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QUANTI SONO I LAVORATORI ATIPICI *

Nel 2006 quasi 3,5 milioni di individui, il 15,3 per cento dell’occupazione, erano coinvolti in forme di lavoro atipiche, considerando i dipendenti a termine e i finti collaboratori. Identificare la reale natura della prestazione lavorativa è sempre più necessario in virtù delle dinamiche dell’occupazione nel nostro mercato del lavoro che rendono spesso gli indicatori ordinari di occupazione e disoccupazione insufficienti a valutarne tutta la complessità. Solo così si potrà dare un giudizio obiettivo sull’introduzione delle forme di lavoro flessibili.

Si parla spesso di flessibilità, precarietà e atipicità del lavoro, eppure non esistono definizioni comuni di questi fenomeni. Il giurista ha una interpretazione diversa dall’economista, il sociologo mette l’accento su aspetti che lo statistico non può quantificare. Utile dunque alimentare un processo che porti a una definizione condivisa di occupazione atipica.

I FALSI POSITIVI

Nel nostro mercato del lavoro la forma contrattuale è una condizione necessaria, ma non sempre sufficiente per identificare l’atipicità. Se per gli occupati dipendenti a termine, l’atipicità è già rintracciabile nella durata predefinita presente nel contratto, per i dipendenti part-time a tempo indeterminato bisogna valutare la volontarietà dell’impiego ridotto. E così pure per i collaboratori e consulenti è necessario confrontare il contratto con l’impiego effettivamente svolto per verificare la loro atipicità. Introduciamo, pertanto, il concetto di “falso positivo”, per i casi in cui la forma contrattuale e la natura effettiva dell’occupazione svolta non coincidano.
Due sono i casi emblematici.
I finti collaboratori. Come si fa a capire quando i co.co.co, i co.co.pro, i collaboratori occasionali o le partite Iva vengono impiegati impropriamente, ovvero secondo modalità lavorative tipicamente subordinate? Tra le caratteristiche di questi contratti ne sono state individuate alcune, definibili come vincoli di subordinazione, che consentono la valutazione della natura subordinata del rapporto di lavoro. A parte il primo sulla volontà positiva dell’individuo nella scelta di una forma contrattuale, gli altri cinque sono desunti dalla giurisprudenza in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, vale a dire dalle motivazioni generalmente utilizzate dai magistrati del lavoro per valutare se il rapporto di lavoro sia subordinato o autonomo.
Ecco i dati Isfol Plus relativi al 2006: il contratto è stato imposto al 65 per cento dei co.co.co, al 55 per cento delle collaborazioni occasionali, all’81 per cento dei co.co.pro e al 7 per cento delle partite Iva. Il datore di lavoro esclusivo (la monocommittenza) riguarda quasi l’80 per cento dei collaboratori e più della metà delle partite Iva. La presenza è un vincolo stringente per il 60 per cento dei co.co.co, mentre è richiesto al 70 per cento sia dei collaboratori occasionali che dei co.co.pro; anche il 20 per cento dei lavoratori a partita Iva devono attenersi a un orario giornaliero. L’80 per cento dei collaboratori e quasi metà delle partite Iva usano strumenti dell’azienda presso cui sono impiegati. Oltre il 60 per cento dei co.co.co e co.co.pro ha già lavorato una volta con l’attuale committente, più del 50 per cento dei collaboratori occasionali e oltre un terzo delle partite Iva. Quanti vorrebbero diventare dipendenti a tempo indeterminato? Il 79 per cento dei co.co.pro, il 73 per cento dei co.co.co, il 58 per cento dei collaboratori occasionali e il 24 per cento delle partite Iva non vorrebbe rimanere nell’attuale forma contrattuale, ma ritiene più congrua una occupazione dipendente permanente. Pertanto, attraverso la verifica della reale natura della occupazione, quando sono presenti quattro, cinque o sei fattori di subordinazione (sebbene la legge sia perentoria), si ritiene plausibile annoverare questi autonomi tra i finti collaboratori o, letteralmente, parasubordinati (circa il 5,6 per cento).
I part-time involontari. Un altro esempio di possibile “falso positivo” è il caso del part-time, che potrebbe essere sia una condizione volontaria, e pertanto costituire uno strumento di conciliazione tra vita lavorativa e familiare, sia involontaria, e come tale potrebbe celare una condizione di sottooccupazione. Dall’indagine Isfol Plus emerge al riguardo che solo il 50 per cento degli uomini dichiara volontario il proprio part-time, incidenza che passa al 70 per cento per le donne. È opportuno tenere separate le due dimensioni perché una – il part-time volontario – è estremamente positiva, e l’altra – part-time involontario, circa il 2,6 per cento estremamente negativa.
La tabella offre la possibilità di costruire, aggregando le singole voci al netto dei falsi positivi, molteplici atipicità secondo più criteri riferibili a un minimo comun denominatore.

Apri la tabella

Pertanto, nel 2006 sono quasi 3,5 milioni – ovvero il 15,3 per cento dell’occupazione – gli individui coinvolti in forme di lavoro atipiche (nei toni del celeste), considerando i dipendenti a termine (compresi gli apprendisti) e i finti collaboratori. L’intervallo più ampio entro cui si ritiene possa essere ragionevolmente compresa l’atipicità è tra il limite inferiore del 13,5 per cento dell’occupazione (se non consideriamo gli apprendisti, pari all’1,5 per cento) e quello superiore del 17,6 per cento (considerando anche i part-time involontari, pari al 2,6 per cento, in giallo). Il lavoro permanente full time, il nostro benchmark, è nelle ultime colonne (in rosa). È facile aggregare le voci secondo ulteriori criteri.

L’INDAGINE ISFOL

L’indagine campionaria nazionale Isfol Plus, alla seconda edizione, ha permesso di chiedere direttamente a oltre 40mila individui numerose caratteristiche della loro occupazione potendo identificare la reale natura della prestazione lavorativa. (1) Ciò è oggi oltremodo necessario in virtù delle dinamiche nell’occupazione del nostro mercato del lavoro che rendono spesso gli indicatori ordinari di occupazione e disoccupazione non sufficienti a valutare il mercato del lavoro in tutta la sua complessità. Le ricomposizioni in atto sono ormai tutte a variazione pressoché nulla delle Ula (2), cioè sono parcellizzazione della quantità (fissa) di lavoro presente nella nostra economia. È dunque importante considerare la ricomposizione all’interno della forza lavoro e dell’occupazione. Solo così si potrà dare un giudizio obiettivo sull’introduzione delle forme di lavoro flessibili in relazione al rapporto costi (più precarietà)/benefici (più partecipazione).
Per arrivare a questa sintesi, intesa come una definizione avanzata di atipicità, è stato necessario fare alcune scelte di metodo e di merito e superare vari problemi procedurali:
1.  L’aspetto definitorio. Cosa si intende con lavoro atipico? Si intende atipica ogni attività lavorativa che differisca per uno o più aspetti dal lavoro tipico (o di riferimento o standard) che noi identifichiamo con il lavoro permanente full time, una sorta di equivalente delle Ula. Questa scelta iniziale rende subito chiaro che si considera sia l’atipicità dipendente che autonoma, anche in considerazione dell’abnorme dimensione del lavoro autonomo in Italia.
2.  Tipologia di atipicità. Quali caratteristiche del lavoro sono atipiche? Il fenomeno lavoro atipico è multidimensionale, ovvero può essere visto da più punti di vista: per esempio iniziamo analizzando la forma contrattuale, ma può essere visto anche relativamente agli aspetti fiscali, previdenziali o alle modalità di erogazione (in presenza, con orario ridotto, eccetera).
3.  La questione epistemologica. La percezione di uno stato di atipicità da parte di un individuo è estremamente esposta a interpretazioni eterogenee e pertanto non si deve indulgere in classificazioni basate su condizioni auto-percepite. A tal fine, in questa analisi, solo la presenza di condizioni oggettive porta all’attribuzione dei crismi della atipicità.
4.  Il problema della quantificazione. L’ultimo aspetto attiene alla stima del fenomeno, all’identificazione del collettivo statistico “occupati atipici”. Proprio in considerazione della natura debole dello status di atipicità è necessario avere la possibilità di somministrare direttamente i quesiti per la verifica della presenza dei tratti dell’atipicità al lavoratore. Ciò consente di superare in larga misura sia la scarsa informazione individuale circa la forma contrattuale, sia la complessità dell’attuale mercato, con moltissimi istituti contrattuali vigenti, declinati in varie tipologie e con numerose eccezioni.

 

* La versione estesa di questo articolo sarà reperibile dal 1 Aprile su www.isfol.it: “La riclassificazione del lavoro tra occupazione standard e atipica: l’indagine Isfol Plus 2006”, E. Mandrone, Studi Isfol 2008 /1.

(1)Isfol Plus, E. Mandrone D. Radicchia, Rubettino editore, 2006
(2)Contabilità nazionale, Istat, 2007

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  1. Gianluca Cocco

    Penso che l’attuale contesto suggerisca di spostare l’attenzione sul problema della precarietà del lavoro, che è sempre più indipendente dalla flessibilità delle forme di impiego. Per carità, è giusto identificare e descrivere le caratteristiche dei tanti segmenti del nostro mkt del lavoro. Tuttavia, si dovrebbe andare ormai oltre l’antinomia tipici/atipici. Il nodo centrale è la precarietà del lavoro sotto più aspetti: temporale, retributivo, della sicurezza. A monte di tutto c’è in primo luogo la scarsità di opportunità di impiego, ben testimoniata dal grado di partecipazione al mkt del lavoro. Da questo punto di vista le garanzie per un lavoratore a tempo indeterminato sono spesso di poco superiori a quelle di lavoratore a termine, tanto più se lavora in una impresa sotto i 15 dipendenti. In secondo luogo, si assiste ad una forte speculazione delle forme flessibili di impiego utilizzate spesso per motivi che vanno al di la delle esigenze produttive. In questo ambito, la volontarietà del lavoratore è un buon indice, ma è pur sempre discutibile: quante donne part-time che dichiarano la volontarietà lavorerebbero full time se ricevessero la necessaria assistenza per allegerire i carichi familairi (figli, anziani)? L’abuso delle forme flessibili di impiego deve restare uno dei temi centrali quando si parla di lavoro. Ma bisogna fare attenzione sia a non sminuirne la portata, sia a non concentrarsi solo su questo aspetto, tralasciando che il problema principale è che di lavoro ce n’è ben poco. Il tasso di disoccupazione, in questo contesto, è sempre meno un indicatore rappresentativo delle difficoltà di trovare un impiego, dal momento che c’è un esercito di persone che hanno perso ogni speranza di trovare un lavoro. Infine, anche la precarietà legata all’insicurezza è figlia di una corsa al ribasso dovuta alla scarsità di lavoro, oltre che ovviamente ad un problema culturale e di assenza di controlli. AnchIn questo scenario, gli unici atipici sono gli impiegati pubblici! Positivamente atipici, visto che godono senz’altro di maggiori garanzie, spesso ingiustificatamente messe in discussione. Distinti saluti.

  2. Silvestro Gambi

    Pare di capire che ormai la categoria del lavoro "atipico" è diventata del tutto inutilizzabile ai fini di una sia pur minima analisi utile. C’è dentro di tutto, c’è dentro troppo. Mi chiedo, ma non sono abbastanza esperto della materia per affermare che la cosa sia fattibile, se una mirata e ben calibrata elaborazione dei dati fiscali non possa essere utile a riclassificare le forme di lavoro atipico comparandole con l’insieme dei redditi ( quelli palesi oviamente) ed estraendo quelle che , non sommandosi ad altre e diverse entrate , alla fine almeno possano fornire un’idea di quanto " atipico" consistono forme di occupazione subordinata , che forse è il dato che più interessa. In alternativa l’istituzione , se non c’è già, di un data base presso gli enti previdenziali , arricchendo il form di rilevazione di quei due o tre elementi che possano essere utili all’ottenimento dello stesso risultato di cui sopra. Quello che non può continuare è la generalità di un dato, che, per quanto riguarda la mia diretta esperienza,contiene anche il contratto (di consulenza in realtà) di un mio collega , professore universitario.

  3. Carlo

    Se un lavoratore a tempo pieno viene sostituito da due part time, siano essi assunti direttamente, co.co.pro o altro, come viene registrato questo fenomeno nelle statistiche ufficiali? Come la creazione di un posto di lavoro in piu’, che sarebbe erroneo visto che ciascuno dei due lavoratori lavora la meta’ (e presumibilmente guadagna ancor meno della meta’) di quello sostituito?

  4. martino

    Ma per stanare i falsi collaboratori non basta contare il numero delle fatture emesse? Se sono 12/13/14 e di ammontare fisso, beh…. Abbandonando, per un attimo, il formalismo della qualificazione di attività intellettuale della professione forense e della relativa presunta incompatibiltà con la natura subordinata del rapporto di lavoro dipendente, nel mondo dei professionisti (specie avvocati) mi sembra che viga grande ipocrisia. Di fatto ci sono avvocati liberi professionisti e avvocati, di fatto, dipendenti.

  5. giba34

    Vivendo a Napoli posso assicurare che i lavoratori atipici, quelli con l’imprimatur, sono un decimo dei lavoratori in nero che lavorano di più e guadagnano meno. L’ atipico "autorizzato", tira avanti spesso per completare gli studi o per aver qualche soldo in tasca fin che non trova un lavoro stabile. Se è bravo e volonteroso il suo lavoro da atipico diventerà tipico. A meno che il datore di lavoro non sia fesso. Per quanto riguarda il lavoro in nero, vien da ridere al pensiero che si possano obbligare i datori di lavolo a regolarizzarsi. Sono gente che non ha niente da perdere, li puoi multare per milioni ma lo Stato non vedrà mai una lira. Se poi sono camorristi la cosa diventa pericolosa per i pochissimi servitori dello Stato e le loro famiglie. Parlo dei controllori della Guardia di finanza, marescialli indifesi che, a volte, si fanno ammazzare. Tra l’altro mi sapreste dire, gentili economisti, come andrebbe avanti l’Italia senza lavoro nero? Pagare tutti per pagare meno? Se pagassero tutti lo Stato indecente ruberebbe di più. Tra l’altro questi chiuderebbero le fabbrichette abusive e quei poveri cristi che guadagnano trecento euro al mese, morirebbero di fame. Ciao, G

  6. FRANCESCO COSTANZO

    Spero Lei concordi con me sull’idea che qualunque forma di lavoro diversa dal lavoro dipendente full time, dal part time (volontario) e dal lavoro autonomo (volontario) possa essere inclusa nella definizione di precarietà. Il Suo articolo chiarisce che è molto difficile quantificare con precisione l’ammontare dei lavoratori atipici, e non prende in considerazione i lavoratori in nero. Ritengo che questa incertezza nelle definzioni condizioni qualunque altra analisi, e pertanto vorrei porre a Lei ed alla Redazione alcune domande. Ho seguito con interesse l’intervento del Prof. Boeri alla trasmissione Ballarò di ieri (18.03.08). Se non ricordo male, due dati sono stati citati ad un certo punto: 1. Solo un lavoratore su 10 vede il suo lavoro atipico trasformarsi in lavoro tipico (Prof. Boeri); 2. L’80% dei lavoratori atipici diventano tipici (Onorevole Maroni). Qual’è la fonte citata dal Prof. Boeri? (immagino che, per quanto riguarda il dato citato dall’On. Maroni, non ci sia modo di saperlo… voi potete?) E di conseguenza, quale dei due dati dovrebbe essere considerato attendibile per una valutazione del fenomeno del precariato? Grazie

  7. alessandra delboca

    Molto utile il vostro articolo che documenta le conseguenze di tutta la flessibilità concentrata sull’ingresso al mercato. Interessante cercare tutte le sfumature possibili della definizione di precarietà, come cercare di capire con interviste quanti lavoratori part-time vorrebbero un contratto a tempo pieno. Però abbozzare una stima della percentuale degli atipici sul totale che può andare dal 13.5 (se si escludono gli apprendisti) fino al 17,6% se li s’includono e si aggiungono anche i part-timer involontari, mi sembra un’operazione non condivisibile. Il dato ISTAT Eurostat 13.5, che ci pone di oltre 1 punto sotto la media EU, è una dato corretto e accettabile. Non ha senso sommare ai precari, gli apprendisti e quelli che vorrebbero lavorare più a lungo. Allora bisognerebbe intervistare anche quelli che lavorano full time, magari madri di famiglia e chiedere loro se non preferirebbero lavorare part-time. Non possiamo sommare il regno dei desideri con quello dei rapporti contrattuali codificati. E’ vero che questi rapporti vengono abusati ed è importante stimare separatamente l’entità del fenomeno e che di questo si occupino gli ispettori del lavoro.

  8. paolo rebaudengo

    L’apprendistato è il principale contratto di inserimento dei giovani al lavoro e andrebbe incoraggiato (e migliorato per la parte relativa alla formazione). Quanto al part-time a tempo indeterminato, l’involontarietà si presume attenga (in prevalenza) al reddito che se ne ricava (oltre alle minori chance di carriera). Ma l’introduzione del concetto di involontarietà allarga impropriamente la categoria della precarietà a un numero potenzialmente ampio di posizioni di lavoro, anche standard, come i lavori a turno, notturni, quelli di trasfertista, dei laureati che svolgono mansioni esecutive ecc. Il part-time ha raggiunto il 14,5% dell’occupazione dipendente (oltre 2,5 milioni). Si tratta, nell’82% dei casi (per il lavoro dipendente), di donne. Il fortissimo squilibrio nella distribuzione di genere del part-time, sommato allo scarsissimo utilizzo dei congedi di paternità, dimostra che una quota determinante della involontarietà del part-time derivi, più che dalla domanda, dall’offerta condizionata dal doppio o triplo ruolo scaricato sulle donne (quindi precarie socialmente prima che nei rapporti di lavoro). Paolo Rebaudengo

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