La direttiva Ue 2023/970 sulla trasparenza salariale vuole rafforzare l’applicazione del principio della parità retributiva di genere per lo stesso lavoro. Ma da solo il diritto del lavoro non riesce a rimuovere le cause profonde della disparità.
“Pari retribuzione per lavoro di pari valore”
Secondo gli ultimi dati Eurostat, in Italia il gap retributivo medio (ossia la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne) è pari al 5 per cento (al di sotto della media europea che è del 13 per cento). Invece quello complessivo (ossia la differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini) è pari al 43 per cento (al di sopra della media europea, che è pari al 36,2 per cento). Attraverso la direttiva 2023/970, che sancisce per l’ennesima volta la parità retributiva tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore e il divieto di discriminazione in materia di occupazione e impiego per motivi di genere, l’Unione europea intende ora rendere trasparenti le informazioni sui livelli retributivi e sviluppare strumenti o metodologie, che rendano facile valutare e confrontare il valore del lavoro.
Basterà la trasparenza a sconfiggere la discriminazione retributiva? La risposta più attendibile è “no”. Da un punto di vista strettamente normativo, non esiste una regola di parità di trattamento. Il datore di lavoro è libero di retribuire o trattare in modo diseguale i lavoratori purché le differenze siano motivate sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere (come previsto dal considerando 39 della direttiva).
Ora si dà il caso che ci siano moltissime ragioni per trattare in modo diseguale uomini e donne a parità di mansioni: le donne se hanno figli o anziani da accudire si assentano di più, sono meno disponibili a trasferte, a trasferimenti geografici, a lavorare nei giorni festivi o di notte o a fare lo straordinario. Sul piano retributivo, i minimi tabellari sono identici per uomini e donne: nessun contratto collettivo si sognerebbe mai, oggi, di diversificare i trattamenti per sesso, anche se in passato è accaduto. Ciò che cambia è la parte variabile della retribuzione, ossia i criteri per l’attribuzione di trattamenti individuali, i cosiddetti ad personam, o le indennità legate a difficoltà o a penosità del lavoro, o a determinati risultati, al titolo di studio o a determinate competenze, l’impegno, la responsabilità. Parlare di parità retributiva per uno “stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” senza precisarne i criteri di valutazione (art. 4 dir.) è una finzione; e questo perché l’inquadramento e la retribuzione possono essere determinati tenendo conto anche di elementi diversi dal mero tempo di lavoro o dall’anzianità di servizio. Fattori oggettivi e neutri come, ad esempio, il titolo di studio, la disponibilità alla mobilità geografica, le dimensioni dell’unità produttiva, le competenze/qualifiche possono giustificare le differenze.
Quindi è assai probabile che i gap retributivi e di carriera continuino a manifestarsi nonostante il rafforzamento della normativa antidiscriminatoria, perché l’eguaglianza di opportunità sostanziale è cosa ben diversa dall’eguaglianza formale: la prima può avere effetti perfino superiori rispetto alla seconda, ma richiede seri investimenti pubblici per la correzione o la rimozione delle troppe diseguaglianze di partenza cui abbiamo fatto cenno, molte delle quali non sono credibilmente eliminabili. Ma questo è un problema che la direttiva non affronta.
La situazione occupazionale delle donne italiane
Secondo l’Ufficio studi della Camera nel 2022 abbiamo registrato il tasso più basso di donne occupate tra gli stati dell’Ue: solo la metà della forza lavoro femminile di età compresa tra i 20 e i 64 anni. Poi c’è il dato più̀ emblematico che spiega, almeno in parte, l’inverno demografico in cui siamo piombati: nel 2022 una donna su cinque dice addio al lavoro dopo la maternità a causa della difficoltà di conciliare le necessità di cura familiare con il lavoro. Un’esigenza, quella della conciliazione, che dovrebbe accomunare madri e padri e che invece resta ancora un problema delle sole lavoratrici. La decisione di lasciare il lavoro è infatti determinata per oltre la metà – il 52 per cento – da esigenze di conciliazione e per il 19 per cento da valutazioni economiche. Ma la vera differenza, per rimanere al lavoro, la fa il titolo di studio: un livello d’istruzione più elevato annulla quasi la differenza tra tassi di occupazione di madri e non madri (il secondo è pari al 91,5 per cento del primo).
Un ossimoro molto significativo: la scelta obbligata del part-time
Un esempio di come la discriminazione nasca dalla struttura sociale del nostro paese è costituito dal lavoro a tempo parziale. Per le statistiche il part time è “involontario” quando un lavoratore accetta un lavoro a orario ridotto in assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno. Ma per le lavoratrici madri il part time quasi mai è – in questo senso – involontario. È formalmente voluto e negoziato da ciascuna di loro perché è una scelta obbligata, determinata dalla necessità di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di cura. Per questo motivo in Italia si registra la netta prevalenza del part time femminile, che riguarda poco meno del 49 per cento delle donne occupate contro il 26,2 per cento degli uomini, con inevitabili conseguenze sul divario retributivo e previdenziale di genere. Nessuno può imputare questo esito a discriminazione operata dal datore di lavoro che si limiti ad accogliere le richieste di riduzione dell’orario di lavoro di una lavoratrice con figli piccoli rispetto al collega assunto a tempo pieno; o a gratificare con maggiorazioni economiche il collega con orario full time, con o senza figli piccoli, che accetti una trasferta o un trasferimento in una zona lontana dalla abitazione familiare.
La discriminazione tuttavia c’è, eccome, e sta “nell’equilibrio mediterraneo” che governa la distribuzione degli oneri di cura tra i due generi e che sfugge a tutti i divieti e a tutte le misure tese a combattere le differenziazioni attraverso la trasparenza. E non sarà il diritto del lavoro a sradicarla.
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Giuseppina De Cicco
Attenta e acuta analisi . La cura parentale è ancora quasi esclusiva femminile. L’educazione all’interno della famiglia a condividere equamente i compiti di assistenza porteranno ad un notevole cambiamento. Ho grande fiducia nelle nuove generazioni.
Maria Letizia Pruna
L’incidenza del part-time sull’occupazione femminile in Italia è pari al 31,8%, contro l’8,3% tra gli uomini. Quasi il 74% del lavoro part-time è svolto dalle donne. In larga parte è un part-time involontario, non sono le donne a sceglierlo: oltre il 61% del part-time femminile è involontario (Istat, RCFL,2022), ma tra i 25 e i 34 anni, un’età in cui se ci sono figli sono piccoli, l’involontarietà del part-time sale al 71%. Un terzo del lavoro part-time è svolto da donne tra i 50 e i 64 anni: la cura di figli piccoli in questa fascia di età è superata. I dati dimostrano che l’idea molto diffusa che il part-time sia scelto dalle donne, “serva alle donne”, non corrisponde alla realtà: il part-time è associato in larga parte a occupazioni poco qualificate e poco retribuite destinate alle donne, perché è socialmente accettabile che una donna lavori poco e guadagni poco.