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Ddl Capitali: forse il gioco non vale la candela

Il Ddl Capitali approvato dal governo contiene semplificazioni ispirate all’idea che uno stato non debba avere regole più rigide di quelle previste dalla Ue. Ma è difficile che possa invertire la tendenza di un mercato azionario sempre meno vivace.

Il disegno di legge del governo

Era dal 2004, ossia dai tempi del Ddl risparmio, che non si vedeva un ampio disegno di legge governativo sulle materie del diritto societario e dei mercati finanziari come quello approvato l’11 aprile dal governo. Ancor più singolare è il fatto che l’intervento non avvenga in reazione a scandali finanziari (vedi Parmalat), ma sulla spinta degli operatori del mercato, preoccupati per lo stato comatoso del mercato azionario italiano.

Che giudizio dare dell’intervento? Si muove nella giusta direzione di ridurre alcuni oneri ingiustificati, ma prevede anche norme discutibili, è insufficiente a invertire la tendenza e si presta fin troppo a modifiche peggiorative nel corso dei lavori parlamentari. Ma andiamo con ordine.

Il disegno di legge governativo contiene alcune condivisibili semplificazioni del quadro normativo, ispirate all’idea che uno stato membro non debba avere regole più rigide di quelle imposte dall’Unione europea (il cosiddetto goldplating), pena lo svantaggio competitivo delle sue imprese e dei suoi intermediari finanziari. In particolare, si segnalano: 

  • la nuova definizione di Pmi quotata, che amplierà la platea dei destinatari di una serie di esenzioni e norme più favorevoli (anche se, attualmente, ne beneficeranno non più di una ventina di società); 
  • l’ampliamento della facoltà di collocare obbligazioni, che ridurrà l’impatto di una disciplina vetusta (art. 2412 cc), che ben avrebbe potuto essere abrogata; 
  • la soppressione di taluni poteri della Consob di dubbia utilità, come in tema di ammissione a quotazione; 
  • un intervento sui tempi dell’approvazione dei prospetti, tradizionalmente più lunghi in Italia che altrove;
  • la facoltà di attribuire fino a 10 voti alle azioni a voto plurimo nelle società non quotate, come è prassi o regola in molti paesi, così rimediando all’eccesso di prudenza (vedi qui) che aveva caratterizzato la disciplina introdotta nel 2014; 
  • il notevole ridimensionamento dei vincoli che ostacolano il passaggio dal mercato alle autorità di vigilanza e viceversa, che hanno l’effetto di prevenire quel minimo di osmosi tra mercati e regolatori senza la quale i secondi non possono svolgere efficacemente le proprie funzioni.

Le proposte sbagliate

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Assieme a queste “luci”, non mancano alcune “ombre”. Almeno tre delle proposte di riforma del Ddl vanno nella direzione sbagliata. Anch’esse sono coerenti con la logica di evitare il goldplating. Ma questa logica non può giustificare qualunque intervento normativo: tra le tante norme interne che vanno oltre quanto richiesto dal diritto unionale, spesso il frutto di compromessi al ribasso, non tutte sono inutili e dannosi orpelli.  

La prima proposta discutibile è l’eliminazione della presunzione di colpa in capo al responsabile del collocamento in un’offerta al pubblico per il caso di informazioni false nel prospetto, salva la prova di aver adottato la diligenza richiesta per verificare che il prospetto non contenesse informazioni false. Si tratta di una disciplina che l’Italia ha mutuato dagli Stati Uniti e che costituisce un notevole incentivo a che il collocatore presti la dovuta attenzione alle informazioni che vengono date al pubblico. La sua eliminazione rende ancora più difficile ottenere il risarcimento del danno per chi ha acquistato strumenti finanziari sulla base di informazioni false. 

Il Ddl elimina poi l’obbligo per gli azionisti di controllo di comunicare al mercato il proprio trading sulle azioni. In una logica di prevenzione dell’abuso di informazioni privilegiate, l’Unione europea impone l’obbligo di segnalazione del trading in capo agli amministratori di società e ai soggetti loro collegati. Ma in un mercato azionario come il nostro, caratterizzato dalla presenza di azionisti di controllo che, anche quando non siedano nel Cda della quotata, inevitabilmente hanno accesso a informazioni privilegiate, non ha senso circoscrivere l’obbligo ai soli amministratori. È vero che ci sono altri mercati azionari europei caratterizzati da un azionariato concentrato che non hanno un’analoga norma. Ma ciò non implica che ci si debba appiattire su soluzioni che chiaramente pongono i soci di controllo in una posizione di privilegio. Non a caso, in entrambi i mercati azionari con maggiore tradizione, gli Stati Uniti e il Regno Unito, l’obbligo si estende ai soci di controllo. 

In terzo luogo, il Ddl ripropone una norma dell’emergenza Covid, che consentirebbe (per soli due anni) di procedere nuovamente ad aumentare il capitale sociale a maggioranza semplice invece che con quella dei due terzi. Se è comprensibile che nel mezzo di una pandemia che metteva in forse la sopravvivenza di numerose realtà imprenditoriali, il legislatore abbia privilegiato l’obiettivo di agevolare il finanziamento delle imprese su quello della tutela delle minoranze, non si capisce quali emergenze giustifichino un analogo favore nel contesto attuale. 

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Gli aumenti di capitale, se eseguiti con conferimenti in natura o senza diritto d’opzione, sono operazioni rischiose per i soci di minoranza, perché le azioni vengono in questi casi riservate o agli azionisti di controllo o a soggetti loro vicini (altrimenti i primi non presterebbero il proprio necessario consenso all’operazione). È elevato il rischio che il prezzo dell’aumento sia loro particolarmente favorevole, anche perché non sempre l’aumento sarà soggetto alla disciplina sulle operazioni con parti correlate. La maggioranza dei due terzi è tutela che si aggiunge a quelle previste per tali operazioni e serve proprio a tutelare la minoranza. Come osservato anche da altri, non sono certo modifiche come quelle contenute nel Ddl Capitali che potranno invertire la tendenza di un mercato azionario sempre meno vivace. Ben altro sarebbe necessario. Si dirà che il meglio è nemico del bene e che il benaltrismo è uno sterile esercizio. Di fronte a benefici tutto sommato modesti e non risolutivi, oltre che alla presenza di disposizioni discutibili, viene però da chiedersi se il gioco valga la candela. Non tanto per le “ombre” di cui si è detto, ma perché senza scandali recenti che lo giustifichino, nessun elettore dedicherà attenzione a questi temi e, pertanto, il cammino parlamentare del disegno di legge si presta fin troppo alle incursioni delle lobby delle banche e delle imprese quotate. Queste potrebbero ad esempio spingere per ulteriori interventi a proprio vantaggio, quali la liberalizzazione della disciplina delle azioni a voto multiplo o maggiorato nelle società già quotate (opportunamente lasciate fuori dal Ddl) o l’abrogazione di altre disposizioni a tutela di minoranze e investitori che, pur rientrando nella categoria del goldplating, sono nondimeno giustificate.

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  1. Savino

    Delle liberalizzazioni per aiutare il lavoratore-consumatore-risparmiatore che è contraente debole non c’è traccia, mentre lo Stato e la politica continuano, banalmente e comodamente, a mettersi, sempre più, dalla parte del più forte

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