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L’America è cambiata. O no?

Dopo le elezioni di mid-term, è cambiato molto, perché s’è arrestata l’onda reazionaria. Nello stesso tempo, è cambiato poco, perché l’ideologia conservatrice è viva e vegeta, come mostra la campagna elettorale dei democratici. Sull’Iraq dobbiamo aspettarci una politica di grandi annunci e pochi fatti. Non mancheranno però indagini sulle violazioni più palesi dei diritti umani. In economia, possibili modesti incrementi delle imposte. Certo invece un simbolico aumento del salario minimo federale. Ma la partita vera si gioca nel 2008, questa è stata solo l’ouverture.

Cos’è successo negli Stati Uniti la settimana scorsa? È successo molto: i repubblicani hanno perso il controllo del Parlamento. George W. Bush si è impegnato direttamente nella campagna elettorale, quindi la sconfitta significa che l’onda lunga reazionaria iniziata l’11 settembre 2001 ha cominciato a recedere. Uso qui la parola “reazionaria” per differenziare la forza politica che ha dominato il periodo 2001-2006 dal movimento conservatore, da cui si origina ma da cui è distinta. Alcuni slogan caratterizzano il movimento conservatore: “no alle tasse”, “no all’aborto” e “valori religiosi”. La sua variante reazionaria spinge questi temi all’estremo e vi aggiunge l’imperialismo in politica estera, la negazione delle libertà civili, e un connubio stretto fra esecutivo e grandi interessi economici, mentre non presta nessuna attenzione all’espansione del debito. Non v’è dubbio che la versione Bush-Cheney-Rumsfeld del movimento reazionario abbia perso le elezioni. Non è altrettanto ovvio che le abbia perse anche il movimento conservatore.

L’ideologia conservatrice resta

E’ successo poco: la maggioranza al Senato e’ di un seggio, ed almeno tre dei seggi democratici sono stati decisi da poche migliaia di voti. L’osservazione politica che tutti han fatto, e che condivido, dice che, guerra in Irak a parte, i Repubblicani hanno perso ma l’ideologia conservatrice rimane dominante. E’ stata adottata dal partito Democratico, eccezion fatta per l’opposizione all’aborto e timidi tentativi di dar supporto al matrimonio gay. Contrariamente alle cellule staminali, ovunque una proposizione contro il matrimonio gay fosse presente, l’approvazione e’ stata sostanziale. La maggioranza dei Democratici ha condotto una campagna improntata su Dio, Patria e Famiglia, a cui aggiungevano la Sconfitta e la Corruzione. Le condizioni da cui si parte non permettono grande liberta’ di manovra, sia in politica estera, che sul campo economico. Fra un anno riparte la campagna elettorale e rimane l’incubo del terrorismo musulmano. Un incubo ossessivo, quest’ultimo, per scongiurare il quale il cittadino americano e’ ancora disposto a molte cose strane, ma non piu’ a stare in Irak: quel film non e’ venuto bene. 

La questione “Medio Oriente”

L’Iraq, appunto. Forse su questo tema è successo il finimondo: i democratici con voce in capitolo hanno già dichiarato che vogliono immediatamente un piano di ritiro graduale delle truppe, da iniziare nel giro di quattro-sei mesi. Hanno il potere per farlo: basta tagliare i fondi, e questa è una prerogativa del Congresso. Quindi gli annunci di Carl Levin e compagnia potrebbero segnalare un cambio sostanziale nella politica Usa in Medio Oriente. Ma, forse, non è successo nulla. Indipendentemente dal giudizio che si possa dare sull’invasione del 2003, è chiaro che oggi una ritirata Usa potrebbe avere conseguenze disastrose per tutti: durerebbero almeno sino a novembre del 2008 e nessuno democratico vorrà correre tale rischio. Una politica di grandi annunci e pochi fatti è la miglior scelta per il partito democratico da qui sino alle prossime presidenziali: “Stiamo facendo il possibile per uscire dal vespaio e portare a casa i ragazzi, ma il disastro fatto dai repubblicani è tanto e tale che ci vorrà molto tempo. Aiutateci punendo i responsabili con il voto”.
Poi c’è Israele: piaccia o non piaccia, è uguale al 51 per cento della questione “Medio Oriente”. Anche su questo forse la settimana scorsa è successo molto, oppure nulla. Da un lato, il senatore democratico uscente per il Connecticut, Joe Lieberman, ha vinto da indipendente contro il suo compagno di partito Ned Lamont. Lieberman è forse l’esponente di punta della lobby pro-Israele, e un “falco” sull’Iraq e per questo perse le primarie democratiche. Però ha vinto alla grande un confronto caratterizzato da una sola domanda: con Lieberman e Israele in Iraq, o no? Dall’altro lato, Ehud Olmert, primo ministro d’Israele, è salito sul primo aereo per Washington per andare a controllare cosa fosse successo. Certo, John Bolton aveva appena frapposto il veto alla mozione di condanna del Consiglio di sicurezza Onu per l’ennesimo massacro di palestinesi, ma il futuro è complicato. In qualche modo la presenza statunitense in Iraq deve diminuire, e il dialogo con Siria e Iran va avviato, il che vuol dire un Iraq alleato degli avversari dello Stato israeliano. La politica della mano dura non ha funzionato in Iraq e non ha funzionato in Libano: il gioco del domino ora fa cadere pedine dal lato opposto. Che succede se la mano durissima Sharon-Olmert perde la copertura Usa? Se davvero gli Stati Uniti cercheranno il dialogo con Iran e Siria, la politica Usa nel Medio Oriente non si deciderà più a Tel Aviv.

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Il capitolo economia

Fra gli eletti del partito democratico, la propaganda “populist” è stata forte. “Populist” non ha necessariamente una connotazione negativa: indica politiche redistributive tradizionali, socialdemocratiche. Le promesse sono tante, quindi forse è cambiato molto, ma le opportunità sono poche, quindi forse è cambiato poco. La situazione debitoria non permette lussi per welfare, assistenza, sussidi di disoccupazione. È probabile che si dirotti verso queste politiche una parte di spesa militare, assieme a modesti aumenti delle tasse sui redditi più alti. Ma qui i democratici hanno un altro problema, la loro seconda anima: quella del Massachussetts, del Connecticut, della California, di New York. I repubblicani sono il partito dei molto ricchi, ma i democratici sono il partito dei benestanti, ovvero di quei 30 milioni di persone circa che guadagnano tra i 100mila e i 500mila dollari all’anno. Elettori preziosi, che non è saggio perdere perché sono rimasti fedeli anche durante gli anni più bui dello tsunami reazionario. Costoro vogliono non solo che le tasse non crescano e la spesa cali, ma anche che la tassa minima alternativa venga spostata sui redditi più alti. Infine, le linee guida dei democratici nel campo economico sono molto vicine a quelle che lo “Hamilton Project”, finanziato e ispirato da Robert Rubin, va proponendo da tempo.

Qualcosa cambierà

Cosa cambierà, dunque, da qui al 2008? Alla Corte suprema non saranno più nominati giuristi dell’estrema destra religiosa, ma moderati tradizionali. Non è cosa da poco ma, se ho fatto bene i conti, per qualche anno non ci saranno nomine alla Corte suprema, dovremo quindi accontentarci delle corti federali e di appello. Si ristabiliranno severi controlli parlamentari indipendenti sulle spese del Pentagono in Iraq e, forse, qualcuno nelle alte sfere finirà nei guai. Partirà un’indagine parlamentare sulla guerra: la spada di Damocle per forzare ciò che rimane dell’amministrazione Bush alla cooperazione, perché un bell’impeachment, se non del presidente almeno del vice, potrebbe far gola a molti in assenza di risultati concreti. Si smantellerà Guantanamo e, forse, si indagheranno alcune delle violazioni più palesi dei diritti umani. Si approverà una legislazione che permetta il finanziamento federale alla ricerca sulle cellule staminali. Il muro con il Messico non si farà e il flusso migratorio verrà affrontato in termini ragionevoli con Felipe Calderon. È possibile che arrivi qualche aumento d’imposta, e certamente vi sarà un simbolico aumento del salario minimo federale.
È cambiato molto, è cambiato poco? È cambiato molto, perché s’è arrestata l’onda reazionaria. È cambiato poco, perché l’ideologia conservatrice è viva e vegeta. La partita vera si gioca tra qui e il 2008, questa è stata solo l’ouverture.

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Sommario 10 novembre 2006

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Stabili per legge?

  1. arrigo boero

    Egregio professore,
    condivido la sua lettura della situazione politica USA, operando pero’ un marginale distinguo.
    Mi sembra assai riduttivo risolvere il partito repubblicano ad una generica istanza conservatrice. Come osservato recentemente da alcuni politologi statunitensi, nel partito repubblicano confluiscono ormai due filosofie: quella religiosa del Sud e SudOvest (in forte crescita demografica), che lei stesso riassume in “no all’aborto”, e quella libertaria dell’Ovest e di certa finanza anche orientale. (che lei riassume in “meno tasse e – aggiungo io – meno Stato”).
    Non so se si possa parlare di conservazione per questi due movimenti , ma in ogni caso non certo per il secondo. A meno che non si stravolga completamente il significato del termine “conservatore” applicandolo non gia` (come dovrebbe essere) a chi vuole “conservare l’esistente”. E affibbiandolo invece a chi vuole PROGREDIRE in una direzione che non e` quella che lo scrivente ritiene il futuro necessario della dialettica storica.
    Distinti saluti

    • La redazione

      Dettagli geografici a parte, sono perfettamente d’accordo.
      Personalmente non associo la parola “conservatore” ad un significatonegativo, ma la uso con una funzione puramente descrittiva (ossia,essi stessi cosi’ si definiscono). Che ridurre le tasse, la spesa el’intervento dello stato nell’economia sia fonte di progresso quando fatto adeguatamente e’ cosa che condivido e sostengo apertamente in ciò che scrivo. Questo e’ particolarmente vero per il caso italiano, ed in giorni come questi ancor di più.

  2. Marco D'Egidio

    Trovo efficace la distinzione reazionari-conservatori fatta nell’articolo. I reazionari negli Usa si differenziano dal conservatorismo classico per una sorta di paternalismo di destra, anche economico, di stampo religioso-messianico (una sorta di Stato etico sui generis), quando invece i conservatori tout court, per caratteristiche storiche, predicano un liberalismo ostile a qualsiasi presenza regolatrice dello Stato, non volta alla tutela della libertà individuale. Il liberalismo è figlio della fine dell’assolutismo, quindi è naturale che abbia come principio la teoria dello Stato minimo. I conservatori liberali conservano l’esistente, che per loro memoria storica coincide con il momento di massima espansione della libertà individuale dopo l’oppressione dello Stato assoluto. Conservazione in questo senso si può sposare anche con progresso: il liberismo, ad esempio, quando è riforma (come negli anni ’80), è antitetico alla conservazione. Solo che può accadere che siano proprio quelli che si definiscono conservatori a chiederlo, senza per nulla contraddirsi.

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