Il rapporto Invalsi 2016-2017 conferma le differenze Nord-Sud negli apprendimenti degli studenti. Ma permette anche di far luce sulle disparità dovute alle condizioni socio-economiche, con classi di diverso livello all’interno di una stessa scuola.
Il rapporto Invalsi
Il ministero dell’Istruzione, università e ricerca ha appena pubblicato il rapporto sui risultati Invalsi 2016-2017. Evidenzia tendenze già osservate in passato, con gli studenti del Nord Italia che ottengono punteggi superiori alla media italiana e quelli del Sud e delle Isole che invece registrano punteggi inferiori. Sono differenze che si accentuano nel corso del processo formativo: mentre in seconda primaria i bambini delle diverse aree geografiche ottengono risultati simili, già in quinta primaria emerge un divario Nord-Sud che cresce con il passaggio ai livelli di istruzione successiva. Anche se, per fortuna, non mancano eccezioni: il Molise e la Basilicata fanno bene come le regioni del Nord e in alcuni casi pure meglio.
Una scuola diseguale per aree geografiche, quindi, ma non solo. Il rapporto mette in evidenza che la nostra è una scuola diseguale anche in relazione alle condizioni socio-economiche che incidono fortemente sui livelli di apprendimento degli alunni (a differenza del quadro molto più rassicurante offerto di recente dall’Ocse). La tabella sotto mostra, infatti, come i punteggi medi ottenuti in italiano e in matematica dagli alunni di quinta primaria e di seconda superiore aumentino man mano che sale il loro indicatore di condizioni socio-economiche (Escs). “Gli ostacoli di ordine economico e sociale” sembra continuino a limitare di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, con buona pace dell’articolo 3 della nostra Costituzione.
Il rapporto Invalsi evidenzia una scuola diseguale poiché segregata, soprattutto al Sud. Infatti, le regioni dove gli studenti ottengono i punteggi peggiori sono anche quelle dove c’è una minore omogeneità di risultati e una maggiore distanza nel livello di competenze tra gli alunni con i migliori e i peggiori esiti. Lo ha ribadito la stessa ministra Fedeli: al Sud e nelle Isole la variabilità dei risultati fra le classi è ancora troppo elevata.
Tabella 1
Fonte: Rapporto Invalsi
La forte variabilità nei risultati fra classi della stessa scuola può dipendere dal fatto che in alcune si concentrano studenti con maggiori difficoltà di apprendimento, ad esempio perché provenienti da contesti socio-economici svantaggiati. I compagni di classe – lo dimostrano molti studi – rappresentano uno degli stimoli scolastici più importanti, con effetti sostanziali sui risultati conseguiti e sui percorsi di studi scelti. I canali di influenza sono molteplici: i compagni di classe interagiscono tra loro nel processo di apprendimento, si aiutano nelle attività di studio e si scambiano importanti informazioni; contribuisco alla formazione di valori e aspirazioni. Ciascun membro della classe produce sugli altri importanti effetti: basta il cattivo comportamento di uno studente per impedire all’intera classe di andare avanti, mentre un comportamento rispettoso delle regole e curioso verso gli argomenti di studio permette a tutti di progredire nelle conoscenze possedute.
Il nodo della formazione delle classi
Quali studenti vanno a comporre una classe è quindi una questione cruciale. In Italia la composizione delle classi è decisa dal dirigente scolastico sulla base di criteri generali approvati ogni anno dal consiglio di istituto. Il principale, di solito, è il criterio di “eguale eterogeneità”, che consiste nell’avere all’interno della stessa scuola classi equilibrate riguardo a diverse dimensioni, quali l’abilità accademica, la provenienza sociale, la presenza di studenti stranieri e di disabili.
È un principio che ben si concilia con i valori di eguali opportunità e omogeneità di trattamento a cui spesso si richiama la nostra legislazione scolastica. Tuttavia, non sempre il principio viene rispettato. Se i casi come quello descritto nella lettera pubblicata nella sua rubrica su La Repubblica da Concita De Gregorio sono estremi e rari, ce ne sono altri molto più frequenti seppur meno eclatanti in cui si pratica una segregazione per classi in base al background socio-economico (soprattutto nel Sud). Ciò è ben documentato da Tommaso Agasisti e Patrizia Falzetti che cercano anche di capire se frequentare una scuola che pratica segregazione per classi produce effetti sui risultati ottenuti dagli studenti. I loro risultati mostrano che ne traggono beneficio non tanto gli studenti con abilità maggiore ma quelli provenienti dalle famiglie più agiate. Questi benefici però sono del tutto neutralizzati dalla penalità imposta sugli studenti raggruppati nelle classi “svantaggiate”.
Da un punto di vista prettamente teorico, come discusso in passato, potrebbero anche esserci vantaggi nel suddividere gli studenti per livello di abilità (è quello che fanno negli Stati Uniti e in Inghilterra), ma lasciare che ciò avvenga sotto la pressione delle famiglie (che faranno pressioni simili anche per avere per i propri figli gli insegnanti migliori) significa rinunciare al ruolo della scuola come strumento di mobilità sociale. Ben vengano quindi gli inviti della ministra ai dirigenti scolastici a farsi carico nella formazione delle classi di scelte coerenti con la nostra Costituzione e ben vengono i dati Invalsi che ci permettono di comprendere i mali che affliggono il sistema (curarli è una cosa diversa).
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ELENA SCARDINO
Se l’autrice leggerà il mio contributo pubblicato oggi nelle rubrica di Repubblica ‘invece Concita’, vedrà che costruire classi omogenee è molto più difficile e costringe il dirigente a scontentare le famiglie e gli insegnanti più esigenti …ma si deve assolutamente fare. E non è un’impresa impossibile. Permette inoltre di tenere sotto controllo i progressi e le difficoltà sia degli alunni che dei metodi educativi, incoraggia e stimola il confronto fra docenti, il desiderio di raggiungere risultati con tutti, invece di abbandonare i ragazzi in difficoltà a un destino di emarginazione e bocciature. Infatti una volta formate le classi bisogna costruire un sistema di verifiche periodiche e confrontabili, che vengano esaminate e discusse fra i colleghi in modo costruttivo. Così come all’interno della classe funziona, come dice l’autrice, il lavoro di gruppi disomogenei al loro interno su argomenti che permettano a tutti di dare un contributo.
Maria De Paola
Ho letto il suo contributo. Spero sia di stimolo a dirigenti scolastici, docenti e famiglie.
Maria De Paola
Ho letto il suo contributo. Spero sia di stimolo a dirigenti scolastici, docenti e famiglie.
Maria Prodi
Classi connotate da bisogni educativi differenziati sono utilizzate in altri paesi, per esempio in Francia, per centrare meglio l’offerta formativa e produrre compensazioni alle condizioni di disuguaglianza oggettiva degli alunni. Ho potuto osservare scuole che sceglievano di formare classi più numerose e con orario ridotto per studenti più brillanti, classi meno numerose e con un orario più ricco per studenti con risultati di apprendimento scarso. In Italia ci si attiene di solito a comportamenti dettati da asserzioni di principio, ma si resta indifferenti agli esiti. Far parti uguali fra disuguali spesso non produce uguaglianza. E alcuni ragazzi soffrono fortemente il paragone con compagni più dotati restando cronicamente nell’ombra. Chiaramente l’obiettivo perseguito con lucidità deve essere il rafforzamento e non la marginalizzazione di chi ha difficoltà: quindi non devono essere i genitori a dettare la composizione delle classi. E non ci deve essere segregazione fra le classi, ma ampia socializzazione incrociata. Forse la rigidità della classe, così emotivamente cara agli italiani, andrebbe superata personalizzando maggiormente i percorsi. Credo che solo sperimentando differenti soluzioni e andando a analizzare i risultati si possano trovare equilibri fra la personalizzazione dei processi educativi e il beneficio della relazionalità allargata.
Vincenzo Pascuzzi
L’Invalsi come il Pil. Lo pseudo-termometro annuo e senza scala. – 1/2
Leggiamo: “Una scuola diseguale per aree geografiche, …. la nostra è una scuola diseguale anche in relazione alle condizioni socio-economiche” cioè in relazione al Pil.
Osservazioni simili vengono da Marinella Gambino: “La Scuola italiana non è uguale da tutte le parti, così come non lo sono i vari territori. Avete notato la corrispondenza tra le rilevazioni Invalsi e il PIL o la povertà educativa a livello regionale?
La Sicilia, la Calabria, la Campania sono le regioni col più basso PIL pro capite e la più alta povertà educativa e sono le peggiori all’Invalsi. O anche la povertà educativa è colpa degli insegnanti del Sud Italia?” (“Invalsi, non abbandonate le scuole del Sud, 11 luglio 2017).
Il titolo “Ancora troppa disuguaglianza a scuola”contiene l’aggettivo “troppa” che è di …. troppo perché non esistono indicazioni o criteri per valutare la disuguaglianza accettabile o meno.
Al punto 3 de “Le Prove INVALSI 2017 in 10 punti” del 6 luglio scorso, è riportato che “ la partecipazione alle prove di maggio 2017 è stata altissima, raggiungendo i livelli massimi dall’introduzione delle prove INVALSI”.
Vuol dire che Invalsi e Miur si compiacciono dell’assenza di contestazioni e scioperi contro le prove Invalsi. Ma ciò non significa che sono venute meno le ragioni delle contestazioni stesse, cioè: 1) l’auto-referenzialità, 2) la non-oggettività negata e anche 3) l’obbligatorietà.
segue
Vincenzo Pascuzzi
L’Invalsi come il Pil. Lo pseudo-termometro annuo e senza scala. – 2/2
seguito.
C’è chi insiste a proporre il paragone Invalsi-termometro o Invalsi-fotografia, ma l’insistenza reiterata NON costituisce argomentazione.
Altro aspetto da evidenziare è che le prove, o test, o quiz, vengono rinnovate ogni anno. Lo pseudo-termometro varia ogni anno, senza riferimenti con l’anno precedente, senza alcuna indicazione sui livelli di accettabilità o sufficienza: i punteggi 184 o 185 del 1° quartile sono alterazione (37,2°), febbre alta (38,5°), o febbrone, o temperatura normale? nessuno lo sa, nessuno lo dice. E i punteggi 214 o 217 del 4° quartile? anche qui non c’è nessun riferimento se non quello in percentuale (13-15%) che non significa nulla.
La situazione non migliora da un anno all’altro (v. “ancora” del titolo)? E come potrebbe avvenire senza interventi specifici governativi? lo pseudo-termometro è, al più e per chi ci crede, un presidio diagnostico, non certo terapeutico!
Michele Zazzeroni
I test Invalsi (da benedire!) spingono a più profonde riflessioni sui risultati. Ad esempio: c’è un nesso al Sud tra forte variabilità nella classe e spessore e caratteristiche dei ceti sociali? Al Nord esiste (ancora) un ceto medio ampio. articolato, non “statalizzato” che passa ai figli inputs tutto sommato omogenei. E’ così al Sud?
Inoltre: ma come è possibile che i test Invalsi vedano migliori risultati al centronord e invece alle maturità i 100 e lode al Sud esplodano e al Nord sembrino tutti studenti mediocri? Qualcosa non funziona.
Vincenzo Pascuzzi
1) Ma cosa significa benedire gli Invalsi, e perché dovrebbero esserlo?!
2) Il confronto tra i 100 e lode e i risultati Invalsi è una assurdità senza senso: questi ultimi sono un paio di milioni (2.232.000 quest’anno) i 100 e lode sono mille volte di meno. Nel confronto nessun altro parametro viene considerato. Nessuna analisi statistica risulta sugli altri 500mila voti, dal 100 senza lode fino al 60.
Nel 1954 Darrel Huff scrisse “How to Lie with Statistics (“Mentire con le statistiche”): il confronto 100 e lode-Invalsi costituisce un esempio enorme di menzogna ripetuto ormai da anni e accreditato da commentatori competenti (in apparenza).
Segnalo: Roger Abravanel, l’Invalsi e i “troppi 100 e lode TRUCCATI nel sud”: http://aldodomenicoficara.blogspot.it/2013/06/roger-abravanel-linvalsi-e-i-troppi-100.html?m=0
Segnalo ancora: http://noisefromamerika.org/articolo/perche-studenti-sud-ottengono-voti-piu-alti-maturita
Un’obiezione è immediata: se compariamo i risultati degli alunni quindicenni (Invalsi, Pisa) con quelli dei loro colleghi diplomati, non stiamo forse paragonando le mele con le pere? Non stiamo, cioè, confrontando dati disomogenei?