Tra Usa e Cina non è in atto una disputa commerciale, ma una rivalità totale. I dazi potrebbero essere un mezzo di pressione per arrivare alla riforma delle regole del commercio che l’Omc non è stato capace di fare. Ma l’Occidente deve cambiare attitudine.

Dalla cooperazione alla competizione

La guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese (Rpc), esplosa formalmente nel 2018 con l’introduzione di dazi doganali da parte della prima amministrazione Trump, è spesso interpretata come una disputa economica legata agli squilibri commerciali e alla concorrenza industriale. Invece, non è che la manifestazione visibile di una rivalità sistemica che coinvolge la dimensione economica, tecnologica, politica e ideologica. Ne è il sintomo, non la causa.

Quando, dopo la fine della guerra fredda, la Repubblica popolare cinese intraprese un percorso di integrazione graduale nel sistema economico internazionale, accelerato dall’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, gli Stati Uniti, la potenza egemone rimasta imbattuta dopo il 1989, sostennero il processo nella convinzione che la liberalizzazione economica avrebbe progressivamente portato anche a una liberalizzazione politica. L’ipotesi, tutta occidentale e ispirata da Washington — “engagement strategy” — si fondava sull’idea che la crescita economica avrebbe portato Pechino a una serie di riforme politico-istituzionali all’interno del paese e che l’interdipendenza economica avrebbe attenuato le tensioni geopolitiche.

Solo a partire dal 2010, l’Occidente si è accorto che Pechino manteneva una propria immutata concezione di sé (come il paese centrale del mondo civilizzato) e cementava la propria influenza nei paesi del Sud del mondo, attraverso iniziative come la Belt and Road Initiative e investendo massicciamente in settori strategici (telecomunicazioni, intelligenza artificiale, semiconduttori, energia verde). Già in quegli stessi anni iniziava a dichiarare l’intenzione di emanciparsi dalla dipendenza tecnologica dall’Occidente, accelerando politiche di “autosufficienza strategica” come il piano “made in China 2025”.

Il ruolo di “fabbrica del mondo” che le era stato assegnato dalla narrativa occidentale era solo funzionale a intraprendere la via dello sviluppo economico, da parte di un paese allora con un enorme dotazione di manodopera generica, molto poco produttiva e poco costosa (e con pochi vantaggi comparati). Che la “fabbrica del mondo” sarebbe diventata una potenza industriale era già scritto tra le righe dei trattati di adesione all’Omc, dal momento che la Repubblica popolare cinese è membro “developing” e pertanto non deve ottemperare alle regole di non ingerenza dello Stato nell’economia e può aiutare le proprie imprese a operare a condizioni economiche estremamente favorevoli. Insieme a questo enorme spazio di policy, in politica e in economia, si è aggiunto l’imponente trasferimento tecnologico occidentale a favore della Cina attraverso la cooperazione allo sviluppo e le collaborazioni industriali, che ha contribuito in misura determinante alla crescita di Pechino come potenza economica, attraverso la trasformazione di quei pochi vantaggi comparati in una devastante competitività surrettizia di prezzo in un numero elevatissimo di settori.

La guerra commerciale come strumento e simbolo

In questo contesto, la guerra commerciale di Donald Trump non deve essere vista come un’aberrazione, ma una risposta ai principali problemi strutturali del sistema commerciale globale. Sebbene il consenso accademico mostri che i dazi danneggino tutti i partecipanti (Stati Uniti per primi), non sono un fine, ma il mezzo per ottenere in modo subottimale una deviazione del sistema internazionale degli scambi, dal momento che l’impianto dell’organismo preposto alla sua regolamentazione, l’Omc, non è in grado di riformarsi.

Ufficialmente motivata dal deficit commerciale statunitense e dalle pratiche sleali di Pechino (sussidi statali, furto di proprietà intellettuale, restrizioni all’accesso dei mercati), la guerra commerciale non è uno shock esogeno a un sistema che funzionava, ma la risposta endogena a un deficit istituzionale nell’Omc, è un atto politico volto a colmare quelle mancanze.

La vera causa dello scontro non risiede nei dazi o nei deficit commerciali, ma nel conflitto tra due modelli di sviluppo e di governance globale. Washington si presenta come garante dell’ordine liberale internazionale, fondato su mercato aperto, democrazia e diritti individuali; Pechino, invece, promuove un modello di sviluppo autoritario e statalista, che pone l’efficienza e la stabilità politica al di sopra del pluralismo. La contrapposizione tra i due sistemi — capitalismo liberale contro capitalismo di stato — produce una asimmetria normativa che si riflette anche nella governance globale: dalle regole del commercio internazionale alla definizione degli standard tecnologici (5G, AI, cybersicurezza). Sul piano istituzionale, la competizione si traduce in una parziale decostruzione dell’ordine liberale: la Cina propone istituzioni alternative (come la Asian Infrastructure Investment Bank e il New Development Bank dei Bric), mentre gli Stati Uniti cercano di riformare o riaffermare la propria leadership nelle istituzioni esistenti.

La dimensione “sistemica” spiega perché la guerra commerciale non sia una direzione politica in senso protezionistico intrapresa dalle sole amministrazioni Usa a guida repubblicana. L’approccio del presidente (democratico) Joe Biden, pur più multilaterale e meno retorico di quello di Trump, ha mantenuto la strategia protezionista centrata sui dazi doganali imposti alle importazioni dalla Cina, rafforzando le alleanze con partner asiatici ed europei attraverso iniziative come l’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef) e il Chips and Science Act.

Serve un cambio di strategia

In questa prospettiva, la guerra commerciale è sintomo, non malattia. Segnala il passaggio dall’illusione del consenso globalista a un’aperta competizione strategica permanente, in cui economia, tecnologia e politica si fondono in un’unica logica di potere. Se i dazi saranno il mezzo per arrivare alla riforma da tempo necessaria dell’Omc, unico contesto multilaterale che possa ambire a favorire un dialogo costruttivo e duraturo, allora avranno avuto un loro ruolo nella storia. Per il momento, però, aumentano solo la conflittualità intrinseca tra sistemi agli antipodi, e sollecitano il ricorso a ritorsioni e minacce reciproche: i dazi e le restrizioni Usa all’export di tecnologie sensibili di produzione occidentale (in particolare nel settore dei semiconduttori, del 5G e dell’intelligenza artificiale, che la Cina utilizza poi a fini strategici e militari), a cui Pechino risponde con la minaccia di ridurre o interrompere le esportazioni delle indispensabili terre rare, di cui ha una grande dotazione naturale (il 59 per cento del totale mondiale).

Tutto l’Occidente potrebbe cambiare il gioco passando da un atteggiamento tattico passivo (come difendersi dai dazi e come contrattare eccezioni – poco utile, dal momento che l’impatto dei dazi sull’import statunitense è molto ridotto) a una prospettiva strategica, sfruttando un ampio spazio di cooperazione con gli Stati Uniti per chiarire il loro obiettivo finale. I dazi doganali dovrebbero essere considerati come un mezzo di pressione, non come una politica. L’obiettivo dovrebbe essere quello di indurre riforme nelle economie dei partner e fare pressione sull’Omc affinché si modernizzi, non quello di perseguire l’autarchia. Come ha osservato l’economista Paul Krugman, il protezionismo può essere una risposta di ripiego alle distorsioni, ma rimane comunque una soluzione di ripiego.

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