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Quattro tappe per riformare il mercato del lavoro in Francia*

Rendere più sicuri i percorsi professionali e più efficace il sistema di indennità di disoccupazione cambiandone il finanziamento. Oltre a razionalizzare le procedure di licenziamento. Si tratta di riforme possibili per il mercato del lavoro francese. A patto di realizzarle contemporaneamente per ottenere l’assenso delle parti sociali. Una volta in atto, permetterebbero di ridurrebbe il numero dei senza lavoro, aprirebbero prospettive più stimolanti per i giovani. Soprattutto, garantirebbero una maggiore crescita economica.

Perché la Francia ha bisogno di riformare in profondità il mercato del lavoro? Perché ha

1. un tasso di disoccupazione troppo elevato e che dura da troppo tempo per attribuirlo a errori di politica macroeconomica.
2. periodi di disoccupazione troppo lunghi, più di un anno. Quando la disoccupazione dura così a lungo, i lavoratori ne restano spesso marchiati a vita.
3. infine, un mercato del lavoro sempre più polarizzato, in cui i giovani cominciano la loro vita professionale alternando lavoretti a periodi in cui non lavorano affatto e in cui i lavoratori più anziani sono spesso in prepensionamento, se non addirittura disoccupati.

Due metodi di tutela dei lavoratori

Si può far meglio? Le strade intraprese dagli altri paesi permettono di rispondere in maniera affermativa.
Grosso modo, possiamo affermare che esistono due metodi per proteggere i dipendenti. Il primo è tutelare i posti di lavoro esistenti. Il secondo consiste nell’agevolare i passaggi da un posto di lavoro all’altro, utilizzando al meglio gli strumenti della formazione, della disoccupazione e della mobilità professionale. In Francia si ricorre soprattutto al primo metodo. Invece, sia la teoria economica che l’esperienza pratica dimostrano che è migliore il secondo sistema. Proteggere i posti di lavoro esistenti impedisce, sì, che essi diminuiscano o spariscano, ma allo stesso tempo frena lo sviluppo, perché non ne crea di nuovi. E ciò ha due effetti negativi: per chi ha la disavventura di perdere il lavoro, rende più lungo il periodo di disoccupazione, oltre a rallentare l’aumento della produttività e quindi del potere d’acquisto.
Ridurre – anzi razionalizzare – la tutela dei posti di lavoro e, in compenso, migliorare il sistema di mobilità e di disoccupazione comporterebbe un minor tasso di disoccupazione, periodi di disoccupazione più brevi, prospettive di carriera maggiormente motivanti per i giovani, e trattamenti di fine-carriera più soddisfacenti per gli anziani.

Parti sociali diffidenti

Sulla carta non solo tutto ciò è possibile, ma anche auspicabile. E allora perché è tanto difficile? Perché le parti sociali sono estremamente diffidenti.
Sono diffidenti i datori di lavoro. Hanno l’impressione di essere stati beffati quando fu introdotto il Pare. (1) In teoria, la riforma avrebbe dovuto rendere più generose, per durata, le indennità di disoccupazione, stimolando nello stesso tempo i disoccupati a reimpiegarsi, ammesso che vi fossero posti disponibili. Nella realtà, le cose sono andate diversamente. Le indennità sono sì divenute più generose, ma con esse anche i contributi a carico dei datori di lavoro. In compenso, non sono cambiati gli incentivi a riprendere il lavoro.
E sono diffidenti anche i sindacati. In un contesto sociale in cui la disoccupazione è alta, riesce difficile accettare qualsiasi cambiamento che aumenti il rischio di licenziamento. Anche ammesso che gli effetti a lungo termine siano favorevoli, come andare a spiegarlo a quei lavoratori che perdono il lavoro e si ritrovano disoccupati per anni?
In una tal situazione, le riforme possono aver successo solo se ambedue le parti sono certe di trovarvi il loro tornaconto. Secondo me, devono quindi essere globali e graduali allo stesso tempo. Si tratta di tappe da affrontare durante le negoziazioni dei prossimi mesi, ma secondo un ordine ben preciso.

Prima tappa: rendere sicuri i percorsi professionali

Oggigiorno è assai probabile che la vita lavorativa contempli diversi impieghi e forse anche qualche periodo di disoccupazione. È quindi essenziale che i vantaggi un tempo collegati all’anzianità in una medesima azienda, vengano associati all’anzianità sul mercato del lavoro e possano essere trasferiti da un’azienda all’altra. Il che implica che tali vantaggi siano reciproci.
Elemento centrale del processo deve essere l’accesso alla formazione permanente e il sistema di mobilità professionale. Le norme in proposito esistono già, grazie al “diritto individuale alla formazione” della legge Fillon.
Il nocciolo del problema risiede però nella qualità della formazione. L’esperienza dimostra che i 25 miliardi di euro spesi dalla Francia in formazione permanente vengono sperperati alla grande. Inutile ricorrere a vari percorsi, quando è evidente che l’unica formazione veramente utile è quella che viene praticata all’interno dell’azienda stessa. È essenziale pertanto ripartire da zero e mettere in funzione i processi di valutazione.

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Seconda tappa: riformare il sistema di indennità di disoccupazione

Un sistema che permetta ai lavoratori di ricevere l’indennità di disoccupazione per un periodo di tempo massimo è iniquo per due ragioni: è ingiusto nei confronti di coloro per i quali effettivamente c’è poco lavoro disponibile, perché la fine dell’indennità rappresenta un dramma. Ma è ingiusto anche perché permette ad alcuni di sfruttare il periodo di indennità fino alla fine, senza cercarsi un altro lavoro, prima del termine.
Un buon sistema è quindi sì un sistema generoso, ma che obblighi i disoccupati a ricominciare a lavorare, se il mercato offre un lavoro accettabile. Questa clausola esisteva nel Pare, ma non è mai stata applicata. Non è facile però mettere a punto un sistema del genere, come del resto dimostra l’esperienza di parecchi paesi stranieri, per esempio la Germania con le riforme Harz. Cosa si intende infatti per “lavoro accettabile”? Come capire se un disoccupato “fa il lavativo” nei colloqui di lavoro? Si può comunque fare molto meglio e questa deve essere una priorità. Per esempio, si possono sperimentare e introdurre organismi privati, concorrenziali all’Anpe (2), di cui si possa e debba valutare l’efficienza in fatto di collocamento e di formazione.
Bisogna quindi riformare Unedic (3) e Anpe? Probabilmente, sì. È essenziale, comunque, predisporre un ufficio unico per i disoccupati, che si faccia nello stesso tempo carico sia dell’indennità di disoccupazione sia del reinserimento al lavoro. Il che comporta, come minimo, la razionalizzazione e la riorganizzazione dei loro compiti . Se si vuole mantenerli separati, la funzione dell’Unedic deve essere unicamente di finanziare le indennità di disoccupazione; quella dell’Anpe deve ampliarsi e integrare indennizzazione e reinserimento nel lavoro.

Terza tappa: riformare le norme sul licenziamento

Bisogna razionalizzare le norme sul licenziamento. La struttura attuale è totalmente incoerente ed è divenuta motivo di incertezza sia per le aziende sia per i lavoratori.
Il principio fondamentale è che nessuno meglio dell’azienda può giudicare la giustificazione economica di un licenziamento, sia che si tratti di ragioni riguardanti la situazione dell’azienda (scarse vendite, cambiamento di gamma dei prodotti, progresso tecnologico, delocalizzazione – insomma i cosiddetti motivi economici) sia che riguardi il rapporto tra azienda e dipendente (mancanza di fiducia, accordo insoddisfacente – i motivi personali). Ciò implica che la giustificazione economica non possa essere rimessa in causa – in quanto tale – da un magistrato. Per la semplice ragione che nessuno, sia esso un giudice o un osservatore esterno, può, a priori, essere in grado di giudicare, meglio dell’azienda stessa. Tale principio non è assolutamente incompatibile con l’obbligo, ratificato da accordi internazionali, imposto all’azienda di specificare la causa del licenziamento, dal momento che il dipendente ha l’ovvio diritto di conoscerne i motivi.
Non si vuole, con questo, eliminare il ruolo dei giudici. Se un lavoratore reputa che il suo licenziamento è giustificato non da motivi economici, ma da un atteggiamento discriminatorio deve poter ricorrere alla magistratura e, se vince, ricevere maggiori indennità. Allo stesso modo, se un’azienda ritiene che il dipendente abbia commesso gravi errori e non intende quindi versargli alcuna indennità, deve poterlo fare e, quando necessario, difendersi davanti a un magistrato.
A compenso di tale semplificazione del processo giudiziario, le indennità legali di licenziamento devono essere aumentate, sia per legge, sia negli accordi sindacali.
Rispetto a altri paesi europei, in Francia sono molto basse e possono quindi crescere anche per rispecchiare l’anzianità del dipendente nell’azienda, tenendo inoltre conto della possibilità di trovare un nuovo lavoro con paga dello stesso livello.
Nella medesima ottica, occorre ripensare le regole di licenziamento collettivo e i piani sociali. Chiedere alle aziende di ristrutturare, nel loro ambito, i livelli di anzianità è qualcosa che fuoriesce dalle loro competenze. Meglio lasciarlo fare a organismi specializzati. Si può chiedere loro però di pagare indennità più elevate, qualora la ristrutturazione appaia difficile o incerta.
La riorganizzazione potrebbe essere realizzata benissimo nell’ambito dei contratti esistenti, che si tratti di Cdi (contratto a tempo indeterminato) o di Cdd (Contratto a tempo determinato). Si ridurrebbero le differenze tra i vari tipi di contratto anche perché i Cdd differiscono dai Cdi principalmente per l’ammontare dell’indennità di licenziamento. Sarebbe invece più logico sostituirli con un contratto unico scaglionato (con indennità che dipendano dal grado di anzianità), oppure si potrebbe ridurre il numero di tipi di contratto a tutt’oggi esistenti. Così come bisogna ripartire da zero per i corsi di formazione, altrettanto va fatto per i contratti di lavoro. Ma è una riorganizzazione complessa e, forse, può attendere.

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Quarta tappa: riforma del finanziamento dell’indennità di disoccupazione

Attualmente, in Francia, l’indennità di disoccupazione è finanziata dai contributi erogati sulla massa salariale. Questo genere di finanziamento aumenta i costi delle aziende e, pertanto, diminuisce l’impiego. E per giunta, sia che l’azienda licenzi, sia che non licenzi, paga gli stessi contributi. Non è un sistema adeguato: le aziende che licenziano di più impongono un costo più elevato alla società, che deve finanziare le indennità di disoccupazione dei dipendenti licenziati.
Esiste uno strumento semplice per responsabilizzare i datori di lavoro: far pagare di più se si licenzia di più. È un sistema di bonus-malus assolutamente adeguato. Paradossalmente se si considera l’immagine che hanno gli Stati Uniti in questo campo, negli Usa esiste da tempo: le aziende pagano, nel corso degli anni, contributi pari alle indennità di licenziamento pagate dagli uffici per la disoccupazione, ai dipendenti licenziati dalle stesse aziende. Il che ovviamente le spinge a licenziare meno, mandando via quasi solo quei lavoratori in grado di ritrovare facilmente un lavoro e quindi di restare disoccupati per poco tempo.
Viene spesso obiettato che, con un sistema del genere, le aziende diventano ancor più restie ad assumere personale che, se verrà licenziato, farà ancor più fatica a ritrovare un impiego. Oppure che i datori di lavoro saranno restii a istallarsi in zone sottosviluppate, in cui è difficile trovare lavoro e in cui, se licenziati, i loro dipendenti rischiano di restare disoccupati per lungo tempo. In entrambi i casi esiste una soluzione semplicissima: sistemi di sovvenzioni esplicite, destinate nel primo caso a specifiche categorie di lavoratori, e nel secondo caso a specifiche zone. Il sistema di sovvenzioni esplicite utilizzato oggi è poco trasparente e poco efficace.
Rendere più sicuri i percorsi professionali, razionalizzare le procedure di licenziamento, rendere più efficace il sistema di indennità di disoccupazione e cambiarne il finanziamento. Si tratta di riforme possibili, ma che devono essere realizzate tutte contemporaneamente. Senza garanzie sicure per il percorso professionale è altamente improbabile che i sindacati siano disposti a discutere la riforma delle procedure di licenziamento. Senza una loro razionalizzazione, è improbabile che le aziende siano disposte a riformare il finanziamento delle indennità di disoccupazione. I negoziati, che stanno per iniziare, rappresentano un’occasione unica. Possono condurre alle riforme più importanti del nuovo quinquennio: una volta in atto, farebbero diminuire la disoccupazione, rendendola anche più breve e più equamente distribuita, creerebbero prospettive di lavoro più stimolanti per i giovani e soprattutto comporterebbero una maggior crescita economica.

(1) Plain d’Aide au Retour à l’Emploi: Piano di aiuto per il reinserimento nel lavoro
(2) Anpe, Agence Nazionale Pour l’Emploi : Agenzia nazionale per l’impiego
(3) Unedic, Union Nazionale Interprofessionelle pour l’Emploi dans l’Industrie et le Commerci: Unione nazionale interprofessionale per l’impiego nell’industria e commercio.

*La versione francese dell’articolo è visibile su www.telos-eu.com. Traduzione italiana di Daniela Crocco

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Tagli non parole!

  1. Claudio Resentini

    Ci risiamo con il vecchio vizio, tipico dell’ortodossia economica, di considerare il lavoro un mero input produttivo da acquisire liberamente nella quantità che si vuole su un mercato del tutto simile a quelli, tutti teorici, delle merci!
    Il dogma economicistico che contrappone insiders e outsiders secondo il quale la protezione dei posti di lavoro esistenti impedisce di crearni di nuovi deriva da questa visione distorta della realtà.
    La realtà invece è molto spesso opposta: quante volte sono i padri con lavori o pensioni garantite dal vecchio welfare state “lavoristico” che consentono ai loro figli di barcamenarsi tra un lavoro postmoderno e l’altro riuscendo così a condurre una vita dignitosa altrimenti impossibile?
    La verità è che proprio la protezione del lavoro dei cosiddetti insiders spesso consente agli outsiders di non diventare dei “working poors”.
    Il prof. Blanchard e tutti gli economisti che auspicano l’avvento un “sistema generoso, ma che obblighi i disoccupati a ricominciare a lavorare, se il mercato offre un lavoro accettabile” dovrebbero riflettere sul fatto che con premesse ndel genere essun lavoro risulta accettabile.
    Non è accettabile un lavoro che non garantisce un reddito perchè destinato ad interrompersi dopo poche settimane, come molte delle “somministrazioni di lavoro” delle agenzie ex interinali (i caporali postmoderni). Questo è il vero scandalo della legge 30: l’obiettivo aberrante di creare un vero e proprio mercato del lavoro e addirittura un mercato di secondo livello, il mercato dei servizi del lavoro, dove il lavoro venga addirittura venduto due volte. Non è accettabile un lavoro che mette il lavoratore in una condizione di ricattabilità pressochè assoluta e continua dove tutti gli abusi, nonostante le tutele formali della legge, sono possibili.
    Cordiali saluti.

  2. Giampaolo Cocco

    La mia testimonianza è quella di un lavoratore che vive nell’agonia del sistema prospettato dal signor Olivier Blanchard. Circa dodici anni di precariato in diversi settori e formazione continua mi hanno portato solo ingiustizie alle quali, oggi non sono più disposto a sottostare. Oggi, a quarant’anni, ho deciso di mollare: non cerco più il "posto fisso" e soprattutto non accetto più contratti interinali o a tempo determinato. Questo è quello che crea il sistema prospettato in Francia e che qui in italia è permesso ormai da tanto tempo, legge Treu e poi legge 30. Voglio vedere chi verrà ad obbligarmi ad accettare un’altro contratto di due giorni o a chiedermi di aggiungere un’altro titolo alle decine che ho già. Attenzione, cercano di fare passare le persone come me, circa sei milioni, come casi umani e non lo siamo.

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