Le competenze prima di tutto

In Italia la formazione non formale è sottovalutata. Andrebbe invece valorizzata perché in un periodo di grandi trasformazioni acquistano sempre più importanza le competenze delle persone, indipendentemente da dove o come siano state acquisite.

La formazione in un’economia in trasformazione

Attraversiamo un momento di profonde trasformazioni economiche e la competitività dell’Italia dipende sempre più dalla capacità dei lavoratori di adattarsi alle nuove circostanze. Tutto ciò implica, per i lavoratori, l’acquisizione di nuove competenze e, per i datori di lavoro, la capacità di riconoscerle. 

L’ostacolo principale nel nostro paese è la scarsa visibilità e l’uso limitato della formazione non formale: solo il 20 per cento circa degli adulti partecipa tale formazione (metà della media Ocse) e tra chi ha bassi livelli di istruzione la quota scende sotto il 10 per cento. Di conseguenza molte competenze restano invisibili e sottoutilizzate.

L’approccio skills-first

Nel favorire l’incontro tra domanda e offerta acquistano sempre più centralità le piattaforme online: i lavoratori le usano per segnalare le proprie esperienze e competenze, mentre i datori pubblicano opportunità disponibili e competenze richieste. Queste innovazioni hanno modificato la gestione delle risorse umane. E si diffondono le pratiche di skills-first – approcci al reclutamento, mobilità e formazione che privilegiano le competenze delle persone, indipendentemente da dove o come siano state acquisite –per ampliare e diversificare il bacino di talenti e migliorare l’incontro tra lavoratori e opportunità occupazionali.

Le pratiche skills-first sono emerse grazie a tecnologie che permettono di valutare le competenze senza basarsi solo titoli di studio e grazie ai cambiamenti demografici. Carriere più lunghe e il rapido evolversi della domanda di competenze e conoscenze impongono un aggiornamento continuo, che i titoli di studio acquisiti catturano sempre meno. D’altra parte, i sistemi educativi faticano ad adeguarsi ai nuovi bisogni del mercato di lavoro, lasciando molti settori senza percorsi formativi specifici.

La situazione in Italia

Nel rapporto Empowering the Workforce in the Context of a Skills-First Approach abbiamo utilizzato dati LinkedIn e di altre fonti, per capire come i lavoratori segnalano le proprie competenze e come i datori usano tali informazioni nella selezione di personale. Se nei paesi Ocse cresce sia la ricerca di personale basata sulle competenze sia l’uso delle piattaforme da parte dei lavoratori, in Italia ciò avviene di meno. Una spiegazione potrebbe essere che nel nostro paese Internet e i canali digitali sono meno utilizzati per la ricerca di lavoro e personale.

Se guardiamo ai numeri, tra luglio 2023 e giugno 2024, circa il 14 per cento delle ricerche dei selezionatori nei paesi Ocse includeva filtri specifici sulle competenze e nella maggior parte dei paesi oltre la metà delle offerte di lavoro online riportava requisiti di competenze dettagliati. In Italia invece meno del 10 per cento delle ricerche filtrava per competenze o titoli, e meno del 50 per cento delle offerte includeva requisiti di competenze dettagliati.

Dal lato dei lavoratori, nel 2018 gli utenti attivi di LinkedIn nei paesi Ocse aggiungevano in media 1,5 nuove competenze e ne segnalavano 10. Nel 2024, aggiungevano 3 competenze e ne riportavano 14 nel proprio profilo. In Italia i valori sono simili, ma la segnalazione di competenze trasversali e “dirompenti”, legate cioè all’adozione di tecnologie emergenti, è cresciuta meno.

Ciò è preoccupante: le competenze trasversali e dirompenti sono cruciali in mercati in rapida evoluzione e nei settori ad alta innovazione e la loro carenza incide negativamente su produttività, capacità innovativa e competitività. Il rapporto mostra inoltre che chi aggiorna il proprio profilo con nuove competenze sperimenta periodi di disoccupazione più brevi, soprattutto tra chi non indica titoli di studio formali. Si tratta del gruppo più vulnerabile nel mercato del lavoro italiano: tra i 25–34enni senza diploma, il tasso di disoccupazione è del 14,8 per cento, contro l’8,9 per cento dei diplomati e il 6,5 per cento dei laureati.  

Contenuti troppo legati agli obblighi normativi

L’uso di pratiche skills-first in Italia rimane basso, nonostante i potenziali benefici in un contesto di scarsa frequenza di percorsi post-secondari e di crescente partecipazione alla formazione non formale. La certificazione di tale formazione è particolarmente diffusa e può rappresentare un valore aggiunto se allineata ai bisogni del mercato in contesti skills-first.

Secondo lo studio Ocse Piaac 2023, in Italia i contenuti della formazione non formale legata al lavoro sono ancora centrati su obblighi normativi più che sullo sviluppo di competenze digitali e “dirompenti”. Corsi di sicurezza e primo soccorso rappresentano un quarto della formazione non formale legata al lavoro contro una media Ocse dell’8 per cento. Restano corsi necessari, ma vanno affiancati da investimenti mirati all’aggiornamento di competenze digitali, tecniche e trasversali. In Italia la partecipazione alla formazione digitale è tra le più basse. Siamo inoltre uno tra i paesi con la quota più alta di dipendenti che dichiarano di “non imparare mai facendo” (22 per cento) e nell’ultimo decennio si è registrato un calo dell’apprendimento informale sul lavoro. Ciò suggerisce che la progettazione del lavoro e le pratiche aziendali non favoriscono cicli quotidiani di apprendimento, limitando la diffusione di nuovi processi e tecnologie.

Sebbene i governi abbiano un ruolo chiave, la diffusione delle pratiche skills-first richiede sforzi coordinati di imprese, enti di formazione, parti sociali e società civile. Le priorità politiche includono: standardizzare i sistemi di validazione delle competenze per migliorarne la fiducia e la comparabilità; investire nella formazione digitale e nell’apprendimento permanente; rafforzare l’intelligence sul mercato del lavoro; e dare l’esempio nelle assunzioni del settore pubblico.

In teoria, nulla impedisce alle imprese di adottare approcci skills-first già oggi, ma spesso mancano consapevolezza e strumenti pratici per farlo. Molte aziende non dispongono di un linguaggio condiviso per definire le competenze di cui hanno bisogno o non percepiscono l’urgenza di cambiare, anche perché la pressione sul mercato del lavoro è inferiore rispetto ad altri paesi. Diventa quindi essenziale promuovere campagne di sensibilizzazione, sostenere le imprese nell’identificazione e nella mappatura delle competenze e fornire strumenti operativi per integrare approcci skills-first nei processi di selezione e sviluppo del personale.

Per l’Italia, promuovere una più diffusa adozione di pratiche skills-first potrebbe permettere di far breccia in barriere strutturali quali la limitata offerta di formazione digitale e le deboli pratiche di apprendimento sul lavoro. Dando maggiore visibilità e riconoscimento alle competenze sviluppate nella formazione non formale legata al lavoro, che è ancora fortemente concentrata sulla conformità alle normative, le pratiche skills-first potrebbero contribuire a rendere più efficaci gli investimenti realizzati. Tali pratiche possono inoltre ampliare l’accesso a lavori di qualità per chi non possiede titoli di studio, ma ha competenze che hanno valore nel mercato del lavoro, aiutando le imprese ad attingere a un bacino di talenti più ampio e rafforzando la competitività dell’Italia in un’economia sempre più plasmata da digitalizzazione, decarbonizzazione e cambiamento demografico.

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  1. Massimiliano

    Confermo in pieno la valutazione dell’uso in Italia dell’approccio skills-first per averlo vissuto sulla mia pelle.
    Pur essendo un diplomato svolgo da oltre vent’anni un’attività di pianificazione in una multinazionale. Addestro ingegneri gestionali quando vengono assunti per introdurli ai nostri sistemi e metodologie. Gestisco la pianificazione di una selezione prodotti che fatturano cifre più alte del fatturato totale di piccole-medie imprese lombarde. Collaboro con colleghi sparpagliati in tre continenti.
    Per tre anni cercai una nuova posizione per migliorare la qualità di vita extralavorativa. Nei primi due anni non ebbi riscontri dalle società di selezione del personale, nonostante facessi riferimento a posizioni di pianificazione aperte. Trovai casualmente l’agenzia di riferimento per un annuncio e chiamai per avere informazioni. La prima risposta fu che a loro non risultava nessuna mia candidatura. Ad un secondo controllo, la trovarono in quelle rifiutate dal sistema. Rigettata perché la mia zona di residenza nel CV non rientra in un determinato raggio chilometrico dalla posizione aperta.
    Modificai il CV impostando la residenza con un indirizzo nella zona in cui cercai, potendo sfruttare un’abitazione già disponibile, ed ebbi qualche chiamata.

  2. Alexx

    Come già si evince dal bell’articolo, l’approccio skills-first in Italia appare molto complesso e difficile da applicare, salvo casi di mansioni di alto livello in aziende ad alto contenuto tecnologico-digitale e con personale già in grado di fungere da riferimento per insegnare il suddetto approccio.
    Già mappare e riconoscere certe tipologie di competenza non è certamente facile, se non si è in possesso dell’adeguata “attrezzatura” culturale che, oggigiorno, scarseggia non poco nel nostro tessuto economico. L’Italia in questo settore deve fare passi da gigante per migliorare la sua competitività.

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