La legge Biagi ha modificato gran parte della legislazione sul lavoro. Ora si pone la questione se alla mera regolazione delle diverse fattispecie contrattuali, non debba affiancarsi un intervento di riordino delle aliquote contributive, la chiave per contrastare la cosiddetta “fuga dal rapporto di lavoro standard”. La stessa discrasia tra contratti a termine e a tempo indeterminato potrebbe ridursi immaginando meccanismi d’indennizzo monetario per l’interruzione del rapporto di lavoro. Forse è arrivato il momento di pensare al sempre rinviato Statuto dei lavori. La legge Biagi ha investito e modificato gran parte della legislazione sul lavoro. Lo ha fatto attraverso interventi definiti a carattere sperimentale; si sanciva perciò un approccio al monitoraggio delle politiche, che però è poi rimasto inattuato, prima vittima del clima di scontro politico-ideologico. La norma è stata così osannata o rigettata, ma sempre con scarsa attenzione ai molti aspetti di dettaglio, e, soprattutto, alla forte continuità con le riforme precedenti. La continuità col passato Il legame col passato non è di per sé cosa buona o cattiva. Nel caso degli interventi sui servizi per limpiego, le cose che meno convincono non sono tanto nelle novità quanto nei tratti di continuità: in un mercato in cui ormai lecitamente operano gli operatori privati, sarebbe da meglio specificare la mission dellintervento pubblico, soprattutto nella prospettiva di un rafforzamento degli ammortizzatori sociali che però tenga sotto controllo abusi e spesa. E maggiore attenzione andrebbe prestata alla contendibilità del mercato dei servizi, evitando commistioni pubblico-privato e poco trasparenti cessioni di prerogative pubbliche. (1) Lapprendistato Il ricorso allapprendistato (quello cosiddetto professionalizzante) sta crescendo, in linea con lampliamento della platea copribile. La crescita è però lenta, anche per incertezze regolative, ché la legge nazionale rimandava a interventi tanto delle Regioni che delle parti sociali. Solo poche Regioni sono intervenute in proposito, e tra le cinque che lo hanno fatto sembrano emergere modelli parzialmente diversi. Il discrimine è con quanta forza venga sottolineato il ruolo della formazione esterna regolata a livello regionale. Spesso è però una formazione piuttosto autoreferenziale e finisce quindi col rappresentare semplicemente una remora all(ab)uso dellapprendistato come mero contratto non permanente e con sgravio contributivo. Il pacchetto Treu nel 1997 aveva allargato la platea di ricorso allapprendistato, sancendo, però, un principio di necessaria presenza di attività formative formalizzate ed esterne: alla fine, pur se gradualmente, ne risultò soprattutto un semplice ampliamento degli sgravi contributivi. Il contratto di inserimento Nuovi gruppi, diversi dai giovani, sono inseriti nellarea degli incentivi alloccupazione con lo strumento dei contratti di inserimento . Le informazioni sono ferme alla fine del 2004: tre quarti dei circa 25mila contratti di inserimento censiti allepoca riguardavano giovani sino a 29 anni (non coperti da sgravio contributivo), mentre i restanti (coperti da sgravi) si suddividevano soprattutto tra lavoratori con più di 50 anni e donne. Per queste ultime, il posponimento dei decreti attuativi, usciti da poche settimane, ha presumibilmente accresciuto lincertezza normativa e frenato il ricorso allo strumento. Il part-time In tema di part-time il legislatore ha ampliato la flessibilità a beneficio dellimpresa nel presupposto che le rigidità del regime orario ne limitassero la domanda. E la scarsa disponibilità di posti di lavoro part-time, a sua volta, avrebbe potuto poi limitare la stessa offerta di lavoro, in particolare femminile. La contrattazione collettiva è spesso intervenuta, ma non sempre recependo a pieno i margini di flessibilità ulteriore a beneficio delle imprese. Il dato è però di ambigua interpretazione: potrebbe al tempo stesso indicare uno scarso interesse delle imprese alle flessibilità fornite dal legislatore, ma anche una certa resistenza opposta, almeno sinora, dalle organizzazioni sindacali. Inoltre, è da sottolineare che la legge prevede margini per intese “flessibili” determinate direttamente dal singolo datore e dal singolo lavoratore. Le co.co.co. Sulle collaborazioni coordinate e continuative, la legge Biagi ha invece limitato le flessibilità per limpresa. La necessità di dover individuare un progetto, e la sua non replicabilità nel tempo, è un potenziale condizionamento nel ricorso a questa fattispecie. La logica è per certi aspetti quella adoperata nella regolazione del lavoro a tempo determinato. Cosa è avvenuto in concreto? I dati Istat evidenziano una lievissima flessione tra primo semestre del 2004 e primo semestre del 2005, da 493 a 472mila soggetti. Prime evidenze (su dati Inail), mostrano inoltre molte riconversioni delle collaborazioni preesistenti in nuove, presumibilmente a progetto, anche con lo stesso committente. È quindi iniziato un adeguamento, quanto meno formale, alla normativa, nonostante la presenza dun regime transitorio sino a tutto lottobre 2005. Significative sono anche le riconversioni verso il lavoro dipendente, un fenomeno però non nuovo, ché già da prima la condizione di collaboratore spesso era una via daccesso al lavoro subordinato. La considerazione che si può fare è che lintervento, di contrasto degli abusi estremi, non ha indebolito la domanda di lavoro e loccupazione (regolari) come da taluni paventato. Limpressione è che le imprese riescano a vivere coi nuovi vincoli (così come vivono con i limiti che regolano il ricorso al lavoro a termine). *L’autore è coordinatore del gruppo di lavoro interistituzionale per il monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro presso il Ministero del Welfare. Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali e non coinvolgono le Istituzioni di appartenenza. (1) Non mi soffermo qui sui servizi per limpiego, rimandando a un volume che uscirà nei prossimi mesi per “I tipi” de il Mulino. Nel libro sono trattati con maggiore profondità anche gli interventi sulle fattispecie contrattuali.
Erano in continuità col passato gli interventi sui servizi per limpiego e sullintermediazione nel mercato, ove si accentuava lapertura ai privati assieme al decentramento di competenze dallo Stato alle Regioni e a un (auspicato) “orientamento al servizio” delle strutture pubbliche. Lo erano gli interventi sulle fattispecie contrattuali, ché si accrescevano i margini di flessibilità per le imprese in taluni specifici contratti “atipici” (ma , nel caso delle collaborazioni “a progetto”, anche con interventi di segno opposto). Si rimandava però al futuro il completamento delle flessibilità “al margine” via via introdotte, rafforzando gli ammortizzatori sociali e sistematizzando regole e tutele col cosiddetto Statuto dei lavori.
Ma cosa si sa sulle fattispecie contrattuali al di là delle futili polemiche sul loro numero? Purtroppo poco, perché il monitoraggio non è partito e le stesse rilevazioni Istat sulle forze di lavoro sono state interessate da una profonda discontinuità tra 2003 e 2004; comunque, non consentono di guardare alle singole fattispecie contrattuali. (2)
Lincertezza regolativa di oggi, figlia anche della contrapposizione ideologica e istituzionale, è senzaltro un male. Ma sarebbe un male anche una deriva in cui la formazione esterna, che non è priva di costi, sia un vincolo alle scelte aziendali. Daltra parte, è dubbio che sia da considerare un bene quellampliamento tout court dellapprendistato come sgravio contributivo che gradualmente è plausibile emerga. Il problema è in effetti nellimpostazione tradizionale del sistema, che non è stata toccata dalla legge Biagi: lincentivazione contributiva copre fasce piuttosto ampie e anziché “premiare” linvestimento in capitale umano, formale o informale, esterno o interno allimpresa, la regolazione cerca di controllare linput formativo e fissare le condizioni di esperibilità del contratto. (3)
Il ritardo deriva dallaspra polemica che addebitava al legislatore la riconduzione delle donne in quanto tali a un ambito contrattuale sub-standard. A mio avviso, la polemica era mal posta, perché la legge fa riferimento alle donne prive di impiego in aree in cui la performance del mercato del lavoro femminile sia deludente e non alle donne in quanto tali. Ciò detto, poco felici sono i criteri didentificazione delle aree e, soprattutto, effettivamente problematico può essere luso di forme contrattuali sub-standard per favorire laccesso al lavoro a fronte di uno status, quale quello di donna, che temporaneo non è. Lo spostamento della domanda di lavoro verso contratti sub-standard, pur se innalza la domanda di lavoro complessiva, accentua infatti i rischi di precarizzazione. Limitarli richiederebbe non tanto di ridurre la convenienza per le imprese al ricorso allo schema derogatorio, come è stato fatto con interventi correttivi nel 2005, quanto precisare meglio le condizioni, temporanee, che giustifichino il ricorso alle deroghe. Più che la donna in quanto tale, un utile riferimento potrebbe essere la donna che per una propria temporanea situazione per esempio la presenza di figli sotto una certa soglia di età oltre che per lo stato occupazionale e le condizioni del mercato locale del lavoro, abbia particolari difficoltà a rientrare nel mercato.
Il dato stimato per il 2004 dallIstat per loccupazione part-time era più alto di quello del 2003. La differenza è però ascrivibile in primis alle novità dellindagine che meglio coglie le prestazioni con orari ridotti. Nel confronto su dati omogenei, il primo semestre del 2005 evidenzia una crescita del part-time del 2,2 per cento (dal 12,8 al 13,0 per cento delloccupazione totale). Da guardare è anche il dato sul part-time cosiddetto involontario. Il rischio dun intervento a favore delle flessibilità dimpresa è che i lavoratori (e le lavoratrici) finiscano col peggio coniugare famiglia e lavoro: i maggiori posti di lavoro part-time potrebbero sì esser creati, ma solo a beneficio di individui che non riescano a trovar altro. In effetti, laumento del part-time totale nel 2005 è addebitabile a quello “involontario” che passa dal 34 al 38 per cento del totale. Pur dovendosi meglio considerare il peso di svariati fattori congiunturali, sembrerebbe quindi che la riforma crei più lavoro part-time, ma di minore “qualità”: un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno a seconda dei punti di vista. La cosa certa è che il part-time è unarea dove gli effetti della legge Biagi sono potenzialmente importanti. Più che esaltare o demonizzare lintervento normativo, sarebbe forse opportuno agire anche sul lato dellofferta di lavoro, considerando le questioni della conciliazione tra lavoro e vita familiare e dellimposizione fiscale nellambito della famiglia.
La vicenda solleva però il quesito più generale se alla mera regolazione, permissiva o restrittiva che sia, delle condizioni di utilizzabilità delle diverse fattispecie contrattuali, non debba preferirsi, o quanto meno affiancarsi, un intervento di riordino delle aliquote contributive. È forse qui la chiave per contrastare la cosiddetta “fuga dal rapporto di lavoro standard”. Anche nellambito del lavoro subordinato, lobiettivo di stabilizzare i rapporti di lavoro è perseguibile con maggior flessibilità operando sulle aliquote contributive ordinarie – recependo in termini assicurativi il maggior rischio di ricorso ai sussidi di disoccupazione insito nel lavoro a termine – che governando minuziosamente le condizioni di ricorso alle fattispecie atipiche. La stessa totale discrasia tra rapporti a termine e a tempo indeterminato potrebbe poi ridursi immaginando meccanismi dindennizzo monetario in caso di interruzione dun rapporto a tempo indeterminato.
Ma queste considerazioni appartengono al dibattito su quello Statuto dei lavori che tanto il pacchetto Treu quanto la legge Biagi implicitamente immaginavano dovesse far loro seguito. Chissà se quel momento è arrivato?
(2) I dati evidenziavano un progressivo deterioramento della performance occupazionale. Pur in un quadro di crescita labour intensive, prevalente da circa dieci anni, gli ultimi dati fanno venir meno labnorme disallineamento tra Pil e occupazione del biennio 2002-03. Dovendosi tener conto della performance economica complessiva non è però possibile usare il segno della dinamica occupazionale come metro di giudizio sulla legge Biagi.
(3) In quanto mero sgravio contributivo, lapprendistato interessa tutti i giovani sino a 29 anni: unaccezione piuttosto estesa di gruppo con difficoltà occupazionali. Invece, si potrebbe riconoscere linvestimento in capitale umano graduando gli sgravi a favore delle imprese i cui apprendisti ex-post abbiano una buona performance occupazionale o si vedano certificate determinate competenze.
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Giorgio Trenti
E’ opportuno abolire la legge cosiddetta biagi e le altre consimili che hanno creato una pletora di intermediari fra datore e prestatore di lavoro.
La legislazione vigente nel 1960 era ottima.
Propongo un solo articolo nel codice civile che permetta ai 2 soggetti di regolare la durata e le modalità del rapporto di lavoro come meglio credono.
L’incontro fra i 2 soggetti può avvenire gratis su internet.
Mauro Marini
Un aspetto che non sento mai trattare è quello della professionalità: credo che un imprenditore che utilizza molti contratti a progetto non intenda far crescere le persone con cui lavora, quindi non voglia investire (nemmeno la fiducia) nelle risorse umane. Il risultato è una grave svalutazione del lavoro con perdita di know-how e quindi, in una società che si muove sempre di più verso i servizi tecnologici, un generale impoverimento delle aziende.
La redazione
Un problema di tutte le forme di lavoro cd precario è proprio nel ridotto incentivo ad investire nella relazione specifica, da parte del datore/committente e da parte del lavoratore. La soluzione non è pero nell’impedire certe trandsazioni, ma nel cercare di limitarle, o quantomeno nel cercare di favorirle con amliquote contributive ridotte. Questo è il senso delle considerazioni esposte nel mio contributo.
Giovanni Prunella
Vorrei innanzitutto rispondere a chi, senza un briciolo di riflessione, suggerisce di eliminare la più importante, e, di ccerto, in linea con i modelli europei, riforma sul mondo del lavoro:
1) le nuove tipologie contrattuali,spesso venivano gia intraprese dalle aziende, ma in nero;
2) con nuovi contratti modulati e a termine si da la possibilià alle aziende di conoscere bene chi si sta inserendo nel proprio sistema produttivo, e, se valido, di farlo cresre nella propria azienda, o in ogni modo,di far accumulare esperienza per un nuovo posto.
3) i dati istat riferiti a questo 5ennio nn hanno dato in flessione l’occupazione a tempo indeterminato, di conseguenza non si registra un abuso “in negativo” di queste nuove tipologie contrattuali.