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Tra salari, conflitti e progetti

Il nostro Presidente del Consiglio sostiene in TV che nell’ultimo anno gli stipendi sono cresciuti più dell’inflazione. A noi non risulta. Riproponiamo per i nostri lettori un’analisi di Tito Boeri e Pietro Garibaldi sulla dinamica dei salari nell’ultimo decennio.

Le buone notizie per l’economia italiana sembrano esser venute negli ultimi anni solo dal mercato del lavoro. La disoccupazione è diminuita dal 1998 e l’occupazione è aumentata in modo stabile negli ultimi anni. Sul sito www.lavoce.info non abbiamo mancato di analizzare in dettaglio i potenziali motivi di questa crescita dei posti di lavoro, straordinaria perché avvenuta in condizioni di bassa (o addirittura negativa) crescita economica.
A ben guardare, non è tutto oro ciò che luccica e sarebbe sbagliato ignorare i crescenti segnali di malessere e incertezza che emergono nel nostro mercato del lavoro. Tre di questi, in particolare, sono degni di nota.
Primo, l’andamento dei salari reali non è stato tale da fugare la percezione da parte di molti lavoratori di un declino nel potere d’acquisto delle loro retribuzioni. Questo ha contribuito ad aumentare la conflittualità, ecco il secondo segnale preoccupante, con un’impennata delle ore di sciopero (anche al di là della vicenda articolo 18) negli ultimi due anni. Terzo segnale, molti dei nuovi posti creati sono a bassa produttività e vivono grazie a forti sconti sul prelievo contributivo. I passi indietro compiuti dal Governo nelle ultime settimane nella riforma delle collaborazioni coordinate e continuative (vedi Tursi e Del Punta) sembrano proprio riflettere la preoccupazione che un irrigidimento della normativa e del prelievo contributivo su di una fascia consistente del lavoro subordinato possa portare alla distruzione di molti posti di lavoro.

Ma procediamo per gradi, ponendoci due domande importanti per capire come è meglio anticipare i problemi e fronteggiare questi crescenti segnali di malessere: regge ancora il modello di contrattazione introdotto nel nostro paese con l’accordo del luglio del 1993? E cosa accadrebbe ai salari e all’occupazione decentrando maggiormente la contrattazione salariale?

La questione salariale

I salari nel settore privato dal 1993 al 2003 (fino al terzo trimestre) sono praticamente rimasti invariati in termini reali (+0,3 per cento all’anno, come ci spiega PC).  I dati INPS, disponibili per il periodo 1996-2003, addirittura puntano ad una crescita dei salari inferiore a quella dell’inflazione.
Da quando l’euro circola nelle nostre tasche, inoltre, i lavoratori percepiscono un’inflazione superiore a quella misurata dall’Istat (vedi Guiso). Questo spiega perché siano in molti a ritenere di avere subito una perdita del potere d’acquisto della propria retribuzione. In ogni caso, i dati di cui sopra si riferiscono ai salari medi. Sono perfettamente compatibili col fatto che una quota consistente dei salariati abbia subito perdite del potere d’acquisto effettivo (non solo percepito) delle loro retribuzioni, mentre una quota parimente consistente ha visto un aumento del potere d’acquisto effettivo del proprio salario. In effetti i differenziali salariali sono aumentati, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno qualificati, quelli maggiormente rappresentati dal sindacato.
I salari sono, in ogni caso, cresciuti meno del prodotto per lavoratore, il che significa che la quota del reddito lordo destinata ai lavoratori dipendenti sotto forma di salario si è ridotta. Per l’esattezza di circa il 10 per cento.

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La conflittualità e il modello contrattuale

Sono dunque tempi difficili per chi deve guidare un sindacato.
Soprattutto se bisogna anche fare accettare alla base tagli alle prestazioni sociali, imposte dall’invecchiamento della popolazione, oppure quella maggiore mobilità fra imprese dei lavoratori che viene richiesta dalla crescente concorrenza e turbolenza oggi presente sul mercato dei beni. Quando un’organizzazione sindacale manifesta qualche apertura su questi terreni, è molto facile per un’altra strappare consensi tra la base del rivale mantenendo una posizione di fermezza. Lo dimostrano l’isolamento di Cisl e Uil nella battaglia sull’articolo 18 e quello della Cfdt in Francia nello scontro sulla riforma delle pensioni.
Tuttavia un sindacato che si opponesse alla riforma della previdenza, condannando i lavoratori più giovani a pagare due volte la bolletta pensionistica (prima con le riforme degli anni Novanta , poi con l’aumento di tasse e contributi che sarà inevitabile se non si fa nulla), si condannerebbe all’estinzione, vivrebbe la sindrome del “gorilla di montagna” (vedi Gennari), specie in via di estinzione. Insomma un bel dilemma.
Il sindacato ha un ruolo positivo in quanto voce collettiva dei lavoratori, agente capace di gestire il conflitto redistributivo senza costi eccessivi per la collettività. Per questo fa bene oggi a porre la questione salariale e a interrogarsi sull’opportunità di modificare gli assetti contrattuali definiti nel 1993, all’inizio della politica dei redditi. Dobbiamo molto alla politica dei redditi. Ci ha portato nell’euro e ha contribuito, con la moderazione salariale di questi anni, alla crescita dei posti di lavoro.
Ma se oggi il sindacato vuole recuperare una quota del valore aggiunto concesso in questi anni ai datori di lavoro, e lo vuole fare soprattutto nei settori esposti alla concorrenza (non condannandosi a vivere solo nei settori protetti), deve per forza di cose prevedere un maggiore decentramento della contrattazione salariale. Altrimenti, rischierà di scontentare tutti: i lavoratori delle imprese a più bassa produttività, il cui posto di lavoro viene messo in forse da salari contrattuali troppo alti e i lavoratori delle imprese ad alto valore aggiunto, che si sentiranno pagati al di sotto del loro potenziale produttivo. Un decentramento della contrattazione è importante anche per introdurre gradualmente, e su base volontaria, quegli schemi incentivanti che possono portare ad aumentare al contempo salari e produttività, il modo migliore per sostenere in modo duraturo una crescita dei salari reali. Nel lungo periodo infatti i salari possono crescere solo se c’è crescita dell’economia.

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Ma cos’è il progetto?

Il terzo fattore di incertezza è legato alla natura del cosiddetto contratto a progetto, destinato a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. La legge Biagi sostiene che dal settembre 2004 ogni contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) non trasformato in relativo contratto a progetto sarà automaticamente trasformato in rapporto di lavoro subordinato.
Questa minaccia ha generato ansie diffuse, sia tra i lavoratori coinvolti e spaventati dalla prospettiva di perdere il lavoro, sia tra i gestori di risorse umane, incerti sulle strade da intraprendere.
L’ultima circolare ministeriale (vedi Del Punta e Tursi), in verità, sembra aver praticamente lasciato tutto come prima, offrendo un’accezione molto generica di lavoro a progetto, che lascia spazio all’arbitrio dei giudici.

Per esempio, potrà essere considerato a progetto chi segue i rapporti con un dato cliente in uno studio professionale o chi è assistente di ricerca sui temi più disparati, solo per prendere esempi di lavori “nobili” nel parasubordinato.
Perché questa marcia indietro? Forse perché si temeva di distruggere molti posti di lavoro e così anche perdere una quota consistente di entrate per le casse dell’Inps.
Ma a parte l’incertezza causata prima dall’attesa della nuova normativa, poi dall’ulteriore potere d’arbitrio assegnato ai giudici nel nostro mercato del lavoro, c’è il forte rischio che questa normativa cristallizzi l’anomalia del parasubordinato, un mondo di minori tutele e, in prospettiva, pensioni da fame.

Questa non-riforma sembra solo certificare che non si può risolvere il problema del dualismo del nostro mercato del lavoro solo con l’ingegneria contrattuale e la creatività semantica.
Mentre l’Italia si interroga su cosa è un progetto, è bene che i nostri politici riflettano sulle ragioni per cui i co.co.co. hanno avuto così fortuna, invece di esorcizzarli con un colpo di penna.

 

 

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Un mercato per le licenze

  1. Francesco Parini

    Il segretario Epifani ha risposto no ad alcune proposte di Rutelli, dicendo un no secco alle gabbie territoriali.
    Il sindacato sta perdendo di nuovo l’autobus per affrontare in modo decente la decadenza dell’Italia industriale e contrastare la incapacità,anche politica, di assecondare questa tendenza.
    Abbiamo distrutto l’informatica, lachimica, l’aeronautica, l’elettronica di consumo, l’industria ferroviaria, ecc. vogliamo proprio farci colonizzare.
    Le indennità territoriali e le detrazioni fiscali sono le uniche risorse che abbiamo per difendere i posti di lavoro e ridurre indirettamente il costo del lavoro.
    Possiamo sì aumentare la produttività, ma i margini sono scarsissimi per i beni a basso contenuto tecnologico,ci sono già i paesi asiatici. Possiamo dedicarci a prodotti ad alto contenuto tecnologico, ma un’industria di questo tipo non si improvvisa e la concorrenza è elevata.
    Possiamo trasferire le produzioni di base all’estero e completare la parte più tecnologica da noi, già fatto, ma non sempre il gioco vale la candela. Allora dr.Epifani veda un pò lontano,cerchi di essere innovativo e soprattutto propositivo e anticipatore dei tempi.
    I lavoratori Le saranno grati.

    Francesco Parini

  2. pixim

    Concordo con alcune riflessioni di questo articolo.
    La questione salariale, in Italia, è grande come una casa…e le pensioni che noi “riformati” andremo a prendere ci garantiranno ancora meno dall’incremento dei prezzi e ci porranno seri problemi di sopravvivenza. Non riesco a capire dove sia il mio bene, in tutto questo. Nè riesco a capire cosa abbiano da perdere i giovani disoccupati o sotto occupati di oggi da un incremento mirato delle tasse (mirato ai più abbienti) se questo significa maggiore equità nella distribuzione della ricchezza prodotta. Insomma, è difficile da credere che un paese come il nostro, dove si produce più ricchezza rispetto a 20 anni fa, i lavoratori dipendenti, gli operai, debbano fare salti di gioia davanti alla prospettiva di pensioni più basse. E’ tutto da dimostrare, poi, che una “non riforma” affossi tutto il sistema e tolga anche quel po’ di pensione che ci rimane.

    • La redazione

      Le tasse distruggono posti di lavoro (l’incremento di posti negli ultimi anni è avvenuto proprio su posto con prelievi contributivi più bassi) e sono destinate ad aumentare comunque se non si riformano le pensioni. Mentre le pensioni saranno, comunque più basse per i più giovani. Quindi meglio almeno dare loro la possibilità di investire in previdenza integrativa, per incrementare la loro pensione, anzichè tassare ulteriormente i loro redditi. Bisogna sempre pensare che le pensioni vengono pagate dagli attuali lavoratori, non dalle aziende.
      Cordiali saluti

  3. Riccardo Bellocchio

    La questione salariale
    E’ assolutamente vero che la crescita dei salari deve avvenire di pari passo con la crescita del prodotto interno, cioè della capacità di di creare ricchezza.
    Ma per poter pienamente realizzare tale sistema occorre anche rivedere il sistema retributivo italiano rendendolo più flessibile.
    Perchè ho l’impressione che quando si parla di salario si discuta esclusivamente della parte fissa della retribuzione che, anche quando la realtà produttiva cambia, rimane sempre intoccabile. Cioè nel sistema attuale aumentare il salario fisso vuol dire cristallizzare un costo aggiuntivo per tutta la vita del rapporto di lavoro senza possibilità, se non con la perdita del lavoratore, di ritoccare tale livello.
    Se il sistema è in movimento allora tutto deve esserlo. E’ stata misurata però qual’è la quota variabile di retribuzione erogata a fronte della produttività generale data dal 1993 al 2003?.
    Allora un decentramento della contrattazione aziendale non è sufficiente a garantire un aumento dei salari, ma occorre anche che il lavoratore sia cosciente che il livello salariale raggiunto può essere rivisto e ritoccato nelle due direzioni (in più e in meno).
    Poi vorrei lanciare una provocazione. Per quale ragione deve essere la singola azienda, per il semplice fatto che abbia lavoratori, a coprire sempre e comunque il differenziale dei prezzi. Se il rapporto di lavoro è costituito dalla collaborazione di due relatà, lavoratore e datore di lavoro, il lavoratore dà in cambio solo le sue energie lavorative o qualcosa in più ? Oppure il salario è una variabile indipendente ?. Ho l’impressione che dobbiamo tutti interrogarci anche sulla stessa concezione del rapporto di lavoro e non solo sforzarci di trovare soluzioni a bocce ferme.

    Riccardo Bellocchio

    • La redazione

      In effetti il mancato decollo della contrattazione decentrata — del cosiddetto secondo livello previsto dall’accordo del 1993 — si spiega col fatto che questa può solo aggiungere ai minimi stabiliti a livello nazionale. Decentrando la contrattazione si può, peraltro, permettere ai dipendenti di scegliere fra retribuzione (almeno in parte) legata alla produttività e retribuzione fissa.

      Cordiali saluti

      Tito Boeri e Pietro Garibaldi

  4. Riccardo Mariani

    Mi ha convinto l’ idea espressa nell’ articolo circa gli effetti benefici connessi al decentramento della contrattazione. A sostegno aggiungo due punti:

    1) il decentramento consente di trattare diversamente situazioni diverse ma anche di sperimentare soluzioni diverse per casi simili. In mancanza di una concorrenza tra sigle sindacali sarebbero possibili forme di concorrenza territoriale;
    2) il decentramento ostacola lo scambio politico. Il Governo centrale si è spesso trasformato da mediatore in interlocutore. Una leggina (ieri sull’ esazione delle quota, oggi sui caf, domani sui fondi chiusi) a volte vale più di mille clausole contrattuali. Quando c’ è tanta carne al fuoco non si può esludere che a farne le spese sia anche un sano legame tra salari reali e produttività. Se l’ arbitro non offre certe tentazioni ci si concentrerà sui contratti;

    Il punto due può essere apprezzato se si ridimensiona il giudizio positivo per la politica dei redditi. L’ inconveniente a cui si pone, in parte, rimedio è una conseguenza di quest’ ultima. Considero la politica dei redditi e il suo pragmatismo un rimedio estremo per un male estremo.

    Per quanto riguarda la collaborazione coordinata e continuativa nulla di nuovo sotto il sole. La scelta di tipicizzare ogni relazione lavorativa sprigiona i suoi fastidiosi effetti collaterali. Il significato di “progetto” non è meno vago di quello di “autonomia coordinata” e di molti altri. Questa vaghezza è necessaria in modo che le politiche del lavoro (così come quelle fiscali) possano essere fatta tramite circolare ministeriale anzichè dai più impegnativi scranni parlamentari. La vaghezza di oggi darà vita, domani, ad una schiera di “professori” sintonizzati sull’ esigenza di cassa dell’ INPS.

    Dopo il crollo delle ideologie si è assistito ad una esaltazione del pragmatismo (a volte scambiato per indipendenza). Tra pragmatismo, arbitrio e governo “a vista” i confini sono labili.

    Cordiali saluti.

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