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La tassa sui profitti delle banche? Ricorda le avventure di Pinocchio

Doveva essere una tassa sugli “extraprofitti”, poi è diventato un contributo “volontario”, ora è un differimento di deduzioni fiscali. Alle banche costerà poco più di trecento milioni in sei anni. Raccolti e raccontati dallo stato in maniera fuorviante.

La non-tassa sulle banche nella Relazione tecnica

Doveva essere una tassa sui profitti, o meglio, sugli “extraprofitti” delle banche, poi è diventato un contributo più o meno “volontario”, ora si è trasformato quasi per intero in un differimento di deduzioni fiscali spettanti agli istituti di credito. Di fatto, un prestito a tasso zero che le banche concedono all’erario italiano per qualche anno. La differenza non è solo semantica, ha enormi implicazioni per il bilancio dello stato in termini di flussi di cassa, deficit e debito pubblico, nonché per le banche in termini di costo della manovra e di sua distribuzione fra i diversi istituti di credito.

Anche dal punto di vista delle cifre in ballo i numeri presenti nella Relazione tecnica, se ben letti, sono alquanto diversi da quelli anticipati dal governo. Una vicenda in cui la nostra classe politica, dopo il flop dello scorso anno della tassa sugli extraprofitti che ha prodotto zero gettito, aveva la necessità di nascondere nuove tasse, salvaguardare gli interessi popolari, colpire le banche senza fare troppo male attraverso un provvedimento complesso e machiavellico.

Partiamo dai documenti ufficiali, ovvero, dal testo legge di bilancio bollinato, dalla Relazione illustrativa e dalla Relazione tecnica, arrivati in Parlamento il 23 ottobre.

Nella loro attività creditizia, le banche sono costrette a svalutare gli impieghi in caso di situazioni d’insolvenza più o meno declarate. Le svalutazioni sono un costo ordinario nel bilancio civilistico, ma a fini fiscali sono deducibili solo entro certi limiti. L’eventuale eccedenza (peraltro assai frequente) deve essere spalmata nei nove anni successivi. Ne consegue una divaricazione fra risultato di bilancio e base imponibile, pari all’importo non deducibile. Pertanto, le banche pagano maggiori imposte nel primo anno per una loro riduzione negli anni seguenti, il cui importo è denominato in gergo “Dta” (Deferred Tax Assets). Lo stesso meccanismo si applica anche al costo dell’avviamento che normalmente emerge in caso di acquisizione di un’altra azienda bancaria e ad altre quote deducibili emerse in sede di prima applicazione del principio contabile Ifrs9.

Ora la legge di bilancio prevede il congelamento della deduzione delle Dta per i periodi d’imposta 2025 e 2026 (Capo II articolo 3). Le banche, nei due anni, non potranno abbattere l’imponibile di periodo con le Dta e dovranno pagare più tasse (Ires e Irap per circa 3,3 miliardi). Gli importi, tuttavia, verranno recuperati nei tre o quattro anni successivi. In altri termini, a fronte delle maggiori tasse dovute nel 2025 e 2026 pagheranno meno tasse fra il 2027 e il 2030. Tutto questo equivale all’emissione di titoli di debito (una sorta di Btp) a tasso zero da parte dello stato e sottoscritti dalle banche. Pertanto, il costo per le banche a beneficio dello stato è dato dai mancati interessi percepiti/pagati su un titolo di analoga durata che oggi rende circa il 2,5 per cento.

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La legge prevede, poi, che, per il solo 2025, il maggior reddito imponibile formatosi in conseguenza della mancata applicazione delle deduzioni sopra ricordate potrà essere compensato con perdite fiscali pregresse nel limite massimo del 65 per cento (era dell’80 per cento). La stessa limitazione si applica per le eccedenze Ace che passano, quindi, da una deducibilità al 100 per cento a una al 65 per cento. Questo determinerà un onere fiscale aggiuntivo per le banche di circa 695 milioni di euro, che pare potrà essere recuperato.

Il costo per le banche e i benefici per lo stato

In totale il costo della manovra per le banche varrà poco più di trecento milioni. Una cifra che i banchieri hanno ritenuto ragionevole pagare in nome della benevolenza del governo. Anche alla luce del fatto che solo quest’anno il loro utile netto dovrebbe superare i 26 miliardi, dopo aver pagato 10 miliardi di tasse ordinarie.

Ovviamente per ogni singola banca il maggior onere della manovra si distribuisce, con ogni probabilità, in maniera tutt’altro che proporzionale ai maggiori utili realizzati, poiché dipende da una serie di variabili, quali l’ammontare di svalutazioni sui crediti effettuate negli anni passati o i costi di avviamento.

Lo stato invece ha indubbi benefici in termini di flussi di cassa: 2,5 miliardi quest’anno e 1,5 miliardi il prossimo. Tuttavia, il beneficio in termini di minor deficit è di poco meno di 200 milioni quest’anno e circa 100 milioni per il prossimo, mentre il debito pubblico, almeno in termini sostanziali, è destinato a crescere di 3 miliardi.

Da un punto di vista contabile bisognerà vedere poi se le norme di bilancio italiane ed europee e le rispettive autorità di vigilanza saranno in grado di registrare correttamente quanto deciso dal legislatore italiano.

Una strategia di comunicazione opaca

Rimangono da valutare due altri profili della manovra fra loro interrelati. Perché è stata scelta una strada così tortuosa e perché il governo ha usato una strategia di comunicazione così opaca, per non dire fuorviante. Dopo il disastroso tentativo dello scorso anno di tassare gli extraprofitti delle banche, che non aveva portato un euro nelle casse dello stato e neppure di fatto aveva contribuito a rafforzarne il patrimonio, si trattava di non ripetere gli stessi errori. Il governo, inoltre, non voleva correre il rischio di imporre un nuovo provvedimento dai potenziali profili incostituzionali né introdurre nuove tasse per motivi di coerenza politica (“noi non siamo il governo delle tasse”). Infine, si voleva poter annunciare di aver chiesto alle banche dei sacrifici (Salvini: “paghino i banchieri”; Giorgetti: “so distinguere tra chi può fare sacrifici e chi no”) senza inimicarsele troppo (Meloni, “le banche non sono nemiche, abbiamo collaborato”). Ecco allora il miracolo: sospendere temporaneamente crediti d’imposta spettanti agli istituti di credito che permettessero di annunciare il raggiungimento di importanti risultati anche al costo di confondere entrate di cassa con entrate effettive (“Intesa sulle banche, contributo da 3,5 miliardi”).

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Rimane vero che “ciò che viene tolto alle banche (poco), sarà girato al sistema sanitario (poco)”. Come allora non pensare che siamo più nel mondo dell’amabile Collodi che dell’acuto Niccolò Machiavelli richiamato dall’Economist (“Giorgia Meloni would make Machiavelli proud”)?  

Tabella 1 – Effetti della manovra in termini di flussi di cassa

Fonte: Relazione tecnica alla legge di bilancio.

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Le sorprese della manovra

  1. Savino

    Questa è solo una partita di giro, rappresentante un anticipo fiscale dei prossimi esercizi. Il ricarico, invece, sembra già scontato sui correntisti.

  2. Enrico

    È facile pronosticare che l’Eurostat classificherà come “payable” i crediti fiscali concessi alle banche in cambio del loro “contributo”, al pari di quelli generati dalle prime versioni del superbonus edilizio. Quindi questi crediti aumenteranno il deficit dell’anno in cui sorgono, neutralizzando gli effetti positivi delle maggiori entrate previste. Pertanto, oltre a Collodi, richiamerei Tafazzi e i vertici della Juve.

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