Il decreto legge approvato lunedì dal Consiglio dei ministri rappresenta una chiara inversione di tendenza rispetto a quanto realizzato dai due governi precedenti, Monti e Berlusconi. Aver preso atto che il settore della scuola non poteva essere ulteriormente sacrificato per ragioni di pareggio di bilancio, e che gli insegnanti italiani stanno andando in pensione a ritmi sempre più elevati per ragioni puramente anagrafiche ci sembra un segnale politico importante
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Il concorso nazionale per dirigenti scolastici dopo due anni è ancora in alto mare per la sequela di ricorsi e controricorsi presentati in molte Regioni. In Lombardia metà delle scuole non avrà un preside titolare nel prossimo anno scolastico. Se il rispetto delle regole formali prevale sul merito.
La neoministro dell’Istruzione è chiamata ad affrontare subito questioni complesse come il reclutamento, la valutazione e la conseguente premialità nella scuola e nell’università. Sono temi spinosi, ma chi valuta e seleziona i percorsi formativi dei giovani non può sottrarsi a processi analoghi.
Lascia molto a desiderare l’auto-valutazione del Governo su scuola e università. Un lungo elenco che pare più un programma (o una lista di desideri) che una serie di obiettivi centrati. E in tema di finanziamento agli atenei, assoluta continuità con il precedente Governo.
Il regolamento sul sistema nazionale di valutazione per istruzione e formazione varato dal Governo si focalizza sull’intervento migliorativo a livello di singola scuola. È però necessario realizzare tutte le quattro fasi previste dal procedimento e in particolare rispettare il nesso tra autovalutazione e valutazione esterna. Si limitano così i rischi di inutilità o di adempimento insiti nel processo. Ma tutto ciò richiede risorse umane e organizzative adeguate, stabili e legittimate, negli istituti come negli apporti che dovrebbero arrivare dal ministero o dall’Invalsi.
Dopo tredici anni arriva finalmente un concorso ordinario per ricoprire quasi 12mila cattedre nelle scuole statali. È una buona notizia, perché dovrebbe mettere fine alla giungla delle graduatorie, composte da decine di migliaia di precari che di anno in anno hanno consentito il regolare svolgimento delle lezioni. Ma la scuola italiana ha bisogno di bravi insegnanti. E il concorso sarebbe un’occasione sprecata se non riuscisse a selezionarli. E allora bisogna avere ben chiaro che cosa permette a un laureato di diventare un docente capace di far crescere i suoi studenti.
Ringrazio i molti lettori che hanno voluto condividere le loro osservazioni e i loro commenti. Come era forse prevedibile, si sono equamente suddivisi in commenti favorevoli e contrari, ma tutti presentano argomenti degni di ulteriore riflessione. Mi sembra però che la simpatia o l’antipatia per questa legge di riforma renda difficile a tutti rispondere serenamente al principale problema che avevo cercato di porre: una volta riconosciute le contraddizioni fra obiettivi (condivisi da molti) e strumenti/risorse (riconosciuti inadeguati dai più), quali le conseguenze del fallimento (ormai probabile) di questo tentativo di riformare l’università italiana? Il modo in cui si è sviluppato il dibattito politico e culturale, la prova di forza intorno a questo ddl il cui significato e la cui portata va ben al di là dei meriti e demeriti del ddl stesso, mi rendono pessimista su queste conseguenze; e in molti dei commenti ricevuti trovo conferma di ciò.
Facciamo un solo esempio dei molti aspetti contraddittori contenuti nel ddl e dei diversi modi in cui si può rispondere a queste contraddizioni. Il nuovo percorso previsto per il reclutamento (la cosiddetta tenure track) si ispira al sistema seguito dalle migliori università in Europa e nel mondo, ma manca una componente cruciale: l’obbligo per le università di accantonare i fondi per il tempo indeterminato da utilizzare dopo il periodo di prova. Come reagire a questa contraddizione?
Si può incalzare il governo (anche dopo l’eventuale approvazione del ddl) a prevedere quest’obbligo per realizzare un vero percorso di tenure track, con numerosi argomenti: che se veramente vogliamo allinearci ai migliori sistemi universitari occorre seguirne la logica che li ispira e non adottare soluzioni parziali che non riuscirebbero a rispondere a quella logica; che se veramente vogliamo favorire il merito e combattere il nepotismo questo è il sistema migliore, perché qualunque sistema concorsuale può fallire nel valutare le capacità e l’impegno nella ricerca e nella didattica di un candidato, mentre il vederlo alla prova per alcuni anni consente a tutti i colleghi di valutare se il “nuovo acquisto” rende il dipartimento più competitivo o meno. Insomma, si può dire: questo è il principio migliore, ma questo governo (o il prossimo che farà la riforma) deve applicarlo in modo coerente.
Oppure si può rispondere che la tenure track “è ben altro”, che questo dimostra che tutta la riforma è un bluff, che sarebbe bastato applicare seriamente la norma già esistente della conferma in ruolo (dimenticando che questa conferma non è mai stata negata a nessuno…). O addirittura rispondere che in questo modo si estende il precariato, si dà più potere ai baroni, ecc.
Ora, è sotto gli occhi di tutti un progressivo slittamento nel dibattito dalla prima risposta alla seconda e alla terza. E resto convinto che il clima culturale che si è creato (il mutamento nelle posizioni del PD, gli slogans delle proteste amplificati dai media e ormai assorbiti dall’opinione pubblica, il ripensamento di molti rettori) è tale per cui, se la riforma non passerà, sarà il terzo tipo di risposta a dominare. Se e quando il dibattito sulla riforma riprenderà, sarà pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leaders.
Un altro tema evocato da alcuni commenti è il fatto che si sia trattato di un tentativo di riforma poco partecipato. Personalmente sono a favore della concertazione delle riforme importanti, ma si tratta di capire chi devono essere gli interlocutori. L’università è diventata una istituzione fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo sociale e culturale di un paese e non può quindi essere governata principalmente da e nell’interesse di chi vi lavora. E’ facile banalizzare l’apertura dei cda agli esterni (che esiste da tempo in tutti i paesi avanzati) presentandola come una volontà di privatizzazione o di spartizione fra i partiti. Certo, questi sono rischi purtroppo sempre presenti (anche se le esperienze straniere mostrano che il vero rischio è il disinteresse e lo scarso impegno dei membri esterni), che bisognerà sempre cercare di combattere. Ma non possono essere usati come alibi da docenti o studenti per evitare di render conto a qualcuno che ha il compito di rappresentare interessi più generali, “altri” dai loro.
Quali effetti può avere l’impiego di tecnologie informatiche nel mondo della scuola? E quali le modalità di implementazione? Proviamo a fare un po’ di chiarezza con questo dossier.
La mia proposta per la maturità: alcune precisazioni
Di Gianni De Fraja
il 23/09/2013
in Commenti e repliche, Rubriche
Ringrazio i lettori per i commenti fatti, nel complesso sono incoraggianti, con qualche eccezione, dovuta forse alla mia incompleta spiegazione della proposta.
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