Pur tra innegabili contraddizioni, il disegno di legge sulla tutela del risparmio ha il merito di introdurre alcune importanti novità nella corporate governance delle società quotate. La più coraggiosa è l’introduzione della figura dell’amministratore di minoranza. Una scelta che ha subito risvegliato l’antico timore sui pericoli di una degenerazione dei conflitti societari che potrebbe derivare da un eccessivo spazio riconosciuto alle minoranze. Al contrario, potrebbe invece incoraggiare gli investitori istituzionali a organizzarsi e essere presenti nei consigli.

Il disegno di legge sulla tutela del risparmio in discussione al Senato presenta innegabili lacune e pericolose contraddizioni: non affronta lo spinoso problema del riassetto delle competenze di vigilanza, rinuncia a un serio irrobustimento delle sanzioni penali, prevede vincoli in materia di conflitti di interessi e rapporti banca-industria eccessivamente rigidi e anche di scarsa utilità. Ha, però, anche il merito di introdurre alcune innovazioni nella corporate governance delle società quotate, terreno sul quale, bisogna ribadirlo perché si tende spesso a dimenticarlo, hanno trovato origine le vere cause scatenanti dei recenti dissesti.

L’amministratore di minoranza

La più coraggiosa, ma anche la più controversa, di queste scelte riguarda l’introduzione della figura dell’amministratore di minoranza. È eletto mediante il voto su liste per la presentazione delle quali si può richiedere una partecipazione non superiore a una determinata percentuale (il 2,5 per cento del capitale).
L’obiettivo è, in sostanza, il rafforzamento della presenza di soggetti in grado di esercitare una attenta azione di monitoraggio sulle gestioni societarie. Azione che, se non rappresenta certo una assoluta garanzia per evitare il ripetersi di comportamenti delittuosi, può quantomeno contribuire a introdurre antidoti più efficaci contro i fenomeni patologici. Molti, però, dubitano delle qualità curative di questa soluzione. Anzi, si è levato un vero e proprio fuoco di sbarramento contro l’obbligo dell’amministratore di minoranza, che avrebbe effetti esattamente contrari a quelli desiderati, di grave pregiudizio al funzionamento di un buongoverno societario.
Si tratterebbe di una presenza pericolosa ai fini della necessaria unitarietà e coerenza delle linee di conduzione della società: il timore è quello di una innaturale alterazione della normale dialettica tra maggioranza e minoranza (chi investe più risorse ha anche tutto il diritto di pesare di più), senza considerare il rischio di nomine con finalità ricattatorie o di mero disturbo, in grado di produrre una costante e dannosa conflittualità negli organi di governo. In sostanza, un amministratore funzionale a una buona governance dovrebbe rappresentare non una minoranza, ma tutte le minoranze: meglio quindi che sia certo “indipendente”, ma sempre espressione di chi detiene il controllo. L’equazione amministratore minoranza – “disturbatore” si fonda, però, su un automatismo che non trova riscontro nella realtà: il fatto che il rappresentante della minoranza debba in astratto e per forza riflettere una visione conflittuale della gestione sociale. Invece, in quelle società dove questa figura ha operato, è emerso un positivo contributo al funzionamento del governo societario. È difficile poi immaginare che anche il più cattivo e inferocito dei consiglieri di minoranza possa, in un collegio composto in media da dieci-quindici membri, avere effetti così devastanti. Senza considerare che la previsione di soglie quantitative per la presentazione delle liste favorisce l’organizzazione delle minoranze qualificate. Il pensiero va agli investitori istituzionali che potrebbero usufruire di un positivo incentivo a organizzarsi e promuovere la presenza nei consigli: una importante occasione, anche sul piano della reputazione, per essere “attivi” e sfruttare tutte le opportunità di valorizzazione dell’investimento: e, alla luce delle recenti esperienze, non è realistico immaginare gli investitori nel ruolo di orde barbariche pronte a dare l’assalto ai fortini delle governo societario.

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E l’amministratore indipendente

Questo non significa, ovviamente, che anche gli amministratori nominati dalla maggioranza, ma dotati di adeguate garanzie di autonomia e indipendenza, non possano svolgere una funzione positiva. Funzione esplicitamente riconosciuta dal progetto in discussione al Senato che impone, nei consigli con più di sette membri, la presenza di almeno un amministratore indipendente. Ma a prescindere dalle fin troppo note difficoltà nell’individuare criteri capaci di definire con certezza il perimetro dell’indipendenza e soprattutto di evitare che le società facciano di questi criteri un uso del tutto “fantasioso” e di comodo (e anche qui i recenti scandali dovrebbero insegnare qualcosa), un amministratore indipendente può oggettivamente godere di incentivi minori, rispetto al rappresentante della minoranza che a questa deve rendere conto, per il corretto ed efficace svolgimento delle sue mansioni.
Questo aspetto assume poi specifica rilevanza in un contesto come il nostro dove nelle società quotate è ancora forte la concentrazione azionaria. E dove non è detto debba necessariamente avere successo una automatica traduzione dei modelli anglosassoni ad azionariato diffuso, nei quali la figura dell’amministratore indipendente si è da tempo affermata, peraltro con alterne fortune. Nel nostro paese esiste, in realtà, un tradizionale e antico timore sui pericoli di una degenerazione dei conflitti societari derivanti da un eccessivo spazio riconosciuto alle minoranze, che già si era manifestato all’epoca dell’approvazione del Testo unico della finanza (Tuf) e che si è riproposto in occasione del varo della riforma delle società di capitali.
La prima esperienza applicativa delle norme del Tuf dimostra l’infondatezza di quel timore: al contrario è stata spesso riscontrata una certa timidezza nell’utilizzo di questi spazi, a testimonianza del fatto che le minoranze non sono poi quel fantasma destinato a popolare gli incubi dei consigli di amministrazione.

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