possibilmente anche al livello di ogni singolo lavoratore. È ipocrita nascondersi dietro il dito della difficoltà di misurare l’input e l’output. Il Quaderno bianco è pieno di suggerimenti interessanti a questo proposito e avrebbe potuto farne altri ancor più coraggiosi.
Ma soprattutto è bene chiarire che questo è un terreno in cui, per trovare la soluzione migliore, è necessario sperimentare combinazioni di meccanismi di incentivazione, mentre è del tutto inutile discutere quale essa sia su un piano ideologico di principio. Ha ragione chi dice che il lavoro degli insegnanti non può essere misurato solo in termini di input, ad esempio giorni di presenza. Così come non può essere valutato solo sulla base di indicatori misurabili di output, ad esempio, la performance degli studenti in livello o variazione o i giudizi dei genitori. Ha anche ragione chi sottolinea l’esistenza di componenti della valutazione di un insegnante non riducibili a numeri e che devono avere una rilevanza anche se suscettibili di dipendere in modo arbitrario dalle opinioni dal valutatore. Il mix giusto può essere trovato solo sperimentalmente e deve essere individuato da chi sopporta le conseguenze della scelta di un mix sbagliato. Ancora una volta dovrebbe toccare ai presidi la sperimentazione e la scelta della soluzione più adatta alla loro scuola, nell’ambito di linee guida molto generali stabilite dal ministero. Questo a condizione che ai presidi, e via via a chi sta sopra di loro, siano stati indicati gli obiettivi da perseguire e gli incentivi corrispondenti.
Al vertice della piramide ci sta il ministro: tocca a lui cominciare dai suoi collaboratori.

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