La laurea è la condizione necessaria per partecipare ad alcuni concorsi nel pubblico impiego e per accedere agli albi delle professioni regolamentate. Oltre a stabilire alcuni livelli minimi di inquadramento nel settore privato. Ma la selezione è sempre determinata da un mix tra valutazione degli studi e prove specifiche, più o meno formalizzate. Abolire il valore legale del titolo di studio significa ampliare la discrezionalità. Con effetti che possono essere tutt’altro che positivi. Anche la competitività tra atenei si può raggiungere con altri strumenti.
Riportiamo opinioni diverse, già espresse su queste pagine.
Molte delle polemiche relative al “valore legale” della laurea, e alla sua eventuale abolizione, si basano su una analisi errata, o comunque incompleta, del significato di tale termine.
Condizione necessaria, ma non sufficiente
La laurea è solo la condizione necessaria (e non sufficiente) per partecipare ad alcune selezioni concorsuali, o analoghe, nel pubblico impiego, nonché, nei casi delle professioni regolamentate, per accedere alle procedure di ammissione ai relativi albi. Nella contrattazione nazionale relativa allimpiego privato, inoltre, può essere presa in considerazione al fine di stabilire alcuni livelli minimi di inquadramento per chi ne è in possesso.
Di per sé, il valore legale è solo questo. Peraltro, spesso decreti o circolari (per il pubblico impiego) e normative degli ordini (per le professioni) sono andati ben oltre, attribuendo un peso determinante agli aspetti formali del titolo posseduto (la denominazione esatta, la votazione in centodecimi). La discussione deve allora, anzitutto, individuare queste forzature.
Tutte le procedure di assunzione combinano, comunque, una parte connessa al curricolo degli studi con una valutazione ad hoc, normativamente formalizzata (pubblico impiego e professioni) o determinata da regole interne (impiego privato). Questultima è sempre presente, ed è per questo che il titolo di laurea non è mai condizione sufficiente. Variano, peraltro, il peso attribuito alle due parti e anche le modalità con le quali i risultati degli studi vengono considerati. Il discorso deve essere perciò molto articolato.
Ho parlato di risultati degli studi, e non di “titolo di studio”, perché le informazioni che si possono utilizzare sono molto più ampie che non la mera votazione di laurea. Si può considerare il peso che hanno avuto nel curricolo alcune aree di studio particolarmente rilevanti ai fini delle competenze richieste, nonché le specifiche valutazioni ottenute in tali aree; si può considerare il tempo impiegato; si può considerare la stessa votazione finale non in assoluto, ma comparativamente (confrontandola con il voto medio, o equivalentemente collocandola nei quartili relativi alla distribuzione delle votazioni).
Del tutto negativa è invece la specificazione troppo esclusiva della denominazione del titolo di laurea. Nel vecchio ordinamento le denominazioni erano introdotte legislativamente, e non si contano i casi in cui pressioni corporative hanno ottenuto “leggine” con nuove dizioni (attivate magari solo in una o in pochissime università), con la riserva di alcune funzioni ai laureati specifici; iniziava poi la trafila delle equipollenze. Nel nuovo ordinamento fa testo non la denominazione data dallateneo bensì la “classe”, ed è già meglio; la determinazione delle classi, peraltro, è dovuta quasi sempre alla volontà di caratterizzare aree accademiche, non profili professionali, sicché esse hanno in molti casi alti indici di sovrapposizione tra loro. La riserva di diritti ai laureati di una classe e non di unaltra è allora immotivata. Sia per il pubblico impiego, sia per le professioni regolamentate, la pretesa di specifiche denominazioni corrisponde alla volontà di chiudere corporativamente; la battaglia per aprire significa puntare allampliamento dei titoli ammessi.
Selezione senza il valore legale
La selezione, dunque, è sempre determinata da un mix tra (a) valutazione degli studi e (b) prove specifiche, più o meno formalizzate (elaborati scritti, test, colloqui, stage). La cancellazione del valore legale significherebbe che chiunque può presentarsi, sicché chi determina e valuta gli elementi (b) ha pieni poteri; gli effetti possono essere tuttaltro che positivi.
Si pensi al pubblico impiego. Leggine e contratti hanno spesso consentito che nei concorsi interni il titolo di studio fosse sostituito da anzianità di servizio. In altri casi, si sono stabilizzate posizioni precarie per le quali inizialmente non era stato richiesto il titolo. In altri ancora, senza giungere allestremo dellassenza del titolo, i bandi hanno fatto pesare poco (a), favorendo con (b) una ampia discrezionalità. In tutte queste situazioni la qualità dellamministrazione non è certo migliorata.
Lidea di dare pieni poteri al clientelismo nellassunzione nelle pubbliche amministrazioni e al corporativismo nellaccesso alle professioni deve perciò spaventare. Senza giungere agli estremi più deplorevoli, e considerando anche limpiego privato, è comunque difficile ritenere che le informazioni acquisite tramite prove episodiche organizzate ad hoc o colloqui possano sostituire del tutto – anziché, come è sacrosanto, integrare – la ricchezza di valutazioni e la pluralità di giudici che sta dietro un curricolo di studi.
I sostenitori dellabolizione del valore legale della laurea motivano la loro posizione, prevalentemente se non esclusivamente, con un richiamo alla competitività tra gli atenei: senza la rendita di posizione determinata dal valore legale, dicono, ci sarebbe un impulso a puntare sul livello, sulla qualità, per acquistare prestigio. Lobiettivo è più che apprezzabile, ma gli strumenti ai quali ricorrere sono altri: meccanismi di valutazione, procedure di accreditamento, parametri per il finanziamento.
Un contributo essenziale può derivare dalla trasparenza, dallampia pubblicità da dare agli esiti conseguiti dai laureati delle diverse sedi. Se AlmaLaurea fosse generalizzata alla totalità delle università italiane, e tutti sapessero quali sono i risultati raggiunti dai laureati dellateneo A o dellateneo B, della classe di laurea X o di quella Y, si avrebbe uno stimolo non solo alla competitività, ma anche a un migliore orientamento dei giovani: obiettivo importante altrettanto, e forse più.
Quanto qui si è detto richiede non facili slogan, ma una strategia coerente e impegnativa. Ancora una volta, vale la battuta secondo la quale si possono anche ipotizzare soluzioni semplici per i problemi complessi, ma si tratta abitualmente di ipotesi stupide.
Il disegno di legge sulluniversità approvato dal Senato (a) introduce concorsi nazionali didoneità per professore associato e ordinario, (b) obbliga le università a ricoprire i posti di ruolo mediante chiamata di idonei con procedura localmente determinata e pubblicità degli atti, (c) obbliga ogni professore a insegnare almeno 120 ore lanno, (d) consente alle università di dotarsi di un corpo docente composto di non idonei (giovani ricercatori o soggetti qualificati) mediante contratti triennali di diritto privato rinnovabili di durata fino a un massimo di sei anni, (e) abolisce il ruolo di ricercatore a decorrere dal 2013.
Un risultato deludente
Gli incentivi per migliorare la qualità della ricerca e della didattica sono carenti. Una precedente versione del decreto prevedeva listituzione di un sistema nazionale di valutazione dei docenti, incluso il blocco della progressione di carriera per chi fosse valutato negativamente. Questa parte è assente nel Ddl approvato dal Senato.
Si persevera in un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei giovani e degli esterni, istituendo (nel comma 4 sub b) concorsi riservati ai professori con più di quindici anni di servizio.
Si fa poco per garantire una retribuzione adeguata a chi accede alla carriera accademica. Molti giovani sono giustamente preoccupati che lintroduzione dei contratti di diritto privato, al posto dellassunzione con contratto pubblico, significhi abbassare i livelli retributivi e aumentare i rischi per chi scegli la carriera accademica. Da questo punto di vista, il disegno di legge non offre assicurazioni. In esso è detto che “(…) il trattamento economico di tali contratti, rapportato a quello degli attuali ricercatori confermati, è determinato da ciascuna università nei limiti delle compatibilità di bilancio e tenuto conto dei criteri generali definiti con decreto del Miur, di concerto con il ministero dellEconomia e delle finanze, sentito il ministro della Funzione pubblica”. Non è chiaro quali siano i margini di autonomia degli atenei nella determinazione del trattamento economico dei contrattisti.
Si propone il ritorno al concorso nazionale, sia pure nella diversa formulazione di “concorso per idoneità”, con il rischio di rendere lente e farraginose le procedure per limmissione in ruolo. La soppressione degli attuali meccanismi concorsuali era assolutamente necessaria. Essi hanno causato una promozione generalizzata dei docenti alle fasce superiori (da ricercatore ad associato e da associato a ordinario) mediante accordi poco trasparenti tra commissari. Tuttavia, il ministro avrebbe fatto meglio a concedere completa autonomia agli atenei sulle assunzioni in ruolo, cercando, nel frattempo, di condizionare i finanziamenti ministeriali a severi criteri qualitativi basati sulla produzione scientifica e sulla didattica. Lesempio del Regno Unito poteva offrire spunti interessanti.
Le cose da fare urgentemente
La verità è che le leggi nazionali servono a poco. La crisi delluniversità italiana (scarsa produttività scientifica, basso numero di laureati e alti tassi di abbandono, distribuzione inefficiente dei docenti tra sedi e discipline, invecchiamento progressivo di professori e ricercatori, progressioni automatiche di carriera) dipende dalla mancanza di incentivi e da una mentalità assistenziale. Questultima è alimentata dal valore legale della laurea, dalla dipendenza finanziaria degli atenei e dai troppi vincoli legislativi.
Il Governo avrebbe dovuto puntare su pochi obiettivi fondamentali: (a) eliminare i tetti alle tasse di iscrizione costringendo gli atenei a reperire più fondi sul mercato; (b) compensare questa misura con lintroduzione di borse di studio (o “voucher”) basate sul merito e sul reddito; (c) determinare i finanziamenti alle università sulla base di parametri di produttività ed efficienza; (d) abolire il valore legale della laurea; (e) concedere agli atenei completa autonomia in merito ai trattamenti retributivi e ai criteri di assunzione.
Critiche sbagliate
Se il Ddl Moratti delude, non meno deludente è la reazione del corpo accademico.
La Conferenza dei rettori (Crui) si oppone strenuamente a questa legge, insieme alle associazioni dei ricercatori e ai sindacati. Si afferma, principalmente, che il ruolo di ricercatore non dovrebbe essere soppresso, che il ricorso a contratti di diritto privato a tempo determinato produrrebbe uno scadimento della qualità della ricerca o dellinsegnamento e si chiedono a gran voce lintroduzione di una terza fascia di docenza e “adeguati finanziamenti”.
Lintroduzione di una terza fascia di docenza non risolve alcun problema. Al contrario, la soppressione del ruolo di ricercatore dovrebbe essere accolta con favore. Infatti, lassunzione a tempo indeterminato (il posto a vita) per chi deve ancora dimostrare capacità di ricerca e non è sottoposto ai “normali” obblighi didattici, è unanomalia assoluta nel panorama internazionale. Un periodo di prova per i neo assunti, prima di una stabilizzazione definitiva, è prassi comune in qualunque settore economico e in qualunque università del mondo.
Le garanzie offerte dal contratto pubblico a tempo indeterminato ha leffetto perverso di fornire un alibi alle commissioni di concorso per favorire i candidati anziani. Dato che i contratti dei ricercatori non hanno termine, non “costa” molto bocciare un giovane ricercatore bravo in cambio della promozione di un ricercatore anziano e meno bravo. Infatti, il ricercatore bravo, proprio perché giovane, potrà sempre aspettare il prossimo concorso e godere, nel frattempo, degli aumenti automatici di stipendio. Tutto ciò implica fatalmente laumento delletà media dei ricercatori e la scarsità di posti per i giovani. Secondo i dati del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, nel 2001 il 47 per cento dei ricercatori aveva più di quarantacinque anni. Molti di essi svolgono una pesante attività didattica nella speranza di ottenere una promozione, molti altri (generalmente i più anziani) non hanno più ambizioni di carriera e frequentano poco le aule universitarie. In entrambi i casi è palesemente tradito lo spirito della legge che istituiva la figura del ricercatore. Questultimo doveva essere giovane, prevalentemente impegnato nella ricerca e in transito verso lo stato di professore universitario.
Inoltre, siamo proprio sicuri che i nostri organi accademici abbiano a cuore la valorizzazione e la permanenza della figura del ricercatore? Tra il 1998 e il 2004, la quota dei ricercatori è passata dal 40,1 al 37,2 per cento, mentre la quota dei professori di prima fascia dal 24,9 al 31,2 per cento. In termini assoluti, dal 1999 al 2003 il numero di professori di prima fascia è aumentato del 39 per cento. Il 90 per cento di queste promozioni sono avvenute “in sede”, cioè hanno riguardato docenti che erano associati nella stessa università dove sono diventati ordinari. Ciò vuol dire che le promozioni non hanno dato luogo allofferta di corsi aggiuntivi e non erano motivate dalla necessità di migliorare la produzione scientifica. In altre parole, i rettori hanno colpevolmente utilizzato la propria autonomia per accontentare i docenti dei propri atenei chiudendo le porte a chi sta fuori.
Chiedere più soldi?
In Italia lo Stato spende, per gli studi universitari, una quota del Pil inferiore alla media dei paesi Ocse. Tuttavia, un esame attento dei dati rivela che i problemi delluniversità italiana non derivano dalla mancanza di fondi.
Innanzitutto, bisogna notare che la spesa per studente (per la formazione universitaria) in Italia è solo leggermente inferiore a quella di altri paesi Ocse, dove la qualità della formazione e della ricerca è senza dubbio superiore. Secondo i dati Ocse del 2003, lItalia spende circa 8mila dollari contro gli 8.300 della Francia, i 9.600 del Regno Unito e i 10.800 della Germania (valori espressi in parità di potere dacquisto).
In secondo luogo, lItalia spende male. La spesa totale per listruzione universitaria per ogni laureato nel 2001 era pari a 55.964 euro in Italia, contro i 26.937 della Francia e i 30.072 del Regno Unito. Nello stesso anno, la spesa per ogni dieci pubblicazioni scientifiche era pari a 36.878 in Italia, contro i 32.397 della Francia e i 27.573 del regno Unito. Una riforma del sistema universitario italiano dovrebbe dunque partire dal riconoscimento che non si tratta di aumentare i finanziamenti, quanto rifondare i meccanismi organizzativi.
La morale di questa storia è che la gestione autonoma delle risorse da parte degli atenei è principalmente guidata da interessi corporativi. I senati accademici e i consigli di facoltà, organi perfettamente democratici ed elettivi, rispondono principalmente agli interessi dei professori universitari, e le decisioni non sono disciplinate da criteri di efficienza.
Il disegno di legge Moratti fa poco per risolvere questo problema, ma i documenti della Crui sembrano ignorare totalmente la questione.
La “fuga dei cervelli” dallItalia ha recentemente trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani ed è stata ampiamente confermata da numerose analisi statistiche. Tuttavia, ciò che forse dovrebbe fare riflettere maggiormente è che quasi nessun ricercatore straniero è attratto dal nostro paese. Nei corsi di Dottorato Italiani soltanto il 2% degli studenti proviene dallestero e, in tutto, meno di 3,500 persone provenienti da altri paesi dell’Unione Europea lavorano nel settore scientifico-tecnologico in Italia. Nel Regno Unito (e risultati simili valgono per altri paesi europei) il 35% degli studenti nei corsi di Ph.D. sono stranieri e piu di 42,000 cittadini della U.E. (non Britannici) lavorano come ricercatori in quel paese.
Il nostro obiettivo in questo contributo (che si basa su Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti, 2005) e di illustrare tre punti fondamentali. Primo, mostrare che contrariamente ad una interpretazione diffusa – un analisi corretta dei dati bibliometrici rivela che la qualita della produzione scientifica Italiana e modesta. Secondo, discutere come lattuale sistema di remunerazioni e carriere induca incentivi sbagliati e allontani i “talenti”. Terzo, formulare una proposta di riforma a costo zero che modifichi profondamente il sistema di incentivi attuali.
Produttivita Scientifica dei Ricercatori Italiani
La prima e la seconda colonna della Tavola 1 mostrano il numero medio di pubblicazioni e di citazioni per ricercatore (nei settori di Scienza e Ingegneria) durante il periodo 1997-2001 (i dati sul numero dei ricercatori si riferiscono al 1999). LItalia risulterebbe avere un rapporto “pubblicazioni / ricercatore” e “citazioni / ricercatore” tra i piu alti in assoluto (si vedano le colonne 1 e 2 della Tavola 1). Questi risultati, apparentemente incoraggianti, sono stati ampiamente citati nella stampa italiana, in particolare nella risposta del ministro Moratti ad un articolo di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 22 Novembre 2004. Cè tuttavia qualcosa di strano in questi dati: gli Stati Uniti appaiono agli ultimi posti di questa classifica un risultato assai implausibile. Il mistero è facilmente svelato: la definizione di ricercatore include una varietà di figure professionali, ma le pubblicazioni scientifiche provengono per la maggior parte da una sola di queste figure: i ricercatori accademici. Essi sono una maggioranza nei paesi sud europei inclusa l Italia, ma sono una minoranza (e molto piccola negli Stati Uniti) in quasi tutti gli altri paesi. Quando al denominatore usiamo i ricercatori accademici lItalia ha rapporti “pubblicazioni / ricercatore” (colonna 4) e “citazione / ricercatore” (colonna 5) ben inferiori agli USA, ma anche a Regno Unito, Olanda e Danimarca.
Una misura della qualità, anziché della quantità, di pubblicazioni è data dal loro fattore di impatto, cioè dal numero di citazioni che essa riceve. La colonna 6 della Tabella 1 mostra il numero medio di citazioni per lavoro pubblicato nel periodo 1997-2001. LItalia ha un valore simile alla Francia, e superiore solo a Spagna e Portogallo.
Retribuzioni
Il sistema retributivo italiano ha tre caratteristiche. Primo, la progressione retributiva dipende quasi esclusivamente dall anzianità di servizio: all’interno di ciascuna categoria di docenza (Ricercatore, Associato, Ordinario), la produttività è completamente irrilevante per la determinazione del salario. Le analisi di Daniele Checchi (1999) di Roberto Perotti (2002) mostrano chiaramente che il numero di pubblicazioni ha uninfluenza marginale nelle decisioni di promozione di categoria. Secondo, il profilo temporale della progressione salariale è molto “ripido”: si guadagna poco a inizio carriera, ma l anzianità viene remunerata molto bene. Consideriamo un giovane che diventi ricercatore a 25 anni, associato a 35 anni e ordinario a 45 anni: tra inizio e fine carriera il suo salario aumenta di un fattore pari a 5, sostanzialmente per effetto della sola anzianita (vedi Tabella 2).
Terzo, per effetto di questa progressione, e contrariamente ad una credenza assai diffusa, un ordinario italiano con 35 annni di anzianità è ben pagato anche rispetto ai suoi colleghi statunitensi. Come si vede confrontando la Tabella 2 con la Tabella 3, egli riceve un salario superiore a quello dell 80 percento dei professori ordinari nelle migliori università statunitensi (quelle con un programma di PhD), e superiore a quello del 95 percento degli ordinari nelle università con al più un corso di master (la stragrande maggiornaza delle università americane).
Il sistema retributivo dei docenti universitari negli Stati Uniti segue regole assai diverse. Il salario è negoziato individualmente, ed è quindi funzione delle opportunità di lavoro alternative, cioè, essenzialmente, dalla produttività di un professore. In conseguenza, a qualsiasi livello di anzianità la dispersione salariale è molto elevata (mentre in Italia è nulla). Ad esempio il rapporto tra i salario massimo (113,636 euro nelle piu prestigiose università con corsi di Ph.D.) e minimo (27,273 euro in un community college) di un assistant professor (ricercatore) è pari a circa 4.2. E un assistant professor di 25 anni molto produttivo e promettente può benissimo guadagnare ben più di un ordinario a fine carriera ma poco produttivo. Daltro canto, la progressione salariale in carriera è sempre ancorata alla produttività scientifica e non così accentuata come in Italia: a fine carriera un ottimo professore guadagna tra 1.5 e 2 volte il suo salario iniziale.
Questa è esattamente la struttura salariale che ci si apetterebbe se il salario fosse usato come strumento per incentivare la produttività e per premiare gli anni di ricerca più produttivi, che tipicamente sono quelli da inizio fino a metà carriera.
Proposte per una Riforma
La causa principale dei problemi dell università italiana non è dunque la mancanza di fondi, bensì lesistenza di meccanismi sbagliati di distribuzione delle risorse. Le nostre proposte sono quindi volte a modificare il sistema di incentivi in modo che, a parità di risorse, nell’accademia italiana venga premiata l’eccellenza scientifica secondo parametri condivisi dalla comunità internazionale. Il nostro lavoro “Lo Splendido Isolamento dell Università Italiana” discute queste proposte in maggiore dettaglio.
1. Liberalizzare le retribuzioni del personale accademico.
2. Liberalizzare le assunzioni: ogni università assume chi vuole e come vuole; di conseguenza, è abolito l’attuale sistema concorsuale.
3. Liberalizzare i percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole.
4. Liberalizzare completamente la didattica: ogni università è libera di organizzare i corsi come vuole e di offrire i titoli che preferisce.
5. Liberalizzare le tasse universitarie: ogni università si appropria delle tasse pagate da i propri studenti.
6. In alternativa alla proposta precedente, mantenere il controllo pubblico sulle tasse universitarie aumentandole però considerevolmente.
7. Utilizzare i risparmi statali così ottenuti per istituire un sistema di vouchers, borse di studio e prestiti con restituzione graduata in base al reddito ottenuto dopo la laurea.
8. Allocare ogni eventuale altro finanziamento statale alle università in modo fortemente selettivo sulla base di indicatori di produttività scientifica condivisi dalla comunità internazionale.
9. Consentire l’accesso a finanziamenti privati senza limitazioni.
10. Abolire il valore legale del titolo di studio.
Tabella 1. La produttività e la qualità dei ricercatori italiani
pubblicazioni / ricercatori tot |
citazioni / ricercatori tot
Ricercatori accademici / ricercatori tot
pubblicazioni / ricercatori accademici
citazioni / ricercatori accademici
impact factor
medio
impact factor
standardizzato
1
2
3
4
5
6
7
USA
1.00
8.60
0.15
6.80
58.33
8.57
1.48
Germania
1.25
8.64
0.26
4.77
32.98
6.91
1.33
Regno Unito
2.17
15.86
0.31
6.99
51.00
7.30
1.39
Francia
1.45
9.43
0.35
4.09
26.68
6.52
1.12
Italia
2.26
14.81
0.38
5.88
38.57
6.56
1.12
Spagna
1.68
9.09
0.55
3.06
16.54
5.41
.97
Portogallo
0.86
3.99
0.52
1.65
7.62
4.62
.82
Danimarca
1.96
15.57
0.30
6.50
51.56
7.93
1.48
Olanda
2.29
18.79
0.31
7.41
59.58
8.20
1.39
Canada
1.68
11.79
0.33
5.04
35.28
7.00
1.18
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Definizioni: Colonna 6: impact factor: definito come numero totale di citazioni / numero totale di pubblicazioni, entrambe per il periodo 1997-2001;. Colonna 7: impact factor standardizzato, 2002; vedi testo per la definizione.
Fonti: Pubblicazioni e citazioni: King (2004), dati riferiti agli anni 1997-2001; Impact factor standardizzato: King (2004), dati riferiti al 2002; Numero di ricercatori: OECD, Main Science and Technology Indicators database, dati 1999 (1998 per Regno Unito). Il numero di ricercatori è espresso in unità full time equivalent.
Tabella 2. Distribuzione dei salari accademici in Italia
Anzianità di servizio in anni |
Professore Ordinario
a tempo pieno
Professore Associato
a tempo pieno
Ricercatore
a tempo pieno
0 (non conf.)
47631
36053
20225
3
50412
37999
29244
5
54207
40684
31150
7
56900
42596
32516
9
60696
45280
34422
11
63388
47192
35788
13
67184
49876
37694
15
70979
52560
39601
17
73968
54683
41117
19
76957
56806
42633
21
79946
58928
44149
23
82935
61051
45665
25
85924
63174
47181
27
88913
65296
48698
29
91902
67419
50214
31
94891
69542
51730
33
96735
70851
52665
35
98578
72160
53600
37
100421
73469
54535
39
102264
74778
55470
Media
77242
57020
42415
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati aggiornati all’anno 2004. La tabella riporta il salario annuo in euro al lordo delle tasse per le tre categorie di docenti italiani al variare della anzianità di servizio, secondo la tabella elaborata dal CNU di Bari e pubblicata sul sito http://xoomer.virgilio.it/alpagli/. Poiché non disponiamo della distribuzione dei docenti italiani per anzianità, le retribuzioni medie nell’ultima riga sono calcolate ipotizzando una distribuzione uniforme.
Tabella 3. Distribuzione dei salari accademici negli Stati Uniti
Università con corsi undergraduate e corsi di dottorato |
Università con corsi undergraduate
e corsi di master
College senza corsi graduate
Percentile
Full
Associate
Assistant
Full
Associate
Assistant
Full
Associate
Assistant
1
49,091
38,182
30,909
41,818
34,545
29,091
36,364
29,091
27,273
5
56,364
43,636
36,364
47,273
40,000
32,727
41,818
34,545
32,727
10
68,969
52,678
44,994
53,526
44,728
38,386
42,749
37,871
32,906
20
73,139
55,133
46,742
56,721
47,005
40,217
47,956
40,698
35,404
30
77,091
57,091
48,378
59,075
48,733
41,338
51,109
42,951
37,047
40
79,738
58,875
50,493
61,465
50,515
42,336
53,589
44,857
38,552
50
83,820
61,747
51,825
63,913
51,879
43,435
56,944
46,835
39,592
60
89,466
63,622
54,266
66,523
53,535
44,788
59,843
48,796
40,931
70
94,616
65,989
55,896
70,540
55,623
46,265
63,037
50,730
42,147
80
98,730
69,816
58,476
75,203
58,567
48,661
67,198
53,529
44,383
90
108,003
73,599
63,804
81,060
63,645
51,465
78,941
59,007
48,832
95
119,212
79,177
65,953
86,323
66,372
53,279
86,854
64,672
51,373
99
195,455
122,727
113,636
122,727
92,727
80,000
122,727
83,636
69,091
Media
91,529
62,400
53,251
69,193
54,555
45,417
65,293
50,392
41,901
Da Gagliarducci, Ichino, Peri e Perotti (2005).
Nota: Dati riferiti all’anno accademico 2003-04. La tabella riporta i percentili in euro della distribuzione del salario annuo al lordo delle tasse per i Full Professor, gli Associate Professor e gli Assistant Professor in tre categorie di università degli Stati Uniti. La fonte è il rapporto della AAUP (2004), in particolare le Tabelle 4, 8 e 9a. I dati si riferiscono a 1446 università per un totale di 1775 campus. Per la conversione della valuta abbiamo utilizzato il tasso di cambio corretto per Purchasing Power Parity pari a 1.11 dollari per euro.
Bibliografia:
Checchi, D., 1999, Tenure. An Appraisal of a National Selection Process for Associate Professorship, Giornale degli Economisti ed Annali di Economia, 58 (2), 137-181.
Gagliarducci S., A. Ichino , G.Peri e R. Perotti (2005) “Lo Splendido Isolamento dell Universita Italiana” Working Paper, Fondazione Rodolfo De Benedetti, Milano,
www.igier.uni-bocconi.it/perotti.
Kalaitzidakis P., Stengos T. e Mamuneas T.P., 2003,
Rankings of Academic Journals and Institutions in Economics, Journal of the European Economic Association, 1 (6), 1346-1366.
Perotti, R., 2002, The Italian University System: Rules vs. Incentives, www.igier.uni-bocconi.it/perotti
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B Veronese
Vorrei soffermarmi su un particolare aspetto di questa discussione. Ritengo ci sia un problema notevole legato all’uso diffuso del voto di laurea come criterio di selezione per l’ingresso nel mercato del lavoro. Mentre all’apparenza sembra un criterio “quantitativo”, e percio’ idoneo a limitare arbitri e quindi, da questo punto di vista, equo, e’ in realta’ un criterio assurdo. Ho completato gli studi un poco meno di 10 anni fa, ma ricordo chiaramente statistiche (particolarmente per lauree in economia e scienze politiche) che dimostravano come un dato voto (per esempio 110) fosse conseguito da meno del 10 per cento degli studenti di un certo corso di laurea e da percentuali anche triple altrove. Con queste distribuzioni di voti non ha semplicemente senso escludere da bandi di concorso studenti che han fatto meglio del 90 per cento dei loro colleghi ed includere studenti che han ottenuto voti peggiori 30 per cento di altri studenti nello stesso corso e nelle stesse materie. Va notato che questi criteri di selezione sono ubiquitari anche per l’assegnazione di borse di studio per la formazione post laurea e quindi finiscono coll’influire sul mercato del lavoro anche in questo modo. Il voto di laurea e’ un falso convogliatore di informazione e con l’attuale ampia divergenza in voti medi tra facolta’ e universita’ e’ un mezzo assai iniquo di selezionare candidati a posti di lavoro (solitamente appetibili) e borse di studio. Le statistiche sulle medie dei voti per università e per facoltà esistono, non sarebbe ora di usarle? Non si potrebbe almeno ragionare in termini di percentuali? Nel Regno Unito i risultati di coorti di studenti (pre-università) sono tema da prima pagina. Lo stesso problema vige per i voti di maturità usati come mezzo per escludere laccesso a certi studi universitari o come uno degli elementi di valutazione per tale accesso. Se ci sono test di ingresso il voto non dovrebbe semplicemente essere un elemento necessario alla valutazione.
La redazione
Come per altri commenti, non vi sono qui obiezioni a quanto ho scritto, anzi vi è una conferma alla tesi di fondo: condizione necessaria, non sufficiente.
Renzo Rubele
…
Mi limito a suggerire, per la discussione, di chiedere ai fautori dellabolizione che cosa si dovrebbe modificare, in quali leggi e/o regolamenti per attuare il loro precetto, mentre ai fautori del mantenimento se hanno per caso conoscenza di Paesi in cui non esiste codesto valore legale, e se tali Paesi siano una Sodoma culturale, come pare essi alludano.
Il polverone serve a coprire una piu precisa individuazione delle caratteristiche patologiche del nostro sistema universitario; e.g.:
1) FORMALISTICO E PERPETUO ACCREDITAMENTO DELLE UNIVERSITA’.
La qualifica di Universita’ e data a seguito o di una legge che la istituisce, o di un giudizio Ministeriale, in base a criteri puramente formali della sua organizzazione, che non catturano necessariamente e fattualmente gli standard e la qualita’ dellattivita’ accademica.
2) OMOLOGAZIONE DEL SISTEMA UNIVERSITARIO.
Le Universita’ dovrebbero avere una propria specifica missione, adeguata alle proprie capacita’ e ai bisogni degli utenti-studenti, da selezionare con esami di ammissione.
3) CONDIZIONI DI IMPIEGO DEL PERSONALE ACCADEMICO STABILITE PER LEGGE.
La gestione del personale, elemento essenziale di una qualsiasi organizzazione, rimane affidata alle trattative politico-parlamentari anziche a dei bei contratti, in parte collettivi e in parte individuali.
4) GOVERNO DELLE UNIVERSITA’.
In balia dei lavoratori della stessa. Una tragedia. Per qualsiasi decisione seria.
Per i finanziamenti: bisognerebbe creare Enti indipendenti dal Governo e dal “controllo democratico” dei beneficiari.
La redazione
Posso condividere parecchie tra queste considerazioni, che comunque non sono obiezioni al mio intervento.
Michele Costabile
Le argomentazioni di Luzzato hanno una forte coerenza interna ma segnano una “gabbia cognitiva”. Evidenzio alcune delle principali “sbarre” della gabbia.
1) La gabbia della cooptazione. Tutte le organizzazioni e, piu’ in generale, le economie di mercato vivono, prosperano e generano valore mediante processi di cooptazione. Qual è il reato di chi coopta? Ben vengano dottori commercialisti, ingegneri o medici che cooptano i loro colleghi (del resto già lo fanno con i testi d’esame di stato, con le correzioni, ecc. ecc.)….non sarebbe meglio spendere le nostre energie istituzionali a produrre sistemi di rating (ancorché fallibili e per definizione migliorabili) dei professionisti, invece che tentare – inutilmente – di bloccare la cooptazione? Suvvia pieghiamo questa sbarra! E diamo finalmente un ruolo agli ordini professionali.
2) La sbarra della deresponsabilizzazione nella PA. Perché mai i dirigenti della PA, che ai massimi livelli sono tutti cooptati – spoil system – non dovrebbero assumersi la responsabilità di scegliere il loro personale e valutare con adeguati sistemi di rating le università da cui assumere? Sono dirigenti chiamati in via diretta, ben pagati e, almeno sulla carta, competenti…..perche’ mai dovremmo dare loro la malleveria del titolo con valore legale?
3) la sbarra della legalità: Perché non limitarsi a garantire (certificare) il valore del titolo? Un buon sistema di rating si puo’ sviluppare in tempi brevi (basta guardare agli altri paesi europei, ad alcuni paesi orientali e ad alcuni africani che si stanno muovendo in questa direzione). Se il Ministero preposto evitasse tentazioni stataliste (dopo il numero degli esami nel triennio vorra’ anche stabilire per legge uno standard di numero di pagine per esame?) potrebbe investire le sue energie a comunicare il valore vero dei titolo e questa volta la comunicazione sarebbe legge.
La redazione
Su 1): Il sistema italiano degli Albi professionali è sotto inchiesta per vari motivi, e vogliamo dargli potere di vita e (soprattutto) di morte sugli ingressi? Su 2): Ribadisco che non si tratta di dare diritti automatici a chi ha una laurea, ma di evitare che chi non la ha possa venir favorito. Su 3): La presenza del valore legale non esclude affatto rating etc. Peraltro, lesperienza degli altri Paesi dimostra che da quando si inizia un sistema nazionale di valutazione a quando esso diviene affidabile passa un decennio: ottimo motivo per cominciare subito, senza però attendersi risultati immediati. Quanto al numero di esami, ben venga una regola: in troppi casi si sono frantumati gli insegnamenti per le esigenze dei professori, non degli studenti (ai quali vanno dati corsi solidi e formativi, non parcellizzazioni di nozioni).
gianmaria picardo
Sempre più si parla di lasciare liberi i mercati, che la concorrenza è l’unico rimedio per crescere e per un mercato efficiente ed equilibrato. Mi chiedo se questa regola vale per tutti i mercati, compreso quello dei concorsi pubblici oppure no.
In un’agenzia govenativa che fa previsioni e ricerche economiche, con sede a Roma, ha svolto un concorso da ricercatore a tempo indeterminato, molti si chiederenno quante persone hanno partecipato, visto i tempi in cui per un ricercatore con dottorato , master e anni all’estero è difficile incontrare lavoro in Italia, ebbene c’erano solo due persone, le quali erano gia’ interne al sistema.
Mi chiedo come mai non si sono presentati? non sapevano di questo concorso? eppure le domande che sono arrivate erano tante. Forse perchè queste persone sapevano che , anche se hanno piu’ titoli e piu’ capacità, non potevano mai superare questo concorso.
Quindi perchè parlare di concorrenza , quando questa è solo una parola che esiste sullo zingarelli, se ancora esiste. Se continiuamo a fare concorsi in cui posso vincerli solo coloro che sono dentro e protetti da questo sistema, ci incontreremo con una classe dirigenti sempre piu’ immatura ed ignorante. Si perchè il concorso vinto oggi da ricercatore a tempo inderminato non si basa su una giusta elezioni entro candidati di diversa formazione, ma solo un candidato. come puo’ essere fatta una selezione con un solo candidato?
Perchè spendere soldi per una commisione che alla fine non fa nulla? forse era meglio che chiamano chi vogliono e gli fanno un contratto senza spendere tanti soldi e senza prendere in giro il popolo italiano.
La redazione
Qui si conferma che non affidare a chi seleziona una discrezionalità totale è opportuno.
Marco Solferini
La laurea possiede un valore intrinseco, ereditato nel tempo da chi indubbiamente le ha attribuito un valore forse ad oggi un pò imbarazzante alla luce delle statistiche che parlano di laureati “poveri”, ma questo non è di per se sufficiente a colpevolizzarla nel suo ruolo elitario di accesso a una determinata conoscenza e, in conseguenza, come atta a testimoniare un inizio per un percorso. Le difficoltà dei sistemi lavorativi sono molteplici, interne ed esterne, la formula alchemica del liberismo non può diventare una sorta di cura contro tutti i mali, occorre ragionare metodologicamente e con raziocinio, proporsi e sapere ascoltare; forse questo è in parte il limite delle attuali riforme che sembrano più interventi chirurgici orientati verso un determinato ambito anzichè una meritocratica rivisitazione, a partire da un principio.
Una domanda all’autore: cosa ne pensa dell’indagine sulle limitazioni alla concorrenza nell’accesso alle libere professioni, commissionata in ambito europeo dal Prof. Mario Monti?
La redazione
Rispondo con piacere: ritengo che il governo, sulla linea richiesta dallUnione Europea, debba andare molto più avanti dei pallidi inizi (comunque positivi) contenuti nel decreto Bersani. E lo debba fare non solo per la concorrenza, ma anche (anzi soprattutto) per dare chances ai giovani.
NakiraSan
Vorrei solo chiarire che in questo momento per gli ordini professionali che si trovano sotto tiro sotto vari fronti il problema del valore legale è fuori luogo. E’ chiaro che per accedere al tirocinio formativo obbligatorio è un requisito necessario ma in nessun modo viene valutato il voto, l’ateneo, il cursus studi, ma solo se il corso di laurea sia compatibile con la pratica professionale che si intende iniziare. Ancor meno quindi serve il valore legale per l’iscrizione ad un ordine professionale, è requisito essenziale ma non è la qualità che emerge.
La redazione
Come per altri commenti, non vi sono qui obiezioni a quanto ho scritto, anzi vi è una conferma alla tesi di fondo: condizione necessaria, non sufficiente.
Massimo Testa
La mia espeerienza personale:
Ho partecipato ad un concorso per una posizione di economista presso il Ministero delle Finanze del Nord Irlanda. La particolarità non è che sono riuscito a vincerlo (ho studiato, non ci sono raccomandazioni qui usano il termine canvassing che è punito penalmente). Il fatto interessante è che sono laureato in agraria. Mi è stato sufficiente dimostrare di avere le conoscenze necessarie per affrontare il lavoro per cui era stato bandito il concorso. Ecco cosa significa abolire il valore legale del titolo di studio.
La redazione
1°- In quanto Testa scrive è implicito (e quasi esplicito) che in Italia il canvassing cè (altri commenti lo esemplificano): perciò si conferma che non affidare a chi seleziona una discrezionalità totale è opportuno. 2° – Condivido che un laureato in agraria possa accedere a posizioni di economista: ho proprio scritto che è deplorevole restringere gli accessi (la pretesa di specifiche denominazioni corrisponde alla volontà di chiudere corporativamente; la battaglia per aprire significa puntare allampliamento dei titoli ammessi).
Richard Zuccolo
Sono italo-canadese (esperienze negli USA, UK, Olanda, Norvegia). Confermo i dati relativi alla pressochè totale assenza di professionisti, ricercatori, docenti stranieri nel settore scienza/teconologia in Italia, mentre in altri paesi (altri meccanismi di accesso, selezione e meritocrazia – trasparenti ed equi, in netto contrasto con quelli utilizzati in Italia) si incoraggia la partecipazione/integrazione di highly qualified foreign nationals. Da anni in diversi stati europei (Olanda, Belgio, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Germania, Svizzera) molte università offrono corsi, programmi di laurea, master e dottorati esclusivamente in lingua inglese. Anche questo è un modo per aprire un sistema alla ricchezza che può offrire la diversità delle risorse umane un sistema aperto. In un articolo apparso su Eos (87, June 2006), (Società Americana di Geofisica), gli autori hanno sottolineato che il sistema italiano: does not have a tradition of providing funding opportunities to foreign students and scientists; suffers from decades of bureaucracy driven by centralized structures, often strongly controlled by politics; the limited funds are often spread sparsely with little attempt to promote or prioritize projects based on merit; it is not easy or straightforward to obtain reliable information as to when or where the announcements that call for proposals will be published. Hanno anche segnalato la mancata trasparenza nei criteri e levidente conflitto dinteressi circa lassegnazione dei fondi ministeriali per la ricerca. Questo sono segnali forti di una sistema inefficiente, tradizionalista, chiuso e alquanto losco. Temo che per cambiare questo quadro sia necessario avere la volontà di avvicinarsi alla mentalità anglosassone nello sviluppo di certi modelli di crescita e quindi di eliminare meccanismi e sistemi ingiusti creati ad hoc. In questo contesto le proposte, per migliorare le cose, avanzate da Perotti et al. sono long overdue.
La redazione
Sono daccordissimo sulle critiche alla mancanza di attrattività per gli stranieri e di trasparenza (anche per gli italiani), nonché sullopportunità di molti corsi in lingua inglese (qualche università sta cominciando, ma vi sono resistenze allucinanti di colleghi affezionati al manzonismo degli stenterelli). Tutto questo non centra però con le questioni che ponevo nel mio intervento.
Loredana
L’abolizione del valore legale della laurea dovrebbe essere pensato soprattutto per gli utenti del sistema d’istruzione e non solo per i docenti.
Concordo col commento di Massimo Testa. Appartengo ad una generazione over 30 che assieme a molti altri ha intrapreso lo studio universitario in ritardo, lavorando. Si viene a confronto con generazioni passate, che comprovano la facilità di accesso nella P.A. e il cui titolo avente valore legale aiuta nel passaggio di carriera, a prescindere dal reale apprendimento.
Il valore della laurea deve oltrepassare il valore legale perché la laurea non deve essere passaporto per chi deve entrare nella PA o continuare lì la carriera, ma deve rappresentare un’insieme di apprendimenti teorici e pratici validi anche per il resto dei settori lavorativi, apprendimenti valutabili dai datori di lavoro in base a reale meritocrazia.
La redazione
Come per altri commenti, non vi sono qui obiezioni a quanto ho scritto, anzi vi è una conferma alla tesi di fondo: condizione necessaria, non sufficiente.
Giacomo Capizzi
La restrizione degli accessi non vale attualmente soltanto per laccesso al lavoro.
Il sistema del 3 + 2 avrebbe dovuto introdurre maggiori flessibilità nella carriera universitaria.
Ed invece la mia esperienza personale è che una volta ottenuta la laurea magistrale in giurisprudenza non mi sarà possibile accedere alla laurea biennale in relazione internazionali (nemmeno recuperando i dovuti crediti).
Al più mi sarà consentito liscrizione al corso triennale (con il riconoscimento degli esami giuridici) e una volta ottenuta la laurea triennale potrò iscrivermi alla biennale. Verso i trentanni se tutto va bene.
Ma non sarebbe più semplice abolire il divieto di iscrizione a più corsi di laurea (disposto da una legge del 49)?
Il successo o meno nel seguire due corsi di laurea dipenderà poi dalle capacità e dallimpegno degli studenti che non intendono perdere tempo.