L’ipotesi di un rientro soft dall’inflazione, in alternativa a una recessione, non è ancora un fatto scontato. Molto dipenderà dalle politiche monetarie del 2024, che a loro volta saranno condizionate dall’andamento dei prezzi e dalle dinamiche salariali.
Gli scenari per il 2024
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una eccezionale instabilità del quadro macroeconomico. Vi hanno contribuito gli effetti innescati da due importanti shock – la pandemia e la guerra in Ucraina – che, attraverso diversi canali, hanno determinato comportamenti dell’economia del tutto peculiari. Tra i vari fenomeni, certamente uno dei più significativi è stato l’aumento dell’inflazione osservato nella maggior parte delle economie.
Nei mesi scorsi il fenomeno inflattivo si è ridimensionato. Mentre l’economia nei paesi avanzati, pur rallentando, nel complesso ha tenuto: è stata scongiurata la recessione da molti temuta e, soprattutto, i tassi di disoccupazione delle economie avanzate sono rimasti su livelli bassi in una prospettiva storica.
Gli scenari macroeconomici elaborati dalle principali istituzioni suggeriscono peraltro che anche nel 2024 la crescita, pur modesta, dovrebbe restare di segno positivo, mentre l’inflazione si dovrebbe confermare su livelli decisamente inferiori a quelli degli ultimi anni, poco al di sopra degli obiettivi delle banche centrali.
Tabella 1
Questi scenari configurano una combinazione molto favorevole perché, in genere, le fasi di rientro dell’inflazione si verificano a seguito di politiche di segno restrittivo e al costo di un significativo aumento della disoccupazione.
Tuttavia, non vi è ancora certezza, né riguardo al fatto che il rientro dell’inflazione sia definitivo, né tanto meno riguardo alla tenuta del quadro macroeconomico dei prossimi mesi. L’ipotesi del soft landing è quindi tutt’altro che scontata.
Inflazione transitoria o permanente?
Per valutare le probabilità dello scenario del soft landing è utile ripercorrere alcuni punti del dibattito degli ultimi due anni. In particolare, sulla questione della natura e delle prospettive dell’inflazione si è accesa una discussione che ha messo in evidenza diversi punti di vista.
Al costo di un eccesso di semplificazione, si può ricorrere alla tassonomia proposta da Paul Krugman sulle colonne del New York Times, che ha individuato due schieramenti: i sostenitori dell’inflazione “transitoria”, ovvero destinata a rientrare spontaneamente in tempi relativamente brevi, e i sostenitori dell’inflazione “permanente”, che enfatizza la necessità di interventi espliciti per frenare la corsa dei prezzi, senza i quali si produrrebbe un aumento delle aspettative d’inflazione e un rialzo della dinamica dei prezzi di tipo permanente.
Le due posizioni propongono chiavi di lettura molto diverse dei rialzi dei prezzi degli anni scorsi e delle rispettive cause.
Cause e costi dell’accelerazione dei prezzi
L’aumento dell’inflazione degli anni scorsi origina in parte da fattori di offerta: principalmente, dalle rotture nel funzionamento delle catene di fornitura determinatesi nel periodo della pandemia per effetto delle frequenti interruzioni della produzione da parte di alcuni produttori di intermedi, e dagli shock sui prezzi dell’energia (soprattutto nei paesi europei).
Ai rincari dei prezzi hanno contribuito però anche fattori di domanda: in particolare, gli impulsi indotti dagli interventi straordinari delle politiche monetarie e fiscali (soprattutto negli Stati Uniti) dopo l’inizio della pandemia.
Il peso dei fattori di offerta è enfatizzato nelle tesi dell’inflazione transitoria: essendo legati ad aspetti contingenti e peraltro esterni al quadro economico, come la pandemia e la guerra, per loro natura sarebbero destinati a essere superati, portando a un riassorbimento spontaneo delle spinte sui prezzi. La discesa dell’inflazione, proprio perché legata al miglioramento delle condizioni dal lato dell’offerta, non necessiterebbe di politiche di segno particolarmente restrittivo, e quindi sarebbe coerente con un quadro di “soft landing” dell’attività economica.
Il ruolo delle politiche è invece enfatizzato nelle tesi dell’inflazione permanente. Un rientro dell’inflazione necessiterebbe innanzitutto di una normalizzazione delle politiche monetarie e fiscali degli anni scorsi, che guiderebbero la frenata della domanda; la trasmissione della politica monetaria richiederebbe la formazione di un output gap negativo, e quindi un aumento della disoccupazione. In definitiva, alle banche centrali non resterebbe altra scelta che mandare le economie in recessione.
Misurare la transizione
Per descrivere le difficoltà del rientro da un alto tasso d’inflazione, il dibattito degli ultimi anni ha posto l’accento sulle condizioni del mercato del lavoro. In particolare, uno dei punti più interessanti delle tendenze recenti è rappresentato dalla caduta del tasso di disoccupazione e dell’aumento del tasso di posti vacanti osservato in diverse economie.
La presenza di un maggiore numero di posti vacanti rispetto a prima della crisi, a parità di tasso di disoccupazione, potrebbe fare pensare a una traslazione della curva di Beveridge verso l’alto (aumentano le vacancies a parità di tasso di disoccupazione) e dunque a un peggioramento del trade-off fra le due variabili, cui corrisponde un aumento del tasso di disoccupazione di equilibrio. E in effetti ciò sembra essere avvenuto negli Stati Uniti, un po’ meno nell’area euro.
È proprio a partire dalla constatazione delle tensioni del mercato del lavoro che i fautori dell’ipotesi dell’“inflazione permanente” sostengono sia improbabile che un rientro della dinamica dei prezzi e dei salari si produca spontaneamente. Difatti, per ridurre le tensioni nel mercato del lavoro, ovvero per ridurre il tasso di posti vacanti, sarebbe necessario un tasso di disoccupazione più elevato, e quindi una minore domanda di lavoro. Si renderebbe pertanto necessaria una fase di recessione e questo giustificherebbe l’esigenza di politiche monetarie di segno restrittivo.
D’altra parte, il costo della disinflazione si ridurrebbe qualora la curva di Beveridge dovesse riportarsi spontaneamente nella posizione del periodo pre-pandemia, traslandosi verso il basso; i sostenitori dell’“inflazione transitoria” hanno sottolineato, ad esempio, che l’aumento delle vacancies è legato a fattori del tutto straordinari, e in buona misura legati alle anomalie dei comportamenti dei lavoratori oltre che a problemi organizzativi legati alla fase delle riaperture e all’aumento dello smart working. Man mano però che il mercato del lavoro tende a superare le conseguenze della pandemia, si dovrebbe osservare anche una riduzione dell’incidenza dei posti vacanti senza un aumento significativo della disoccupazione: in definitiva, la curva di Beveridge dovrebbe nuovamente traslarsi verso il basso. È quanto si è in effetti osservato nel corso dell’ultimo anno nel caso Usa, con una contrazione del tasso di posti vacanti in presenza di un livello del tasso di disoccupazione sostanzialmente inalterato sui valori minimi. È questa l’ipotesi del “soft landing”, secondo la quale la Fed e la Bce non dovrebbero necessariamente rischiare di mandare l’economia in recessione per prevenire un surriscaldamento del mercato del lavoro e ulteriori aumenti dell’inflazione.
Figura 1
Il futuro ci dirà molto del nostro passato
Alla luce di questa sintesi, si coglie come l’ipotesi del soft landing, alternativa a quella della recessione, non sia ancora un fatto scontato. Molto dipenderà dalle politiche monetarie del prossimo anno, che a loro volta saranno condizionate dall’andamento dell’inflazione e dalle dinamiche salariali.
Le tendenze che osserveremo rappresentano quindi un passaggio importante anche per una valutazione delle politiche di contrasto alla recessione adottate durante la pandemia: se si dimostrerà che queste hanno sostenuto l’economia al costo di una maggiore inflazione e di una successiva recessione, probabilmente non ne è valsa la pena; ma se la prospettiva è quella di un semplice rallentamento, possiamo dire che le risorse mobilitate dai governi e dalle banche centrali in una fase di grave emergenza sono state spese bene.
Per ora è prematuro stabilire quale sarà la conclusione della storia. Ma, d’altra parte, la realtà non è mai manichea come ce la prospettiamo e difficilmente le evoluzioni saranno così nitide da permetterci di stabilire chi ha avuto ragione. In definitiva, la sfida fra il team transitory e il team permanent sarà giocata ancora, sino all’ultimo overtime.
* Questo articolo riprende alcuni contenuti sviluppati nell’Osservatorio Monetario che sarà presentato presso l’Università Cattolica il prossimo 13 dicembre.
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Savino
Proprio all’opposto, bisognerebbe intraprendere una vera e propria guerra alla speculazione, il cui extra-profitto non ha ragione di esistere per l’interesse della collettività, per una materia che richiede più controlli, vigilanze e monitoraggi e anche autority con poteri sanzionatori più ampi. Certi personaggi non hanno il coraggio di confrontarsi con la vera concorrenza, non quella fasulla che nasce dopo aver tolto vergognosamente, a discapito dei più deboli, il mercato tutelato di luce e gas. Le tariffe pubbliche e di servizi in qualche maniera pubblici non possono aumentare in momenti così delicati, come sta accadendo per i biglietti aerei o per quelli dei mezzi pubblici o per certe prestazioni sanitarie. I salari richiedono attenzione con politiche dei redditi e relazioni industriali adeguate, non far aspettare 10 anni per rinnovare un contratto o avere retribuzioni ferme da 30 anni.