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Solo buone intenzioni per le partite Iva

Il governo Monti ha modificato in profondità il quadro regolativo entro cui opera il lavoro autonomo. Manca però una riflessione generale sulle condizioni reali di questi lavoratori. Il rischio è che gli effetti positivi desiderati siano così vanificati e divenga difficile includere le partite Iva in un nuovo contratto sociale. Perché aumenterà la loro estraneità nei confronti di uno Stato che chiede sempre di più, li espone a maggiore competizione e incertezza, in cambio della vaga promessa di una pensione. A cui gran parte di loro non aspira.

Il governo Monti sta modificando in profondità il quadro regolativo entro cui opera il lavoro autonomo. Ciò avviene tuttavia senza una riflessione più generale sulle condizioni reali in cui operano i lavoratori autonomi. Il rischio è che parte degli effetti positivi desiderati siano così vanificati e che emergano conseguenze negative inattese.

I TRE OBIETTIVI DEL GOVERNO

Gli obiettivi che hanno guidato l’azione del Governo nei confronti delle partite Iva sono principalmente tre:

a) aumentare la concorrenza nei settori economici dominati dal lavoro autonomo attraverso liberalizzazioni e l’eliminazione delle rendite di posizione;
b) ridurre lo spazio delle “false partite Iva” e della precarietà occupazionale;
c) offrire, in cambio, una pensione sicura sulla base di un aumento del carico contributivo.

La strategia complessiva è quella tipica di un governo liberale, che vuole introdurre una logica fortemente competitiva in settori dove per decenni hanno trionfato i protezionismi categoriali, semplificare il mercato dei contratti d’opera e al tempo stesso reinserire i lavoratori autonomi in un nuovo patto di cittadinanza, simile a quello che per decenni ha riguardato il lavoro dipendente. Riuscirà questo intento ambizioso? Si hanno forti ragioni per dubitarne. La realtà del lavoro autonomo, come si è già argomentato in un intervento precedente, appare non solo lontana da quella immaginata dal Governo, ma anche profondamente diversa da quella dellavoro dipendente. Ricondurla a quest’ultimo può essere non solo illusorio, ma anche pericoloso. Vediamo perché.

LIBERALIZZAZIONI A PICCOLO TROTTO

Che il nostro paese abbia bisogno di una massiccia introduzione di liberalizzazioni per recuperare efficienza non è certo una scoperta. Su questo versante il Governo attuale non ha fatto altro che continuare, al piccolo trotto, la galoppata già cominciata dalla fine degli anni Novanta, per merito soprattutto delle cosiddette “lenzuolate” di Bersani. Nel settore del commercio, Mario Monti ha introdotto la de-regolazione totale degli orari e ha liberalizzato la vendita di alcuni prodotti farmaceutici. Sui professionistiha confermato l’abolizione delle tariffe minime, ha introdotto l’obbligo di preventivazione dei compensi, ha tolto vincoli alle forme di pubblicità e alla forma societaria.
Molti nodi cruciali sono tuttavia ancora sul tavolo: essi riguardano la riforma della governance degli ordini professionali (un riordino degli ordini professionali è stato introdotto nell’agosto scorso, ma con un impatto molto limitato) e il riconoscimento, secondo un modello accreditatorio, delle associazioni di rappresentanza delle professioni escluse dal regime ordinistico e in forte crescita negli ultimi dieci anni (una legge è stata approvata alla Camera ma non ancora al Senato). Senza questi passaggi la spinta liberalizzatrice rischia di rallentare, confermando un dualismo tra professioni riconosciute e non riconosciute che non ha più alcun motivo serio per esistere.

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GLI EFFETTI DI DUE RIFORME

I problemi maggiori derivano dagli effetti combinati della riforma delle pensioni e della recente riforma del lavoro. Il primo obiettivo del Governo è stato quello di ridurre la fascia di lavoratori formalmente autonomi, ma collocati in una posizione di effettiva subordinazione, riducendo la convenienza delle imprese a fare contratti a prestazione oppure a progetto invece che assunzioni. In questa posizione intermedia si trovano i circa 400mila lavoratori parasubordinati, che operano sulla base di contratti a progetto oppure di contratti occasionali, e le diverse centinaia di migliaia di lavoratori autonomi che, pur operando sulla base di contratti di prestazione, sono soggetti a una subordinazione di fatto.
L’identificazione delle cosiddette “false partite Iva” è affidata a tre criteri: la mono-committenza (80 per cento del reddito annuo derivante da un unico contratto di prestazione), la dipendenza organizzativa (vincoli di luogo nella prestazione), la natura non temporanea della prestazione (contratti più lunghi di otto mesi). Per quanto riguarda i lavoratori parasubordinati, sono stati introdotti vincoli normativi (l’obbligo di determinazione del progetto, senza il quale scatta l’assunzione a tempo determinato) e disincentivi economici alle imprese (la contribuzione alla gestione separata viene aumentato dal 27 al 33 per cento e il contributo da pagare per finanziare l’Aspi è più elevato che nel caso delle assunzioni), con lo scopo di ridurre la convenienza economica di questi contratti.
Nel loro complesso queste misure appaiono tuttavia molto deboli e difficilmente potranno ottenere gli esiti sperati. Il mercato delle prestazioni professionali in Italia ha già pronti diversi escamotage per neutralizzare gli effetti indesiderati. I vincoli alle “false partite Iva” verranno spesso aggirati (attraverso contratti più brevi di otto mesi, priorità ai non mono-committenti con reddito superiore a 18mila euro a danno dei più giovani, oppure l’annullamento formale dei vincoli di luogo), così come l’aumento delle contribuzioni previste per i parasubordinati verrà gravato tutto sui lavoratori, peggiorandone le condizioni retributive e lavorative. La spinta al sommerso, in assenza di misure serie di controllo fiscale, sarà inevitabile. Si rischia infine di far proliferare una regolazione molto minuta, difficile da verificare, che finirà per sospingere i lavoratori più deboli verso la massima flessibilità o il sommerso. Nel nostro paese l’insistenza su normative molto specifiche finalizzate a evitare abusi o a definire profili molto specifici rischia sempre di determinare effetti opposti: una vecchia regola che il Governo attuale sembra aver dimenticato.
Tutto ciò avverrà in un contesto in cui continueranno a mancare protezioni sociali a favore dei lavoratori autonomi che rischiano la disoccupazione: l’Aspi, ma anche la mini-Aspi, non includono né i lavoratori autonomi, né i lavoratori parasubordinati, nonostante che i contratti di prestazione di questi ultimi siano gravati da un maggiore onere contributivo. Lavoratori subordinati a progetto e partite Iva avranno accesso a una indennità una tantum, di valore irrisorio, solo se mono-committenti e con un reddito annuale molto basso. Un trattamento inferiore a quello previsto dall’assicurazione per la disoccupazione in Spagna (un paese che, come il nostro, ha un elevato numero di partite Iva), a cui hanno accesso su base volontaria, dal 2010, anche i lavoratori autonomi.

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LE PARTITE IVA E LA PENSIONE

Perché i lavoratori autonomi dovrebbero trovare conveniente questa situazione? La risposta del ministro Fornero è stata lapidaria: perché in cambio i lavoratori autonomi avranno una pensione certa. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Molte partite Iva, tanto più nel nuovo regime lavoristico, hanno oggi redditi dichiarati troppo bassiper poter aspirare a una pensione degna di tale nome. Inoltre, l’incremento della contribuzione al 33 per cento, che nelle parole del ministro è la soglia necessaria per assicurare una pensione onorevole, riguarda solo i lavoratori iscritti alla gestione separata, non i professionisti iscritti agli ordini o i commercianti, per i quali le aliquote oscillano ancora tra il 10 e il 14 per cento. Una valutazione di sostenibilità economica delle casse professionali richiesta dal Ministro Fornero si sta concludendo, con l’esito probabile che solo poche casse passeranno dal sistema retributivo a quello contributivo, con un aumento dei premi contributivi peraltro molto ridotto. Se questi trend verranno confermati, perdureranno nel sistema condizioni di iniquità per professionisti che spesso operano sugli stessi mercati.
Senza una revisione profonda della gestione separata dell’Inps che consenta di distinguere il lavoro parasubordinato da quello professionale; senza una decisa equiparazione delle condizioni previdenziali dei professionisti con ordine, dei commercianti/artigiani e dei professionisti senza albo; senza un allargamento, almeno su base volontaria, degli ammortizzatori sociali al lavoro autonomo; e senza un forte rilancio della lotta all’evasione fiscale, sarà difficile includere le partite Iva in un nuovo contratto sociale. L’effetto delle misure del Governo rischia anzi di aumentare la protesta e la loro estraneità nei confronti dello Stato. Che chiede sempre di più, li espone a maggiore competizione e incertezza, in cambio della promessa, vaga e salata da pagare, di una pensione a cui gran parte dei lavoratori autonomi non aspira.

 

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Tanti decreti sviluppo. Ma poco sviluppo

  1. Gilberto

    Un po’ tardivamente ho leto l’articolo e sono d’accordo con il contenuto. Sono un traduttore tecnico dal 1999 legato (sarebbe più corretto dire “ammanettato”) alla gestione separata INPS, un esempio chiaro della iniquità assurda e della ignoranza di quelli che dovrebbero stimolare lo sviluppo del ex-paese chiamato Italia. La soluzione? Portare via il fatturato nella forma dell’emigrazione oppure smettere di lavorare e fare il manovale…

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