Lavoce.info

La paga del dirigente pubblico

Una delle grandi riforme italiane è stata l’applicazione del sistema privatistico alla dirigenza pubblica. A dieci anni dal varo prevale il senso di frustrazione per gli esiti che ha dato. L’introduzione di regole di trasparenza, come suggerisce il decalogo di Stefano Micossi, è certo indispensabile. Ma occorre rilanciare con determinazione i controlli interni e i sistemi di valutazione, oggi ridotti a una serie di passaggi formali. Da affiancare a nuovi meccanismi premiali che siano capaci di meglio garantire il raggiungimento dei risultati desiderati.

La paga del dirigente pubblico, di Maria Teresa Salvemini

Una delle grandi azioni di riforma degli ultimi dieci anni è stata l’applicazione del sistema privatistico alla dirigenza pubblica italiana: il dirigente è pagato bene, ma non è inamovibile; nella retribuzione vi è una parte fissa e una variabile, in funzione dei risultati; vi è una netta separazione di responsabilità tra politica e amministrazione. La retribuzione è stata resa onnicomprensiva.
Gli obiettivi dichiarati delle riforme erano aprire l’amministrazione pubblica a professionalità provenienti dal settore privato, spostare l’interesse dei dirigenti dall’ottemperanza delle norme al conseguimento dei risultati utili per i cittadini, rendere possibile una politica dei redditi, una volta separata la questione delle posizioni apicali.

Dieci anni dopo…

Un decennio di applicazione delle riforme si conclude con un diffuso senso di frustrazione.
La definizione, con contratto privato e individuale, delle retribuzioni dei dirigenti generali è avvenuta con modalità tali da ricordare quella che, negli anni Settanta, fu definita “giungla retributiva“, e alla quale si dovette provvedere con indagini parlamentari e profonde revisioni.
Gli elevati stipendi hanno costituito motivo di attrazione molto più per il sottobosco della politica che per professionalità già sperimentate nella gestione di imprese private. La fine dell’inamovibilità è stata stravolta da uno spoils system esteso ben oltre la fisiologica cerchia degli stretti corresponsabili della politica del ministro, ed è stata poi eliminata per gli interni all’amministrazione. La corresponsione della quota variabile della retribuzione è stata ancorata ad adempimenti meramente formali, che anziché migliorare hanno appesantito l’azione amministrativa.
La forte impennata delle retribuzioni dei dirigenti è stata una causa non minore della crescita del volume complessivo delle retribuzioni pubbliche nell’ultimo quinquennio, con un tasso medio, e un tasso annuo, costantemente superiore a quello del prodotto. L’effetto imitativo è stato evidente, soprattutto per alcune strutture di gabinetto e di segreteria che si sono dotate di regolamenti “adeguati”, ma anche per gli altri dipendenti pubblici. L’onnicomprensività ha consentito un forte aumento dei trattamenti pensionistici.

Tre soluzioni possibili

Possiamo ora fare tre cose. Primo, portare a compimento le riforme, il che significa realizzare le condizioni di contorno previste a corollario della privatizzazione contrattuale. Ad esempio, si dovrebbero predisporre adeguati strumenti di misurazione e di valutazione dell’azione amministrativa. Secondo, tornare indietro, e porre regole di politica dei redditi, come tetti alle retribuzioni dei dirigenti, tassi uniformi di variazione, e ostacoli all’immissione di elementi esterni, come le quote riservate. Terzo, porre regole di trasparenza, come suggerisce il decalogo proposto da Stefano Micossi.
Sono del tutto a favore di questa terza soluzione, ma credo che anche la prima debba essere perseguita.
Ci vuole trasparenza nelle procedure di nomina, il che non significa concorsi, ma manifestazione di quale competenza sia richiesta, con quali strumenti venga verificata, chi deve procedere alla selezione, in che tempi, con quale pubblicità degli atti, con quali motivazioni. Significa definire gli strumenti di valutazione per la conferma o la revoca delle funzioni. Anche in questo caso senza appesantimenti che attizzino i contenziosi, ma anche senza timore di dire con chiarezza chi ha fatto bene e chi no. La retribuzione offerta deve essere nota. Si può però ammettere in qualche caso, ben motivato, un limitato scostamento, da rendere comunque pubblico. Oggi la Ragioneria generale fornisce solo dati aggregati, e in ritardo, su questa componente delle spesa pubblica. Nella definizione delle retribuzione offerta, l’organo responsabile dovrebbe anche dire se le condizioni di bilancio di quel soggetto pubblico consentono la spesa, o se vi siano risparmi che la rendono possibile.

L’importanza della valutazione

Ma bisogna anche rilanciare con determinazione i controlli interni e i sistemi di valutazione.
Nella stagione caratterizzata dalla speranza di dare all’Italia un’amministrazione efficiente e moderna se ne discusse a lungo, e furono poi introdotti nel sistema, malgrado le resistenze della Ragioneria generale. Erano pensati per consentire all’amministrazione uno sguardo critico su sé stessa, un luogo dove cercare e trovare spazi di miglioramento dell’azione svolta a favore dei cittadini, una sede per verificare se il “valore” del prodotto giustificasse la “moneta” spesa, e se questo rapporto fosse, e come, migliorabile. Tutto questo era coerente con l’idea che il dirigente avesse maggiori responsabilità, maggiore autonomia, maggiori remunerazioni.
Anche su questo registriamo un insuccesso .Oggi, abbiamo solo un insieme di passaggi formali, che vengono utilizzati prevalentemente per dire che tutto è regolare, che tutto è fatto nel migliore dei modi, o comunque come impone la legge o la prassi esistente, che tutti sono stati bravi. Certo, dobbiamo considerare che l’importanza del cambiamento richiede adeguati tempi di maturazione. Ma serve un rilancio di tensione, di motivazione, accompagnato da nuovi meccanismi premiali che siano capaci di meglio garantire il raggiungimento dei risultati desiderati. Ad esempio, imponendo che solo una percentuale dei dirigenti ottenga la valutazione più positiva (senza introdurre meccanismi di rotazione), o imponendo all’amministrazione di fare analisi e studi prima di indicare gli obbiettivi posti oggi in modo vago e generico.

Contratti generosi per il pubblico impiego, di Simone Landini e Renato Lanzetti

Dalla nuova serie Istat dei dati di contabilità nazionale dal 1970 al 2005, si può vedere che, nel decennio 1995-2005, l’occupazione dipendente – espressa in termini di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno – aumenta complessivamente di quasi l’11 per cento, ma in modo differenziato fra i tre macro settori economici, con un consistente calo in agricoltura, un lieve incremento nell’industria e un robusto aumento nel terziario. Soprattutto, cresce nel terziario privato a fronte di una contenuta dinamica di quello pubblico, che comprende il comparto dei servizi generali della pubblica amministrazione e quelli dell’istruzione e della sanità e assistenza sociale.

Leggi anche:  Rinunciare al salario minimo costa caro*

Tabella 1 Dinamica delle unità di lavoro dipendente (Migliaia di unità)

Unità di Lav. Dip.

1995

2005

Var. %

Agricoltura

574,5

443,3

-22,84

Industria

5.157,8

5.297,1

2,70

Servizi

9.817,1

11.472,7

16,86

– non AA.PP.

5.864,4

7.462,3

27,25

– AA.PP.

3.952,7

4.010,4

1,46

Totale

15.549,4

17.213,1

10,70

A questa dinamica dell’occupazione corrisponde un aumento dei redditi da lavoro dipendente, ovvero del costo del lavoro, nel decennio considerato pari al 48 per cento. È significativamente superiore all’inflazione di periodo, valutata dall’Istat a circa il 25 per cento. La crescita dei redditi da lavoro risulta particolarmente marcata nel terziario privato, in funzione della crescita occupazionale, ma anche nel terziario pubblico, dove questa non si è verificata.

Tabella 2 Dinamica dei redditi da lavoro dipendente (Milioni di euro correnti)

Redd. Lav. Dip.

1995

2005

Var. %

Agricoltura

8.352,0

8.198,4

-1,84

Industria

131.328,0

175.199,8

33,41

Servizi

250.749,7

394.838,2

57,46

– non AA.PP.

144.270,3

231.944,8

60,77

– AA.PP.

106.479,4

162.893,4

52,98

Totale

390.429,7

578.236,4

48,10

Il fenomeno è riconducibile alla differente dinamica del costo del lavoro per dipendente, definito come il rapporto tra il reddito da lavoro dipendente e il numero delle unità di lavoro dipendenti.

Tab 3. Costo del lavoro per dipendente (Migliaia di euro correnti)

Costo del Lav. Dip.

1995

2005

Var. %

Agricoltura

14,54

18,49

27,21

Industria

25,46

33,07

29,90

Servizi

25,54

34,42

34,74

– non AA.PP.

24,60

31,08

26,35

– AA.PP.

26,94

40,62

50,78

Totale

25,11

33,59

33,79

Tot. non AA.PP.

24,49

31,46

28,48

Nell’insieme dell’economia il costo unitario del lavoro dipendente in Italia è cresciuto, in dieci anni, del 33,8 per cento. Nella pubblica amministrazione, dove già nel 1995 il costo unitario del lavoro risultava superiore di oltre il 10 per cento rispetto a quello del settore privato, la crescita è stata decisamente superiore: +50,8 per cento. L’aumento è stato, poi, del 30 per cento nell’industria, del 26 per cento nel terziario privato e del 28,5 per cento per l’intera economia al netto della pubblica amministrazione: nel 2005 il costo unitario del settore pubblico supera quello del settore privato di ben 29 punti percentuali.

I possibili risparmi

Queste considerazioni suggeriscono una domanda: quale sarebbe stata la spesa per stipendi nella pubblica amministrazione se il costo unitario del lavoro fosse cresciuto al tasso del terziario privato oppure a quello dell’economia italiana nel suo complesso, al netto delle amministrazioni pubbliche? E quanto avrebbe potuto risparmiare, in dieci anni, la pubblica amministrazione, concedendo ai propri dipendenti quanto mediamente è stato concesso ai lavoratori dipendenti privati?
Si può rispondere a questa domanda, calcolando, per ogni anno dal 1995 al 2005, quale sarebbe stato il costo unitario del lavoro nelle amministrazioni pubbliche qualora fosse cresciuto come quello del settore privato, oppure come quello del terziario privato (Tabella 4): nel 2005 il costo unitario del lavoro dei dipendenti pubblici sarebbe stato rispettivamente di 34.610 euro o di 34.040 euro, anziché di 40.620 euro.
Moltiplicando anno per anno questi valori per il numero di unità di lavoro dipendenti nel settore pubblico si ottiene una stima di quella che sarebbe stata la spesa per stipendi della pubblica amministrazione nelle due ipotesi considerate: nel 2005 138,8 miliardi di euro o 136,5 miliardi, anziché 162,9 miliardi (tabella 5)
Sottraendo i valori così simulati a quelli della spesa effettiva per redditi da lavoro dipendente della pubblica amministrazione otteniamo il risparmio che il settore pubblico avrebbe potuto conseguire nelle due ipotesi, e rivalutando questi valori correnti in base ai coefficienti di rivalutazione monetaria Istat al 2005 otteniamo il flusso annuo del risparmio simulato a valori costanti a prezzi 2005 (tabella 6).
Infine, sommando i flussi annui correnti e rivalutandoli a prezzi 2005 si ottiene il risparmio cumulato (tabella 7) che la pubblica amministrazione avrebbe potuto conseguire: se il costo unitario del lavoro dipendente nel settore pubblico fosse cresciuto come quello del settore privato, nell’arco di dieci anni si sarebbero risparmiati circa 129 miliardi di euro (dei quali 24 miliardi solo nel 2005), mentre se la crescita del costo del lavoro nella pubblica amministrazione avesse seguito quella del terziario privato il risparmio sarebbe stato di quasi 144 miliardi di euro (dei quali oltre 26 miliardi solo nel 2005).
Per dare un’idea della rilevanza di questi risparmi li abbiamo confrontati con il Pil a prezzi 2005 (tabelle 8 e 9). Può essere interessante notare che se le politiche contrattuali nel settore pubblico fossero state meno generose di quelle effettivamente realizzate, e allineate a quelle del settore privato, si sarebbero potute ottenere risorse di anno in anno crescenti e, nel 2005, pari a quasi il 2 per cento del Pil: risorse che, se ad esempio fossero state destinate ad attività di ricerca e sviluppo, avrebbero consentito all’Italia di raggiungere l’obiettivo del 3 per cento di investimenti in R&S sul Pil, previsto dall’Unione Europea con la strategia di Lisbona.
Secondo queste simulazioni il risparmio decennale risulta pari al 9-10 per cento del Pil del 2005. Se fosse stato destinato al risanamento dei conti pubblici, ne sarebbe potuto conseguire un significativo abbassamento del livello di debito pubblico, nel 2005 attestato in base ai dati della Banca d’Italia, a 1.507,6 miliardi di euro, con un peso sul Pil pari a 106,4 per cento. Sottraendo il risparmio cumulato al debito pubblico 2005, secondo l’ipotesi in cui il costo unitario del lavoro fosse cresciuto com’è cresciuto nel settore privato, il debito avrebbe potuto essere ridotto del 9,38 per cento rispetto al suo valore attuale e quindi con un rapporto debito/Pil al 2005 pari a 97,3 per cento. Nell’ipotesi di risparmio cumulato secondo la crescita del costo unitario del lavoro nel terziario privato, il debito pubblico si sarebbe potuto contrarre del 10,58 per cento rispetto al valore reale, con un peso sul Pil pari al 96,2 per cento.
La rilevazione potrà essere approfondita considerando le condizioni della pubblica “generosità” – correlazione con la dinamica della produttività, immissione di personale a elevata qualifica, progressivo riconoscimento della qualificazione e dei relativi scorrimenti professionali, presenza e incidenza del sindacato – e le sue differenziazioni per comparti, per livelli istituzionali e per territori.
Resta comunque significativa la rilevanza delle risorse attribuite nello scorso decennio al personale pubblico nella prospettiva del risanamento dei conti pubblici e della contestuale esigenza di reperire fondi necessari alle politiche di rilancio dell’economia.

Tab. 4 Costo unitario del lavoro Aapp a tassi di crescita simulati. (Migliaia di euro correnti)

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Costo unit. lav. AA.PP. effettivo

26,94

29,43

31,37

30,39

31,15

32,32

33,98

35,35

37,37

38,77

40,62

Costo unitario lavoro AA.PP.:

simulazione settore privato.

26,94

28,31

29,24

28,97

29,75

30,30

31,06

31,78

32,73

33,82

34,61

Costo unitario lavoro AA.PP.:

simulazione terziario privato.

26,94

28,14

28,89

28,70

29,53

30,06

30,80

31,47

32,27

33,23

34,04

Tab. 5 Redditi da lavoro dipendente nel Aapp a tassi di crescita simulati (Milioni di euro correnti)

 

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Redditi lav. dip. AA.PP. effettivi

106.479

116.678

124.377

119.927

123.626

129.194

136.897

143.047

150.896

156.289

162.893

Redditi lav. dip. AA.PP.

simulazione settore privato

106.479

112.216

115.915

114.314

118.072

121.118

125.133

128.595

132.150

136.348

138.802

Redditi lav. dip. AA.PP.

simulazione terziario privato.

106.479

111.532

114.519

113.245

117.199

120.168

124.083

127.327

130.292

133.960

136.495

Tab. 6 Flusso annuo di risparmio annuo simulato a prezzi 2005 (Milioni di euro 2005)

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Risparmio: simulazione

settore privato

5.381

10.031

6.537

6.366

9.026

12.806

15.360

19.445

20.280

24.091

Risparmio: simulazione

terziario privato

6.207

11.686

7.781

7.367

10.089

13.949

16.707

21.372

22.708

26.398

Tab. 7 Risparmio cumulato a prezzi 2005 (Milioni di euro 2005)

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Risparmio: simulazione

settore privato

5.381

15.412

21.948

28.315

37.341

50.148

65.507

84.952

105.231

129.323

Risparmio: simulazione

terziario privato

6.207

17.893

25.674

33.041

43.130

57.079

73.786

95.158

117.866

144.264

Tab. 8 Peso percentuale del risparmio annuo sul Pil

 

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Risparmio: simulazione

settore privato

0,44

0,81

0,51

0,49

0,68

0,94

1,12

1,40

1,44

1,70

Risparmio: simulazione

terziario privato

0,51

0,94

0,61

0,57

0,76

1,03

1,21

1,54

1,61

1,86


Tab. 9 Peso percentuale del risparmio cumulato sul Pil

 

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

Risparmio: simulazione

settore privato

0,44

1,24

1,73

2,19

2,80

3,69

4,76

6,13

7,45

9,12

Risparmio: simulazione

terziario privato

0,51

1,44

2,02

2,56

3,24

4,20

5,36

6,87

8,34

10,18

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Dentro il labirinto: il programma Gol visto dagli operatori

Precedente

Le elezioni viste da lontano

Successivo

Il contratto temporaneo limitato

12 commenti

  1. Ing. Marcellino De Santis

    In realtà, per meglio esaminare la situazione, occorrerebbe partire dal fatto che L’italia è stato l’unico paese comunista democratico. Il problema è che nel corso di questi anni l’amministrazione pubblica si sarebbe dovuta limitare a controllare demandando al privato il compito di gestire; questo avrebbe significato perdita di potere per la politica che non potendo mettere gli uomini giusti al posto giusto non avrebbe potutto garantire lo scambio clientelare del voto. Quindi, pur ammirando il continuo lavoro mentale teso a ricercare il meccanismo premi-punizioni che migliora le performance e garantisca trasparenza, ritengo che l’unico modo per riportare il paese ad un giusto equilibrio efficienza-trasparenza sia procedere con una ricvoluzione culturale dove l’Amministrazione Pubblica sia chiamata solo a garantire severamente le prestazioni di imprese private chiamate a gestire con gara le risorse del paese, fatta eccezione per la sanità e per la scuola. In poche parole meno stato gestore significa meno clientelismo e più efficienza. Questo se è vero per tutta la nazione è doppiamente vero per il mezzogiorno d’italia dove lo stato rappresenta il 90% della realtà economica.

  2. Rinaldo Sorgenti

    Da molte parti ed in particolare durante l’ultima campagna elettorale si è commentato sul fatto che, nonostante i tentativi da parte del Ministri dell’Economia (Tremonti-Siniscalco-Tremonti), la spesa pubblica ha continuato a crescere anche in un periodo di scarso ulteriore aumento del PIL.
    Come sappiamo una buona parte della spesa pubblica è quella operata dagli Enti Locali (in particolare Comuni, Province e Regioni), la cui dinamica è quindi sostanzialmente decisa perifericamente e sulla quale il Governo ha ben pochi strumenti, salvo imporre un tetto ai trasferimenti, come peraltro deciso per tentare di indurre alla “moderazione”.
    Ora vi è una voce che nel mare degli “sprechi” ha una sua rilevanza quantitativa ed anche etica. Si tratta dalla DOPPIA retribuzione che viene molto spesso corrisposta ai cosidetti: “Direttori Generali”, figura istituita dalla Legge Bassanini. Prima questa funzione veniva implicitamente svolta da Dirigenti Statali (i Segretari Generali) che beneficiano già di un discreto trattamento economico e normativo.
    La nuova situazione ha comportato che, troppo spesso, i Comuni hanno deciso di conferire tale nuova formale carica agli stessi “Segretari Generali” ma, anzichè eventualmente riconoscere loro un “SUPERMINIMO” per tale formale funzione (ripeto sempre già svolta in precedenza), viene riconosciuta loro una cospicua nuova retribuzione per una funzione che, comunque svolgono “part-time” con quella che permane di “Segretario Generale”.
    Quindi in capo alla stessa persona si elargisce un doppio lauto riconoscimento economico (Minimo 5-7.000 Euro aggiuntivi al mese !!!) oltre alla retribuzione di Dirigente Statale.
    E’ uno scandalo a cui il Sindacato della Funzione Pubblica deve eliminare quando a svolgere tale funzione è chiamata la stessa singola persona.
    Una valorizzazione minima:
    ipotizziamo 4.000 degli oltre 8.000 Comuni x 5.000 Euro mese = 240 milioni di Euro/annui !!!
    Alla faccia dell’equità e della disoccupazione.

  3. barbara balboni

    Pensare che, in un paese come il nostro, l’introduzione e l’estensione dello spoyl system, oltre alla facoltà di stipulare contratti dirigenziali di diritto privato con aumenti di stipendio potesse scatenare l’assalto al forno delle grucce da parte di una classe dirigente di basso profilo, da sempre satellitare alla politica spicciola non era poi un esercizio profetico così difficile. Anche perchè, in tutti i sistemi di valutazione dei risultati di fatto attuati, è la stessa amministrazione (cioè i dirigenti) a stabilire sia gli indici che i punteggi, arrivando poi a controllare i risultati.
    Un sistema dove controllore e controllato sono lo stesso soggetto funziona tendenzialmente poco.
    Come dire….si sviluppano strane logiche di casta.
    Non sarebbe male creare un istituto autonomo dalle singole amministrazioni che ne conosca i prodotti ma che faccia il controllo da esterno, e che comprenda non solo soggetti provenienti dalla p.a., ma anche persone completamente estranee alla stressa (docenti, professionisti, esperti designati su segnalazione delle organizzazioni degli utenti ecc. ).
    Detto questo, alla selezione per titoli, con obbligo di motivazione del giudizio, non si vede proprio perchè non debba essere accostato ad un sano, sanissimo esame, magari con una bella preselezione con test, e ad una successiva bella interrogazione.
    Questo non significa che non si debbano guardare ai titoli, ma i titoli si possono collezionare in tanti modi, nel mondo satellitare alla politica spicciola, mentre le conoscenze di base si acquisiscono “solo” studiando e lavorando.
    Visto che il concorso è l’unico modo che abbiamo non già per far emergere i migliori, ma per tenere fuori i più palesemente ignoranti, non si vede perchè, invece di modernizzare lo strumento, lo si debba demonizzare.
    Grazie dell’attenzione

  4. laureato91

    L’articolo è interessante, ed i suggerimenti ivi riportati rappresentano un’ottima base di discussione.
    Peraltro, va notato come, dopo un incipit corretto ed appropriato, vi sia una forse involontaria “confusione” fra le retribuzioni dei dirigenti e quelle dei dirigenti generali (specie apicali), e fra le retribuzioni del personale estraneo all’Amministrazione in posizione di diretta collaborazione e quelle del personale di ruolo.
    Alla fine, generalizzando forse un po’ troppo, si giunge a dichiarare che vi sarebbe stata “una forte impennata delle retribuzioni dei dirigenti”, tanto da costituire “una causa non minore della crescita del volume complessivo delle retribuzioni pubbliche nell’ultimo quinquennio”.
    Eppure, i contenuti dei CCNL (firmati, tra l’altro, con oltre quattro anni di ritardo!) sono facilmente accessibili sul sito dell’Aran. Per quanto riguarda i livelli retributivi, evidentemente non si tiene conto della questione della eccessiva “forbice” che si èandata allargando, tra dirigenti generali e dirigenti “ordinari”. Anzi, la curva delle retribuzioni, relativamente piatta fino al grado di dirigente, si impenna solo per i dirigenti generali. E dunque, i “tetti” di cui si parla andrebbero semmai – più propriamente – fissati in relazione ai dirigenti generali (anzi, a quelli investiti di incarichi – e retribuzioni – apicali).

    economiaitaliana.splinder.com

  5. marcello

    …Il problema è che nel corso di questi anni l’amministrazione pubblica si sarebbe dovuta limitare a controllare demandando al privato il compito di gestire; questo avrebbe sicuramente favorito un processo di perdita di potere della politica in quanto non avrebbe potuto piu garantire, mettendo gli uomini giusti al posto giusto, lo scambio clientelare del voto. Pur ammirando il continuo lavoro mentale teso a ricercare il meccanismo premi-punizioni che migliora le performance e garantisca trasparenza, ritengo che l’unico modo per riportare il paese ad un giusto equilibrio efficienza-trasparenza sia procedere con una rivoluzione culturale dove l’Amministrazione Pubblica sia chiamata solo a garantire severamente le prestazioni di imprese private chiamate a gestire con gara le risorse del paese, fatta eccezione per la sanità e per la scuola. In poche parole meno stato gestore significa meno clientelismo e più efficienza. Questo se è vero per tutta la nazione è doppiamente vero per il mezzogiorno d’italia dove l’attività statale rappresenta il 90% della realtà economica.

  6. Menei Vincenza

    L’autonomia concessa a tutte le scuole poteva raggiungere i fini previsti dalla norma solo se si fosse posta attenzione adeguata alla Dirigenza Scolastica di primo e secondo livello. Purtroppo, la pressione sindacale, la policizzazione e la storia identitaria della scuola italiana, hanno portato alla dirigenza una pecentuale altissima di incompetenti e disattenti non solo ai tanti ed evidenti problemi di gestione. Si è spesso verificato un “accomodarsi” ulteriore sulla NON assunzione di responsabilità dei percorsi e dei risultati riscaricando tale responsabilità sulla docenza che, al momento, in massima percentuale, manca di conoscenze e saperi adeguati. In questi ultimi anni, poi, piuttosto che attivare la riforma, orientandosi sugli aspetti positivi e inderogabili che contiene, si è “distratta” la categoria contro il Ministro Moratti, rinforzandone conservatorismo e autoreferenzialità. Condivido in pieno la preoccupazione della Salvemini e chiedo, a chi può farlo, di approfondire ulteriormente questo settore della dirigenza sia in primo che secondo livello, prima che sia troppo tardi.
    In molte istituzioni scolastiche manca ogni reale analisi dei bisogni e ogni concreta valutazione dei risultati. Il processo di formazione è quasi assente. Molte iniziative sono attivate in modo improduttivo e, spesso, per accaparramento dei fondi, con la conseguenza di un attivismo confuso e mistificato. Questo discorso non va visto in modo generalizzato; ci sono ancora alcuni professionisti -insegnati e dirigenti – attenti, ma spesso bloccati nello sviluppo professionale proprio dall’inefficienza dominante nel sistema che spesso li isola e li mette in difficoltà al limite del mobbing.

  7. francesco

    Il problema è che il sistema si è orientato verso nomine dei dirigenti e in particolare dei massimi vertici amministrativi (ad esempio segretari comunali)sulla base fiduciaria senza valutazioni effettuate da terzi sulla competenza e merito dei candidati.
    Ne consegue che molte cariche amministrative sono connotate da fiduciarietà politica o partitica o comunque di rapporti interpersonali che come tali implicano ai fini della valutazione del risultato elementi soggettivi(interessi personali o politici)a discapito dell’interesse generale proprio dell’ente pubblico.
    La riforma del sistema presuppone nomine legate alle competenze e ai titoli pur garandendosi un legame fiduciario,revoche solo per mancato raggiungimento di obiettivi generali assegnati con il programma e certificati da soggetti terzi.

  8. Massimo Siciliano

    Tutto ciò che ha scritto la Dott.ssa Salvemini è ancora più vero nell’Amministrazione regionale Siciliana dove, inoltre, i livelli di produttività sono bassissimi e dove si sta procedendo alla creazione di una amministrazione parallela, fatti di “società” ed “agenzie” pivate a totale controllo del Governatore o di suoi uomini, verso le quali vengono dirottati i dirigenti e i funzionari “migliori” offrendo ai primi contratti ancora più pingui e ai secondi tonnellate di straordinario. Questa è la privatizzazione della P.A. alla palermitana! Altri carrozzoni zeppi di raccomandati. Altri soldi pubblici che finiscono nelle tasche dei soliti funzionari, ma anche imprenditori, amici degli amici.

  9. francesco

    Ho letto il commento del signor sorgenti al quale sfugge che il vero incremento della spesa nei comuni non è dovuto soltanto alla possibilità di nominare i direttori generali, che tra l’altro e assurdamente la riforma Pisanu prevede anche per i piccoli comuni, ma dalla moltiplicazione delle figure dirigenziali e di responsabili di servizio nei piccoli e medi comuni,posizioni quest’ultime create con la legge Bassanini e che spesso non rispondono ad esigenze organizzative ma di sola simpatia e appartenenza politica e che determinano aumenti stipendiali fino al 100 del trattamento base.
    Il problema è allora quello di ricondurre le nomine dei vertici dell’organizzazione comunale a criteri meritocratici e non di appartenenza e simpatia politica e di stabilire precisi tetti retribuitivi nell’ambito normativo-contrattuale negli enti pubblici, comuni in primis, correlati alle effettive responsabilità di chi svolge la mansione e alla classe demografica dell’ente al fine di evitare che dipendenti con identica posizione lavorativa possano avere trattamenti economici molto ma molto differenti.

  10. M.S.

    Gentili prof.ri Landini e Lanzetti, nonostante il vostro articolo sia molto interessante mi permetto di rimanere alquanto scettico, avendo avuto esperienza in famiglia di contratti dirigenziali delle AAPP. Oltre questo penso che una piccola critica sia dovuta: nell’articolo ci si chiede se non sarebbe stato meglio destinare le maggiori spese delle AAPP alla riduzione del debito pubblico o a R&D, che mi sembra una dietrologia un pò troppo facile; minore spesa pubblica infatti avrebbe anche significato minori redditi per le famiglie, minori consumi e minori basi imponibili che avrebbero potuto richiedere maggiore spesa pubblica in welfare e maggior debito pubblico. Grazie per lo spazio e cordiali saluti

  11. Alfonso Gambardella

    Condivido moltissimo come docente la critica alla Dirigenza Scolastica: è costituita da personaggi abituati ad obbedire, ed oggi non sanno far altro che balbettare e mantenere solo tutti i poteri del Preside, senza capacità di migliorare il “prodotto”; non sanno niente delle emergenze del dibattito teorico su una scuola del XXI secolo.
    Ma dal campo della scuola, vorrei passare al pubblico impiego: qui la dirigenza ha fatto la voce del padrone, molto spesso anche con un compito strano, che è quello di costituire la base finanziaria delle attività del “padrone”, con tutto quello che ne consegue, e specialmente per quel che riguarda la capacità e la possibilità di gestire il personale. Qui vi sono settori ricchi di personale che non ha compiti (ve ne potrei fare esempi a iosa) ma nessuno è in grado di pensare ad una utilizzazione dello stesso in modo da rendere più efficiente la PA ed aiutarla ad avventurarsi in campi di attività generalemnete trascurati ma che meriterebbero invece tanta attenzione.

  12. Massimiliano Manfredi

    A quando la selezione meritocratica? finchè non si applica in maniera efficiente ed equilibrata il criterio della selezione per meriti non si uscirà dall’impasse. E’ eclatante che anche quando si parla di strutture privatizzate arricchite dall’ingresso di risorse drenate dall’esterno e penso alle grandi Spa tipo fs o Altalia non si metta mano in maniera rigorosa all’adozione di parametri certi per selezionare il personale. Non rammento di nessun dirigente o primario o docente universitario rimosso o mandato a casa per assenza di risultati e, quel che è più grave nessuno ne parla.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén