Il 2004 è stato un anno importante per l’informazione e i media nel mercato italiano. A maggio è stata approvata la nuova legge che regolamenta gli assetti del settore delle comunicazioni, la Legge Gasparri, che introduce profondi cambiamenti rispetto al quadro recedente. Ma mantiene un dato di continuità con le precedenti normative, nel fotografare la situazione esistente senza incidere sul quadro allarmante dell’informazione e del pluralismo in Italia. Il mercato televisivo viene sottoposto a vincoli antitrust, calcolati tuttavia su un mercato di riferimento talmente ampio e eterogeneo da consentire non solo il mantenimento, ma la crescita delle attuali posizioni dominanti. Ma il pluralismo in Italia non è solamente un problema di televisioni. Anche la stampa, settore apparentemente più frammentato, si caratterizza come un insieme di piccoli oligopoli locali, all’interno dei quali pochissime testate vantano quote di mercato molto elevate. In questo quadro di concentrazione persistente e non intaccato dalle nuove norme inizia a profilarsi all’orizzonte una revisione della par condicio, che in un contesto come quello italiano appare uno dei pochi vincoli che garantiscano un bilanciamento delle opportunità tra le diverse posizioni politiche.
Le dinamiche di mercato difficilmente possano portare a una offerta diversificata e ampia di posizioni politiche tra operatori dell’informazione o all’interno di ciascuno di essi, come abbiamo illustrato
L’antitrust non basta
È bene sottolineare subito che le politiche antitrust, per quanto utili a mantenere la concorrenza e i mercati aperti ai nuovi entranti, non possono da sole supplire alle esigenze di pluralismo, e ubbidiscono a obiettivi di efficienza economica che non sempre coincidono con quelli di un libero accesso di tutte le opinioni ai mezzi di comunicazione.
Si rende quindi necessario il disegno di appropriate politiche regolatorie per il pluralismo.
Abbiamo argomentato come in molti mercati dei media esiste una tendenza alla concentrazione, dovuta a dinamiche in parte diverse, che ben difficilmente le politiche pubbliche possono evitare. Esiste tuttavia uno spazio su cui intervenire per evitare che la concentrazione risulti anche maggiore di quanto le dinamiche concorrenziali giustifichino, sottoponendo a un attento controllo la creazione di gruppi multimediali su uno stesso o su più mercati.
In primo luogo la concentrazione, in una prospettiva di pluralismo, dovrebbe essere valutata mercato per mercato, con riferimento alla distribuzione degli ascoltatori e dei lettori, in modo da verificare se qualcuno tra i media presenta problemi di insufficiente pluralismo esterno. Siamo quindi ben lontani da quel singolare coacervo di mercati e di fatturati, il sistema integrato di comunicazione, creato dalla Legge Gasparri per annacquare ogni posizione dominante.
L’impostazione che riteniamo meno intrusiva sulle dinamiche di mercato dovrebbe limitare la concentrazione sul singolo mercato dei media (pur sacrificando in questo eventuali sinergie), qualora questa si realizzi attraverso la proprietà di più mezzi (molti canali televisivi, o numerosi giornali o stazioni radio) attivi sul mercato stesso. Se tuttavia con un singolo mezzo, un operatore fosse in grado di raccogliere un ampio pubblico grazie alla bontà dei suoi contenuti, non riteniamo che le politiche pubbliche dovrebbero intervenire con dei vincoli alle quote di mercato.
Al contempo, tali sinergie dovrebbero essere invece consentite tra diversi segmenti dei media, laddove l’operatore multimediale non raggiunga posizioni dominanti in nessuno dei singoli mercati. In una parola, gruppi multimediali risultano desiderabili se attivi su più mercati, ma dovrebbero essere contrastati se dominanti in un singolo mercato
Gli strumenti da utilizzare
Gli strumenti che in questa prospettiva appaiono più utili risultano le limitazioni al numero di licenze in capo a uno stesso operatore, applicabili in quei mercati (televisione e radio) nei quali una autorizzazione è necessaria per l’uso dello spettro elettromagnetico. Utilizzando questo strumento è possibile quindi limitare la crescita di un operatore che disponga di un portafoglio con più licenze per canali televisivi, laddove la sua quota cumulata di audience superi determinate soglie (in Germania è attualmente posta al 30 per cento), costringendolo a cedere licenze nel caso di superamento dei limiti consentiti. Analogamente, vincoli alla partecipazione su più mercati (giornali, televisioni, radio) dovrebbero intervenire laddove l’operatore raggiunga una posizione dominante in qualcuno di essi, imponendo anche in questo caso la cessione di licenze.
Più difficile intervenire in caso di forte dominanza realizzata da gruppi editoriali attivi solo nella carta stampata con numerose testate, per le quali evidentemente non esistono licenze da ottenere. Solamente in caso di fusioni e acquisizione, ma non di creazione ex-novo di testate, ci sarebbe spazio per intervenire. Quando questi interventi volti a garantire il pluralismo esterno risultano poco efficaci, vanno associate misure per il pluralismo interno.
Il pericolo maggiore per il pluralismo interno nei contenuti dei singoli operatori, ritengo derivi dalle motivazioni lobbistiche dei gruppi proprietari, che inducono a privilegiare la rappresentazione di posizioni politiche specifiche. Questa componente risulta enfatizzata quando la proprietà dei gruppi di comunicazione veda coinvolti investitori attivi in altre industrie regolate (public utilities, banche, trasporti, eccetera). Occorre quindi fissare dei limiti alla partecipazione azionaria di queste categorie di soggetti al settore dei media.
Le motivazioni lobbistiche o partigiane espresse dalla proprietà dei media sono tuttavia in parte ineliminabili. Occorre quindi pensare, in particolare nelle fasi (campagne elettorali) nelle quali distorsioni informative eserciterebbero effetti di lungo periodo, a una regolazione diretta degli spazi, del diritto di replica, dell’accesso, secondo criteri di par condicio. Questa regolamentazione è stata sino a oggi applicata all’informazione televisiva. La situazione di forte concentrazione nei mercati locali della carta stampata pone tuttavia l’esigenza di iniziare a discutere di quello che sinora è considerato un tabù, il diritto di accesso sui giornali. Infine, il mantenimento di un canale pubblico televisivo (ben diverso dalla attuale Rai) sottoposto a un controllo diretto da parte di una autorità di vigilanza indipendente dovrebbe offrire un ulteriore, parziale, tassello, a garanzia di una informazione più articolate e pluralista.
Nel dibattito politico italiano, il tema del pluralismo nei mass media ha un ruolo centrale. L’Osservatorio di Pavia svolge monitoraggi in Italia da più di dieci anni e più di cinquanta sono state le missioni elettorali all’estero. (1) La par condicio in Italia e all’estero È bene sgombrare subito il campo dall’idea che la regolamentazione della comunicazione politica sia una peculiarità italiana. In Italia, la legge 28/2000, detta della par condicio, “promuove e disciplina, al fine di garantire la parità di trattamento e l’imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici, l’accesso ai mezzi di informazione per la comunicazione politica”. I monitoraggi La Commissione parlamentare di vigilanza e l’Autorità delle comunicazioni (Agcom), previa consultazione tra loro, e ciascuna nell’ambito della propria competenza, regolano il riparto degli spazi tra i soggetti politici e stilano il regolamento dei messaggi autogestiti. Quest’attività ha il fine di rendere operativi i principi “astratti” sanciti dalla legge 28/2000 e di calarli nel contesto delle diverse campagne elettorali. Contestualmente vengono svolti due monitoraggi (2) che controllano la conformità di quanto trasmesso con le disposizioni regolamentari. Un monitoraggio è a cura dell’Agcom e disponibile continuativamente sul sito
Forse proprio perché ha il polso delle variegate situazioni, ha maturato la convinzione che su questo aspetto del funzionamento del processo democratico sia necessaria una riflessione attenta e pacata, poco legata alla contingenza e alle pressioni dei vari attori.
Un memorandum di intenti di trentadue pagine, che stabiliva minuziosamente tutti i particolari del confronto, ha regolato i tre recenti dibattiti presidenziali BushKerry.
Sempre negli Usa, i tempi di presenza dei canditati sono rigidamente contingentati. Per esempio, durante la campagna per governatore della California, secondo le leggi federali sulla par condicio i film di Arnold Schwarzenegger costituivano spazio televisivo e quindi mandarli in onda non rispettava la parità di accesso. Qualora fossero stati trasmessi film come Terminator o Atto Forza, i rivali di Schwarzenegger avrebbero potuto chiedere e ottenere analoghi spazi televisivi gratis. Libertà certo, ma ben regolamentata.
I principi di tale legge sono relativamente chiari e sinteticamente così riassumibili:
– durante le campagne elettorali la comunicazione politica viene compressa in spazi rigidamente regolamentati e vietata in qualsiasi altro genere televisivo, fatta eccezione per le notizie dei telegiornali (le news).
– Sono vietati gli spot e permessi spazi autogestiti (i messaggi autogestiti), anche questi rigidamenti normati
– Gli spazi concessi ai soggetti partecipanti alla competizione sono un mix tra rappresentanza esistente e candidature ex-novo.
– Infine sono date indicazione di massima sull’uso corretto del mezzo televisivo (“I registi ed i conduttori sono altresì tenuti ad un comportamento corretto ed imparziale nella gestione del programma, così da non esercitare, anche in forma surrettizia, influenza sulle libere scelte degli elettori”).
Punti di forza e limiti
Nelle recenti campagne elettorali la parte relativa alle disposizioni su “Messaggi autogestiti, ripartizione dei tempi dei soggetti nei programmi dedicati alla campagna elettorale e la loro assenza al di fuori di tali programmi” è stata per lo più rispettata.
Punti critici invece, perché di difficile interpretazione, sono risultati:
– gli spazi dei soggetti politici nei telegiornali
– gli spazi dei soggetti politici dedicati alla cronaca al di fuori dei telegiornali
– il comportamento corretto e imparziale nella gestione dei programmi da parte dei conduttori.
Il trade off tra libertà di informazione e regole del pluralismo è forse il punto più delicato della normativa sulle campagne elettorali, poiché va a incidere sul diritto-dovere del giornalista di informare e scegliere le notizie. Come distribuire i tempi tra i partiti in modo equo rispettando l’esigenza del pubblico di essere informato su ciò che accade? Gli esponenti del Governo candidati come devono essere conteggiati? Se un ministro inaugura una strada in campagna elettorale, questo tempo è da attribuire alla competizione elettorale o al diritto-dovere del Governo di informare sulla propria attività? Questa distinzione appare più agevole nelle campagne elettorali per le elezioni politiche, durante le quali l’attività governativa si limita all’ordinaria amministrazione. Più difficile è distinguere tra informazione sull’attività governativa e propaganda per i candidati nel caso di elezioni (europee, regionali) che avvengono mentre il Governo in carica è pienamente operativo.
Problematico risulta poi valutare la qualità della comunicazione soprattutto in relazione al comportamento corretto e imparziale nella gestione dei programmi da parte dei conduttori.
I casi di aperta violazione di questa regola sono rari e quasi sempre riconducibili a pochi conduttori: la delicatezza del tema è evidente perché la partigianeria di un giornalista può essere valutata come comportamento coraggioso e “libero” dalla parte in sintonia con la sua posizione politica. Va tuttavia ricordato che in questi casi, oltre alla prudenza nell’intervenire, occorre che le sanzioni siano tempestive, cosa che non sempre avviene.
L’attuale legge italiana, sicuramente perfettibile, costituisce una buona base per il conseguimento del pluralismo. Lasciare non regolamentato questo campo, come in modo ricorrente viene sostenuto, significa rischiare gravi squilibri soprattutto in situazioni in cui le risorse delle emittenti sono molto concentrate e il controllo indiretto sul trasmesso è quasi inevitabile.
(1) Si veda il sito www.osservatorio.it
(2)
I monitoraggi, che coprono tutto il trasmesso 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, tra l’altro evidenziano:– la presenza di un soggetto politico e la sua anagrafica (nome, cognome, sesso, partito, carica istituzionale, eccetera)
– la durata dell’intervento in secondi
– l’anagrafica della presenza (giorno, ora, minuto, rete e programma,)
– il tema dell’interevento.
Nel dibattito sul pluralismo, il tema della concentrazione nel mercato dei quotidiani è spesso sostanzialmente sottovalutato. Si dà per scontato, almeno in Italia, che il pluralismo esista perché è alto il numero di testate presenti sul piano nazionale. La dimensione locale Una valutazione della concentrazione del mercato dovrebbe tuttavia tenere conto del fatto che i quotidiani competono prevalentemente su scala locale e che negli specifici mercati il grado di concentrazione può essere molto elevato. Nel nostro paese la situazione non è così polarizzata e i singoli mercati non sono così separati, ma la dimensione locale della concorrenza è comunque molto importante. In Italia si pubblicano novantuno testate e le prime due, Corriere della Sera e Repubblica, hanno quote di mercato di poco superiori al 10 per cento della diffusione giornaliera, mentre i gruppi cui fanno capo totalizzano assieme poco più del 40 per cento della diffusione complessiva. (1) Misurare la concentrazione Questi dati a livello nazionale non rappresentano tuttavia l’indicatore più corretto per una valutazione della concentrazione, poiché anche le maggiori testate hanno una diffusione molto disomogenea sul territorio. La Stampa (2) ad esempio vende nelle sue prime tre province di diffusione (Torino, Cuneo e Alessandria) il 50 per cento delle copie totali e nelle prime dieci province il 75per cento delle copie, mentre in ciascuna delle province restanti vende mediamente lo 0,3 per cento della sua diffusione. Il Corriere della Sera vende nelle sue prime tre province (Milano, Roma e Varese) il 45 per cento delle copie e nelle prime dieci il 60 per cento mentre nel resto d’Italia realizza mediamente lo 0,44 per cento delle sue vendite in ogni provincia. Anche la Repubblica, che pure ha una diffusione più omogenea, vende il 54 per cento nelle prime dieci province. Per meglio valutare la concentrazione sui mercati rilevanti si è quindi proceduto a identificare, per ciascun quotidiano, l’insieme delle province nelle quali viene realizzata la maggior parte delle vendite, definibile come mercato di riferimento. Due sono le misure utilizzate, in modo da cogliere sia le realtà di giornali con una distribuzione molto concentrata in poche province (in questo caso sono state considerate le aree che cumulativamente rappresentano il 90 per cento delle vendite della testata), sia quelle di quotidiani con una diffusione relativamente più estesa (prendendo in questo caso tutte le province con una diffusione almeno pari allo 0,5 per cento delle vendite totali del quotidiano, senza necessariamente raggiungere in questo caso il 90 per cento delle vendite). (3) Distinguendo per tipologie di quotidiani e calcolando per ciascuno di essi i valori medi della categoria, quelli nazionali operano in un mercato di riferimento relativamente ampio e poco concentrato, mentre le testate multiregionali, regionali e provinciali, con diffusione e mercati di riferimento via via più ristretti, evidenziano una forte concentrazione dei lettori, come si può notare nella tabella.
Negli Stati Uniti, ad esempio, negli ultimi vent’anni vi è stato un continuo processo di concentrazione che ha portato la quasi totalità delle aree urbane ad avere un’unica testata oppure più testate dello stesso proprietario (in precedenza in circa i due terzi dei mercati operavano più testate ed editori concorrenti). Se si escludono l’unico quotidiano nazionale, Usa Today, e poche grandi città con più quotidiani in concorrenza tra loro (taluni prestigiosi, ma sempre locali), il mercato statunitense è configurato come un insieme di monopoli locali sostanzialmente autonomi dove operano 1.457 testate che vendono circa cinquantacinque milioni di copie giornaliere.
Per ogni testata, sull’insieme di province che costituiscono il suo mercato di riferimento, sono stati calcolati diversi indici di concentrazione. (4) In questo modo è possibile verificare se nella sua area territoriale di diffusione, il quotidiano fronteggia un numero elevato di concorrenti o ha una posizione dominante. I risultati così ottenuti confermano una forte concentrazione nei mercati di riferimento. Delle cinquantaquattro testate di cui sono disponibili i dati Ads (Accertamenti diffusione stampa) delle vendite provinciali, ventiquattro operano in mercati con un indice di Herfindahl-Hirschmann superiore a 0,15 considerato normalmente la soglia di attenzione delle autorità antitrust. Ventisei quotidiani nel loro mercato di riferimento hanno una quota di mercato superiore al 30 per cento e ben quarantadue testate contribuiscono all’indice HH del loro mercato per più del 50 per cento.
Ad esempio, un quotidiano come Il Messaggero ha una quota del mercato nazionale inferiore al 5 per cento, ma nelle province del suo mercato specifico ha una quota del 23 per cento, l’indice di HH del suo mercato è 0,1068 cui contribuisce per circa il 50 per cento. Oppure Il Gazzettino di Venezia ha una quota del 33 per cento del suo mercato specifico che a sua volta ha un indice di HH di 0,1529 cui Il Gazzettino contribuisce per il 73 per cento.
Questo dato conferma indirettamente il fatto che nei mercati locali (corrispondenti ai mercati di riferimento per queste testate) quasi sempre un numero molto limitato di quotidiani si contende il pubblico. Dall’analisi emerge quindi come la concentrazione effettiva nei mercati dei quotidiani sia superiore a quanto comunemente si crede per effetto della forte polarizzazione geografica della diffusione, anche per i quotidiani tradizionalmente considerati nazionali.
(1) La Federazione degli editori indica otto testate nazionali che complessivamente hanno venduto nel 2002 il 36 per cento delle copie giornaliere: Avvenire, Corriere della Sera, Foglio, Il Giornale, Il Giorno, La Repubblica, La Stampa, Libero.
(2) Questi dati e le altre elaborazioni di questo articolo derivano da uno studio da me svolto presso l’Università Statale di Milano e si riferiscono a dati 2000; la situazione relativa alla diffusione non è tuttavia sostanzialmente cambiata.
(3) Si tratta di confini piuttosto ampi se si considera che l’Autorità per le comunicazioni norvegese considera come mercato di riferimento di un quotidiano quelle province dove vende oltre il 10 per cento della sua diffusione.
(4) Si è calcolata nel mercato di riferimento la quota di mercato della testata, il rapporto tra quota della prima e della seconda testata (quota di mercato relativa), l’indice di Herfindahl-Hirschmann (somma delle quote di mercato al quadrato), utilizzato solitamente nelle valutazioni antitrust, e il contributo della prima testata al valore complessivo di questo indicatore
Il pluralismo è un malato grave nel nostro paese. Ma non gode di buona salute in molti altre realtà, nonostante negli ultimi dieci anni i mezzi attraverso cui raggiungere il pubblico si siano moltiplicati, con lo sviluppo della televisione commerciale, il prossimo avvento di quella digitale e il fenomeno di Internet. A fronte di queste maggiori possibilità, i fenomeni di concentrazione sono tutt’oggi molto diffusi, e non rappresentano solamente il retaggio di un passato oramai chiuso, ma appaiono semmai come il risultato delle nuove modalità di concorrenza nei settori della comunicazione. Concentrazione in televisione Quando guardiamo al tema del pluralismo nel settore dei media, ci occupiamo prevalentemente di mercati nei quali operano imprese e gruppi di comunicazione privati, dalle cui scelte e dalle cui dinamiche competitive occorre partire per rispondere alla domanda se il mercato sia in grado di sfruttare le nuove opportunità tecnologiche (digitale, Internet) garantendo un accesso bilanciato e non discriminatorio a tutte le opinioni politiche. Se osserviamo il mercato dei media in una prospettiva di pluralismo esterno, due fenomeni appaiono frenare il raggiungimento di questo obiettivo. La perdurante concentrazione in segmenti come la televisione commerciale finanziata con pubblicità è sostenuta dalla forte concorrenza per i programmi più richiesti, che determina una forte lievitazione dei costi strettamente correlata ai futuri ricavi dai proventi pubblicitari. In questa corsa al rialzo c’è posto per pochi vincitori, come i dati sulla concentrazione televisiva testimoniano in tutti i paesi europei e parzialmente, dopo vent’anni di erosione da parte delle pay-tv, negli stessi Stati Uniti, dove i principali network raccolgono ancora circa la metà della audience nel prime time. E nei giornali Ma la concentrazione non è un fenomeno unicamente televisivo, interessa marcatamente anche la carta stampata.
In questa prospettiva solitamente si distingue tra pluralismo esterno, che considera se nell’offerta complessiva di un particolare mercato dei media (giornali, o televisione o radio, eccetera) tutte le opinioni politiche trovano spazio, e pluralismo interno, che invece guarda a come le diverse opinioni politiche sono rappresentate nell’offerta di un singolo operatore.
Se andiamo al di là dei dati nazionali sulle vendite di quotidiani per studiarne la distribuzione geografica, troviamo una forte segmentazione nella quale in ogni mercato locale, quello in cui ciascuno di noi lettori abita,
Il pluralismo interno
In mercati fortemente concentrati, per loro natura impossibilitati a sostenere una offerta di media ampia e diversificata (pluralismo esterno), rimane la strada del pluralismo interno.
Vorremmo fosse affidato in primo luogo agli incentivi di un operatore o gruppo di comunicazione a coprire più segmenti di mercato (opinioni politiche) con la propria offerta, analogamente a come si coprono molte discipline sportive, vari temi di intrattenimento, molti generi di film. L’ostacolo maggiore in questa prospettiva si ritrova nel forte ruolo che i media esercitano come strumento di lobbying, che li trasforma in un mezzo ideale in quel terreno scivoloso di contrattazione politica tanto prezioso soprattutto per i gruppi economici fortemente regolati.
Analoghe distorsioni possono poi nascere dalla stessa identificazione politica dei gruppi di comunicazione, dove a fronte dei fin troppo ovvi esempi nostrani, non possiamo che registrare con preoccupazione un fenomeno, relativamente nuovo per il mercato americano, quale la spregiudicata propaganda di parte di un grande network come Fox.
La conclusione cui giungiamo, guardando alle possibilità che il mercato trasformi le nuove e grandi opportunità tecnologiche di comunicazione in una offerta ampia e diversificata di contenuti e informazioni politiche, è quindi venata di una forte preoccupazione.
Oggi disponiamo di mezzi sempre più ricchi, sempre più persuasivi ma, apparentemente, sempre più concentrati. E il cittadino difficilmente trova i mezzi per formarsi una opinione informata e libera da distorsioni e condizionamenti.
Di fronte a questo nuovo fallimento del mercato, si richiedono quindi adeguate politiche pubbliche per il pluralismo.
Tutti coloro, e io tra questi, che hanno duramente criticato la legge Gasparri sul riordino (a casa Berlusconi) del sistema delle comunicazioni dovrebbero ammettere che alla fine non è poi male. Anzi, che tutto sommato rappresenta un esempio di efficienza legislativa e di inusuale velocità nella sua applicazione pratica. Mai legge, a dispetto dello scontro istituzionale che ne ha preceduto il varo, è entrata in vigore così rapidamente e ha prodotto effetti così vasti e duraturi. E mai la volontà del legislatore è stata così prontamente accolta dal mercato. Una straordinaria sintonia. Per usare una celebre espressione di Umberto Bossi un “idem sentire” incredibilmente armonico. Come se gli attori del mercato della comunicazione, del sistema televisivo, l’avessero studiata in anticipo quella legge. Con una tale attenzione che potrebbe far sorgere il dubbio, sicuramente infondato, che qualcuno se la sia scritta direttamente. In casa. Malignità degli outsider. È il mercato, bellezza Ma non c’è dubbio che la Gasparri rappresenti una best practice. In pochi mesi Mediaset si è mossa sul mercato del digitale terrestre acquistando i diritti criptati per le dirette casalinghe di Juventus, Milan e Inter, che verranno offerte grazie a una carta prepagata a due euro l’una. “Questo è il mercato, bellezza”, avrebbero esclamato i difensori ministeriali della legge a lungo osteggiata da Carlo Azelio Ciampi. Una risposta a tutti coloro che protestavano per la mossa, sicuramente tempestiva, del gruppo di proprietà del presidente del Consiglio e ormai gestito, con grande abilità va riconosciuto, da suo figlio Pier Silvio. Peccato che gli stessi che difendono la libertà, di chi è forte e conosce il mercato, di muoversi liberamente siano gli stessi che in altri settori dell’economia invocano l’intervento dello Stato, hanno nostalgia della Cassa del Mezzogiorno e sostengono che il metodo Alitalia, ovvero procrastinare il destino di una compagnia sprecando ancora denaro pubblico, sia un esempio virtuoso nel rapporto fra politica ed economia. Peccato. E peccato ancora che quella carta prepagata per il digitale terrestre sia stata studiata e messa a punto nei laboratori della Rai, l’operatore del servizio pubblico, il cui consiglio d’amministrazione è territorio di caccia delle forze di governo e di strage intellettuale di molti personaggi, alcuni di spicco e di grande qualità professionale e morale. E pensare che la Rai entrò a suo tempo come socio in Telepiù, facendosi pagare e non poco in cambio di un pacchetto di canali. Con una semplice autorizzazione e ora assiste impotente allo sviluppo di una sua ricerca. Lo ha bene notato sul Sole-24Ore Marco Mele, il quale non ha mancato di sottolineare come sia virtualmente cambiata la natura del digitale terrestre: da piattaforma gratuita e, in qualche modo, alternativa alla televisione generalista, a nuovo terreno di sfida e di conquista perché abbondante di spazi pubblicitari appetiti dall’utenza (grazie al calcio, vero driver dell’espansione televisiva). Dunque, Publitalia avrà un’offerta aggiuntiva da proporre ai suoi grandi clienti e potrà ulteriormente, come gli consente la legge, allargare la propria quota di mercato. La Gasparri e la pubblicità Ma proprio sul mercato pubblicitario sta accadendo qualcosa di assolutamente inedito che dovrebbe preoccupare fortemente gli editori di carta stampata. Per la prima volta una fase di ripresa degli investimenti pubblicitari, che difficilmente torneranno ai valori dell’anno 2000, vede quotidiani e periodici continuare a soffrire sugli spazi e sulle tariffe. La televisione, e in particolare le reti del Cavaliere, viaggiano secondo gli ultimi dati, con un tasso di crescita a due cifre, rispetto all’anno scorso, mentre la carta stampata annaspa, nel migliore dei casi registra un progresso fra il due e il quattro per cento. Colpa dei costi contatto? Colpa delle difficoltà in cui versano quotidiani e periodici? Della migliore qualità della programmazione? Forse. Ma è anche vero che le reti generaliste, e in particolare quelle Mediaset, possono ormai espandersi senza limiti. I problemi di affollamento, importanti per misurare l’efficacia della pubblicità, sembrano non esistere più. I palinsesti televisivi sono in overbooking pubblicitario fino a ottobre. Una volta l’estate era un periodo di magra per gli spot. Non è più così. Una volta il medio-piccolo investitore pubblicitario non andava in televisione e riteneva più conveniente per la propria comunicazione apparire sui mezzi tradizionali. Oggi la rete della pubblicità televisiva, in crescita bulimica, prende tutto: pesci grandi e pesci piccoli. E i grandi, i cosiddetti big spender, pensiamo soltanto alle case automobilistiche, preferiscono concentrare i propri investimenti sulla televisione. È diventata di colpo così efficace? Forse, certo molti imprenditori e amministratori delegati hanno capito che l’investimento pubblicitario può avere anche un dividendo, diciamo così, politico. E non c’è da biasimarli: nell’ottica di massimizzare il rendimento del loro investimento compiono senza dubbio la scelta migliore. La più razionale. E molti di loro redigono un conto economico in cui l’andamento delle tariffe è cruciale. E le tariffe sono fortemente influenzate da fattori politici. Anche questa è una malignità da outsider, ma forse è un sospetto con una qualche fondatezza. La Gasparri ha mosso il mercato. E questo è positivo. Dovrebbe anche favorire la privatizzazione della Rai. Ma sul versante dell’operatore pubblico, anche per colpe sue per carità, non si assiste alla stessa effervescenza progettuale che si registra su quello privato. Tutt’altro. E pensare che proprio dopo le dimissioni del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e l’interim di Berlusconi, palazzo Chigi è diventato direttamente l’azionista di Rai Holding. E noi cittadini che paghiamo il canone saremmo particolarmente felici che, al di là delle riconosciute capacità manageriali del direttore generale di viale Mazzini, l’azienda pubblica ricevesse qualche buon consiglio da parte del suo azionista diretto che il mercato televisivo conosce come le proprie tasche. Non solo la tv va bene, sotto il profilo pubblicitario, ma anche la radio. Ed ecco muoversi a poche settimane dall’approvazione della Gasparri, la Mondadori, uno dei primi gruppi editoriali del paese che ha manifestato la propria intenzione di entrare nel mercato della radio con un’offerta per acquisire Radio 101. Tutto bene. Naturalmente in questo caso va sottolineato che la mia è un’opinione di parte, lavorando io in Rcs-Mediagroup (1). Ecco perché sostengo che la Gasparri rappresenti uno straordinario benchmark legislativo. Lo dico senza ironia. Mi sarebbe piaciuto che lo stesso grado di attenzione e di compattezza politica fosse stato riservato anche ad altri temi, all’economia per esempio. E forse non ci saremmo trovati a questo punto. Con il dubbio rovente che i conti pubblici siano stati falsati e che le promesse fatte al paese siano ormai accantonate. Se ai temi che interessano il futuro del paese fosse stato dedicato soltanto un decimo del tempo che hanno richiesto la Gasparri o la Cirami, staremmo tutti meglio. Come paese. Ma quelli forse erano interessi diffusi, pubblici. Gli altri erano interessi un po’ più privati. E dunque meritevoli di maggior riguardo. Buon compleanno a lavoce.info Così, buon compleanno a lavoce.info. Non è vero che in questo paese di voci ce ne siano poche. Ce ne sono ancora tante e libere. Ma ce ne vorrebbero molte di più. Il pluralismo esiste ancora. Non viviamo in alcun regime. Ma purtroppo assistiamo a una lenta deriva e a una progressiva assuefazione all’idea che l’informazione debba essere schierata, strumentale, ancillare e direttamente soggetta agli interessi dei proprietari. Non parlo solo del Cavaliere e non mi riferisco solo a questa maggioranza. Le voci libere danno fastidio. Eppure se qualcuno obnubilato dal potere le avesse ascoltate non si troverebbe oggi in fondo al baratro. E anche l’Italia starebbe un po’ meglio. (1) E la mia è un’opinione strettamente personale.
Dopo un tormentato, ma accelerato, iter di discussione la legge Gasparri è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale nella sua versione definitiva. Dalle tv locali alla privatizzazione della Rai È condivisibile, ad esempio, l’articolo 8 quando amplia da sei a dodici ore lo spazio di interconnessione nazionale per le emittenti locali e consente loro di raccogliere pubblicità nazionale. Si pongono così le prime basi per il progressivo superamento di una situazione che le rende quasi insignificanti nel panorama televisivo. Anche se, per favorirne la crescita, sarebbe stato meglio consentire il possesso di stazioni in mercati diversi, invece di aumentare fino a tre il numero di emittenti che un soggetto può possedere nello stesso bacino di utenza. La privatizzazione ipotizzata dalla legge Gasparri non prevede, però, interventi strutturali che allontanino l’influenza dei partiti dalla televisione pubblica. E l’idea di vendere una minoranza del capitale azionario con quote che non possono superare il 2 per cento, senza modificare la struttura saldamente duopolistica del mercato televisivo, sembra un esempio da manuale di come non cogliere i vantaggi della privatizzazione. Se non quello, meramente finanziario, di scaricare sui piccoli risparmiatori i rischi di un’azienda dalla redditività incerta e in cui le possibilità di controllo degli azionisti sono modeste. Il caso delle telepromozioni Aumenta lo spazio per le telepromozioni, soprattutto per Mediaset, con un approccio che allontana l’Italia da diversi altri paesi europei. (1) Tra Sic e digitale terrestre Il problema della struttura del mercato – limitazione o riduzione della concentrazione e aumento dei concorrenti e delle voci disponibili – ha implicazioni sia economiche che politiche. Il Sic non è un mercato rilevante nel senso comunemente inteso dall’economia industriale e dalle autorità antitrust. Si tratta piuttosto di un aggregato arbitrario, di una convenzione dove conta solo il prodotto tra perimetro complessivo e quota consentita. E la combinazione scelta non è stringente per nessun operatore presente sul mercato, nonostante in diversi mercati delle comunicazioni si registrino tassi di concentrazione assai elevati: in quello televisivo nazionale, nella televisione a pagamento, nelle directory o in molti mercati locali dei quotidiani. Nel segno della continuità Nell’insieme si tratta di misure che non sembrano in grado di perseguire una riduzione della concentrazione nel mercato televisivo. Vi è cioè un’incoerenza tra finalità dichiarate e strumenti utilizzati. Nonostante le polemiche, l’Italia è solo parzialmente un’anomalia nel contesto televisivo europeo. In Germania i primi due operatori controllano il 68 per cento degli ascolti, in Gran Bretagna il 60 per cento, in Francia il 71 per cento. Si tratta ovunque di tassi di concentrazione elevati, ma inferiori all’89 per cento italiano. In questi altri paesi vi è spazio normalmente per almeno tre-quattro gruppi televisivi significativi, più gli operatori della pay-tv. (1) In Francia le telepromozioni non sono consentite nei programmi e in Germania rientrano nella normativa generale sugli spot.
Si tratta di una legge che tocca molti punti, con diversi interventi condivisibili.
Una parte rilevante della legge è dedicata alle procedure di nomina del consiglio d’amministrazione Rai e alla sua privatizzazione.
Sul primo punto, occorre prendere atto che finora l’influenza politica sulla Rai e sulla scelta dei dirigenti è stata assolutamente indipendente dai criteri di nomina via via adottati.
Ma la norma non modifica la struttura del mercato né è in grado di sottrarre quote ad altri mezzi.
Le ragioni della limitata raccolta pubblicitaria di quotidiani e periodici vanno cercate nella ridotta diffusione della stampa in Italia più che nel potere di mercato della televisione. Se si effettuano confronti internazionali considerando i ricavi pubblicitari per copia, si scoprono indicatori abbastanza omogenei tra i vari paesi: sembrano mostrare come sia possibile conquistare investimenti pubblicitari, una volta raggiunti i lettori.
La legge Gasparri lo affronta con la definizione del Sic (sistema integrato delle comunicazioni, di cui nessun operatore può controllare più del 20 per cento) e la promozione accelerata della televisione digitale terrestre.
Il Sic è stato ridotto con la riscrittura della legge, in seguito al rinvio alle Camere da parte del presidente della Repubblica. Sono stati eliminati dal perimetro libri e pubbliche relazioni e corrette alcune vistose ingenuità.
Per esempio, l’avervi compreso all’inizio le agenzie di stampa, le produzioni televisive e le produzioni cinematografiche: tutti mercati intermedi che entrano rispettivamente nel fatturato di giornali, televisioni e sale cinematografiche, e dunque erano banalmente contati due volte.
In questo modo, il Sic raggiunge una dimensione di circa 22 miliardi di euro.
Una quota del 20 per cento corrisponde a 4,5 miliardi di euro: cifra opportunamente al di sopra di quella attuale dei maggiori operatori (Rai 3 miliardi, Mediaset 4 miliardi, Rcs per ora 2,3 miliardi).
La televisione digitale terrestre rappresenta un’innovazione di sistema perseguita da molti paesi. Per la sua inevitabilità tecnologica, e perché utilizzando in modo più efficiente lo spettro elettromagnetico, permette alternativamente di aumentare il numero di canali o di destinare parte delle frequenze televisive ad altri utilizzi.
La legge italiana progetta una transizione accelerata soprattutto per ovviare all’obbligo imposto dalla norma precedente e dalla Corte costituzionale di spostare Rete 4 sul satellite e di togliere la pubblicità a Rai 3.
Purtroppo, la concentrazione del mercato televisivo è legata alle economie di scala nei programmi più che alla scarsità di frequenze: appare probabile che i nuovi canali trasmessi sul digitale terrestre si limitino ad aumentare il numero teorico dei canali e non riescano a erodere le quote di mercato degli incumbent. (vedi lavoce.info del 03-07-2003)
Va detto però che su questo terreno la Gasparri mantiene una forte continuità con le altre leggi sulla televisione promulgate negli ultimi vent’anni, che si occupano di molte cose per lasciare sostanzialmente invariata la struttura del settore, caratterizzato da un duopolio dove i due operatori controllano circa il 90 per cento del mercato di riferimento. Ha un approccio comune con la legge Mammì del 1990 e la legge Maccanico del 1997, peraltro emanate da Governi diversi.
Un accettabile grado di concorrenza nel settore televisivo è rilevante per il buon funzionamento degli altri mercati, attraverso la pubblicità, ma anche per il buon funzionamento del sistema politico perché ormai i cittadini ricevono gran parte delle informazioni proprio dalla televisione.
Dunque, è probabile che la legge Gasparri sia solo una tappa provvisoria nella costruzione di un assetto accettabile del sistema televisivo italiano.
Si continuerà inevitabilmente a parlare di questo tema: sarebbe opportuno farlo con meno ideologia, meno preconcetti ma con più dati oggettivi, più confronti internazionali, con profondità e consapevolezza crescenti.
La legge sulla par condicio regolamenta l’attribuzione degli spazi televisivi ai partiti e ai candidati nelle campagne elettorali, per garantire parità di accesso ai mezzi di informazione. L’handicapping applicato alle campagne elettorali In un paese democratico i cittadini debbono essere messi nelle condizioni di scegliere la forza politica per cui votare in maniera consapevole. Devono quindi essere a conoscenza delle alternative disponibili. Le forze politiche devono essere incentivate a fornire informazioni veritiere e sostanziali sulle proprie posizioni e i propri programmi. Negli incontri di golf non professionistici, ma anche nelle corse di cavalli, nel baseball o nel basket, è molto comune la pratica di assegnare un certo svantaggio ai giocatori più dotati. Per esempio, nelle corse di cavalli i fantini più leggeri sono caricati con del peso extra. Nel golf, i giocatori più bravi partono con alcuni punti di svantaggio. Queste pratiche, cosiddette di handicapping, pongono il giocatore più dotato in condizioni iniziali più simili rispetto a quello meno dotato. Recentemente, un filone di letteratura economica ha discusso l’utilità delle pratiche di handicapping nelle imprese, per le promozioni dei manager a posizioni gerarchiche superiori. In tal modo, non solo la competizione partirebbe da basi più eque, ma sarebbe anche più ricca e vivace. Uguaglianza di condizioni La proposta di modifica della legge sulla par condicio nella direzione accennata dal presidente del Consiglio e dal suo vice può essere giustificata con la volontà di creare un disincentivo all’eccessiva proliferazione di sigle politiche. Privilegiare le forze esistenti, in un regime democratico, può anche rappresentare un argine contro l’emergere di forze non democratiche. Si considerino, ad esempio, la fine dei regimi comunisti, e le inchieste giudiziarie su “Tangentopoli” nei primi anni Novanta: questi eventi hanno cambiato il panorama politico italiano. Tale cambiamento (compresa la nascita del partito “Forza Italia”) sarebbe stato ostacolato da regole della comunicazione elettorale basate sul peso storico delle forze politiche. Si tenga conto, infine, che con questi argomenti si è “finto” di parlare di un paese in cui vi sia effettiva separazione tra i poteri economico, mediatico e politico. Se accade, come in Italia, che il partito politico che guida la maggioranza di Governo controlla attraverso il suo leader larga parte dei mezzi di comunicazione televisiva, la situazione è assai più complicata e delicata, e l’handicapping attribuito ai partiti di Governo dovrebbe essere ancora più forte.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha annunciato di voler modificare la legge. Il vicepremier Gianfranco Fini ha affermato che “non è certo una provocazione pensare di attribuire a ciascun partito uno spazio diverso in base alla sua forza elettorale”. Fini e Berlusconi ritengono dunque che spazi maggiori dovrebbero essere attribuiti a partiti con più peso in Parlamento.
Se accettiamo queste premesse, e più in generale l’esigenza di garanzia del pluralismo nelle competizioni elettorali, l’impostazione di riforma della legge sulla comunicazione elettorale suggerita da Fini e Berlusconi non è necessariamente quella corretta.
Per capire perché consideriamo cosa avviene negli Stati Uniti in diverse competizioni sportive.
Quando i valori in campo sono in partenza squilibrati in favore di una parte, per cui il risultato dell’incontro è scontato, la competizione perde di interesse per il pubblico, perché tanto il giocatore più dotato quanto quello meno dotato non sono incentivati a giocare al meglio delle loro possibilità: il primo perché è sicuro di vincere, e il secondo perché certo di perdere. Nel rendere la competizione più equa, l’handicapping fornisce più stimoli a tutti i contendenti.
È possibile trasferire la logica dell’handicapping dal mondo dello sport (e dell’impresa) a quello delle competizioni elettorali, dove si applica forse ancor meglio.
Nelle campagne elettorali, l’utilità per i cittadini di rafforzare posizioni precostituite non è per nulla scontata. Al contrario, nelle democrazie compiute l’esigenza di garantire effettiva parità di condizioni ai partiti e ai candidati dovrebbe essere ben superiore a quella di garantire parità di condizioni in un incontro di golf, dal quale dipendono le emozioni dei tifosi, ma non certo le sorti di un paese.
Ora, dal momento che la maggioranza in Parlamento, proprio per il suo ruolo di governo, gode di una maggiore esposizione mediatica tra una legislatura e l’altra, la logica dell’handicapping attribuirebbe più spazi ai partiti meno rappresentati in Parlamento: l’esatto contrario rispetto a quanto suggerito da Berlusconi e Fini.
La maggioranza sarebbe stimolata a impegnarsi di più sulla qualità dei messaggi di propaganda (sostituendo qualità per quantità). L’opposizione, sapendo di avere spazi a sufficienza per presentare le proprie, sarebbe spronata a farlo. Al contrario, laddove si attribuissero gli spazi in base ai risultati delle passate elezioni, sarebbe lo status quo a prevalere, e ci sarebbero meno incentivi a cambiare, con una perdita secca per i cittadini.
Inoltre, con un esito elettorale più incerto, il voto del singolo cittadino diventa più influente, e ciò stimola la partecipazione al voto. È noto che nelle democrazie “bloccate” e laddove il risultato delle elezioni è più scontato, l’assenteismo degli elettori è maggiore.
Tuttavia, argomenti altrettanto validi spingono esattamente nella direzione opposta. Al punto che potrebbe essere più opportuno offrire maggiori spazi (rispetto alla loro forza elettorale) ai partiti minori e a quelli di opposizione, nonché garantire una qualche visibilità alle nuove formazioni.
Infatti, la realtà socio-politica di un paese (specie se democratico e pluralistico) è intrinsecamente dinamica. Nuovi gruppi ed esigenze emergono continuamente. Importanti eventi e processi storici possono sostanzialmente modificare le posizioni e le attitudini dei cittadini, con profondi effetti sulla competizione politico-elettorale.
Garantire uguali spazi a tutte le forze appare coerente con un criterio intuitivo di uguaglianza delle condizioni di partenza. Dalle considerazioni esposte in precedenza, la par condicio può anche essere considerata come una soluzione di compromesso virtuoso fra argomenti che spingono verso soluzioni opposte per la distribuzione degli spazi televisivi ai partiti in campagna elettorale.
In ogni caso, se le regole sulla par condicio devono essere riviste, la riflessione dovrà essere ben più profonda e complessa della semplice logica proposta da Berlusconi e Fini.