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SE LA CRISI DI ATENE ENTRA IN BANCA

Lungi dall’essere risolta, la crisi greca ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione monetaria europea. Una volta messo in moto, il processo di integrazione comporta una serie di costi, oltre che di importanti benefici. Ma tornare indietro sarebbe molto rischioso e costoso. Meglio dunque andare avanti fino a quando l’Europa sarà un vero stato federale. Solo allora si potrà considerare la Grecia alla stregua di Los Angeles, che non ha banche né depositanti da salvare, ma solo un bilancio da sanare.

Dopo mesi di discussione, lo scorso 11 aprile i ministri finanziari dei paesi dell’area euro hanno definito i contorni di un piano di salvataggio per la Grecia, che le autorità elleniche sembrano, alla fine, decise ad accettare. I mercati, tuttavia, guardano con scetticismo alla vicenda, che ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione monetaria europea.
Innanzitutto, il piano è stato messo a punto dall’Eurogruppo, un semplice forum europeo e non un organismo dell’Unione. In effetti, i prestiti che i 15 paesi dell’area euro si sono detti disponibili a concedere sono a tutti gli effetti prestiti bilaterali che in molti casi dovranno essere approvati, non senza qualche patema, dai rispettivi parlamenti. Questi prestiti andranno così ad aumentare i deficit pubblici anche dei paesi più indebitati; seppure la Commissione europea si sia affrettata a chiarire, in maniera un po’ ipocrita, che non verranno conteggiati al fine dei parametri europei. Ben diversa, sia da un punto di vista economico che politico, sarebbe stata la concessione di un prestito veramente europeo. 

DEBITO E TASSI DI INTERESSE

Molto si è già detto sui tassi d’interesse a cui tali prestiti verranno erogati: circa il 5 per cento per quelli fino a tre anni e 6 per cento per quelli oltre i tre anni; contro tassi compresi tra l’1 e il 3 per cento che verranno praticati dal Fondo monetario internazionale. Il problema, in questo caso, non sta tanto nel maggiore onere finanziario che la Grecia dovrà accollarsi, ma nel segnale di scarsa fiducia che queste condizioni implicano. Oggi paesi europei con debiti molto alti, ma non soggetti alla speculazione, come la Spagna, il Portogallo e l’Italia, riescono a indebitarsi a tassi pari a circa la metà di quelli proposti alla Grecia. La politica economica non dovrebbe mai allinearsi al mercato se il suo obiettivo è quello di contrastarne le aspettative più destabilizzanti, altrimenti le preoccupazioni degli operatori trovano alimento nel comportamenti delle autorità. 
Vale la pena ricordare che mentre Berlino ha convinto l’Unione Europea a lesinare il credito alla Grecia, Francoforte continua a finanziare in maniera illimitata le banche greche all’1 per cento, a fronte di titoli di stato ellenici. Tecnicamente, la Banca centrale europea parla di operazioni di mercato aperto rivolte a tutte le banche dell’area dell’euro; per l’esattezza operazioni pronti contro termine (repo) con durata da una settimana a un anno a fronte di titoli pubblici e privati di un certo standing. Così, oggi, la Banca centrale europea, attraverso innocenti strumenti di politica monetaria è di fatto uno dei maggiori finanziatori dell’economia ellenica. Se domani il governo greco dovesse dichiarare il default dei propri titoli pubblici o addirittura l’uscita dall’euro, il bilancio della Bce sarebbe il primo a risentirne. Ecco forse perché Jean-Claude Trichet (oltre che per il suo convinto europeismo) è uno dei più accaniti sostenitori di interventi a favore di Atene. Tuttavia, il bilancio della Bce in ultima istanza deve essere consolidato con quello dei suoi paesi membri; così in definitiva anche gli ignari pensionati tedeschi, che Angela Merkel vorrebbe salvaguardare, sarebbero chiamati a pagare il conto di un eventuale default delle banche greche.

EFFETTI DELL’INTEGRAZIONE

Peraltro, le banche greche sono già tecnicamente fallite, poiché le istituzioni finanziarie di tutto il mondo hanno ritirato i loro depositi, chiudendo tutti i loro contratti repo. Il paventato “bank run” è già in atto da tempo sui mercati interbancari all’ingrosso. La verità è che se oggi la Bce non lo finanziasse in maniera generosa, il sistema bancario ellenico sarebbe fallito anche formalmente. Tuttavia, quando l’intero sistema bancario di un paese fallisce, è giusto consolidare i suoi debiti con quelli dello stato ospitante, poiché questo è l’unico assicuratore in grado di garantire i depositanti. Ecco perché il mercato e i soliti denigrati speculatori considerano, giustamente, la situazione dei conti pubblici greci molto più seria di quella mostrata dai dati ufficiali. La crisi greca ha messo a nudo i limiti di una assicurazione sui depositi di natura nazionale. Se l’Europa vuole ancora costruire un sistema bancario integrato e solido dovrà al più presto pensare di mettere in piedi un meccanismo di assicurazione paneuropeo, che garantisca veramente i risparmiatori da questo tipo di crisi.
Un’ultima considerazione merita il sistema bancario europeo. Le principali banche europee, pur avendo ritirato i loro depositi dalle istituzioni greche, sono le principali detentrici di titoli di quel paese: l’ultimo numero dell’Economist stima l’ammontare degli investimenti fra i 60 e i 120 miliardi di euro. Un eventuale default porterebbe di nuovo in rosso i loro bilanci, con probabili effetti negativi anche sui conti pubblici dei principali paesi europei, oggi loro importanti azionisti. Un eventuale contagio della crisi anche ai soli Spagna e Portogallo avrebbe conseguenze dieci volte maggiori. Questi sono gli effetti dell’integrazione finanziaria e monetaria europea, perseguita e realizzata con grande successo negli ultimi dieci anni. Ecco perché conviene a tutti salvare la Grecia. L’argomento secondo cui il salvataggio porrebbe un problema di azzardo morale – disincentivando la disciplina fiscale – non sembra convincente. I costi del mancato salvataggio sarebbero così elevati da rendere le aspettative di bail-out futuri ancora maggiori, anziché minori (il caso Lehman Brothers insegna). La disciplina fiscale può essere rafforzata con altri mezzi, ad esempio introducendo rigorosi controlli sulla contabilità del settore pubblico, in modo che “sorprese” come quella sui conti greci non siano più possibili; l’Eurostat si sta opportunamente muovendo in questa direzione.  
In conclusione, è bene rendersi conto che, una volta avviato, il processo di integrazione monetario europeo comporta una serie di costi, oltre che di importanti benefici. Tornare indietro sarebbe molto rischioso e costoso; forse è meglio andare avanti fino a quando l’Europa sarà un vero stato federale. Solo allora si potrà considerare la Grecia alla stregua di Los Angeles, che non ha banche né depositanti da salvare, ma solo un bilancio da sanare.

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NEANCHE LE COOPERATVE SOCIALI SONO PERFETTE

  1. Ermanno Tarozzi

    Non so cosa pensare! Ma questi grandi manager che governano le banche, cosa combinano? Se si dovesse valutare in base ai risultati, come dice l’esimio Brunetta, occorerebbe licenziarli tutti. Con le loro liquidazioni si riuscirebbero a salvare tante aziende in difficoltà senza chiedere sacrifici ai lavoratori esenza licenziare persone che guadagnano meno di 1000 Euro al mese.. Forse occorre effettivamente ritrovare i concetti di uguaglianza e solidarietà! Perchè poi incolpare sempre e solo la cosiddetta politica per tutti i guai del mondo? Questi signori non hanno mai pagato, neppure negli Usa, Obama nonostante. Anzi, alcuni di loro ci hanno guadagnato. Ermanno Tarozzi

  2. ciuffetti

    Mi pare di capire che le banche hanno in mano le sorti di intere nazioni. Spendiamo soldi pubblici per salvarle, i nostri soldi vanno ai bilanci bancari. Un eventuale fallimento metterebbe sul lastrico anche noi piccoli cittadini. La politica non può stare a guardare, il mandato che abbiamo dato ai nostri eletti non lo prevede. Le banche devono rientrare nel concetto di "Interesse Nazionale" così come lo enuncia Fini. Le banche devono rispondere del loro operato, i singoli dipendenti devono avere chiare e definite responsabilità nella gestione, così come accade oggi nel pubblico impiego. La giustizia deve, ripeto, deve funzionare.

  3. adriano velli giornalista

    La vostra analisi non fa una grinza. Chapeau di fronte a Christine Lagarde, unica donna ministro dell’economia del G8, che ha assunto una posizione ferma e decisa nei confronti della tetraggine della Germania e ha anche sostenuto che le agenzie di rating non devono essere autorizzate ad esprimere giudizi sul debito sovrano dei paesi dell’area euro. Qui non si tratta, come qualcuno potrebbe obbiettare, di rifiutare l’immagine neutrale dello specchio ma di prendere atto che lo specchio è a pezzi, riproduce realtà deformate e parziali. Vale la pena di ricordare che molte società di rating avevano assegnato la tripla A, massima affidabilità, ai famigerati titoli tossici contribuendo in modo determinante alla gravissima crisi finanziaria che stiamo subendo. Dopo questa vicenda, la loro credibilità si à di fatto ridotta a zero, i rating servono solo ad attivare moltitudini di scommettitori, non li definerei neppure speculatori, che, operando in massa su cds e cdo, stanno però creando seri guasti sui mercati finanziari.

  4. Enrico Marchesi

    La disinvoltura con cui si ricorre al debito pubblico per scaricare sui contribuenti i costi generati da scelte errate di altri soggetti (ieri la banche durante la crisi finaziaria, oggi il governo greco) è veramente allarmante e in ultima analisi, irresponsabile. Ancora una volta viene usato lo spauracchio della crisi totale per costringere i governi europei a pagare il conto. La socializzazione dei costi è da sempre la soluzione più semplice per non affrontare i problemi e tirare a campare. Ma domani? Il giochetto non può continuare per sempre. Prima o poi sarà inevitabile confrontarsi con la ragioni che non rendono più sostenibile il modello europeo di sviluppo, oggi in Grecia, domani nel resto dell’Europa (e non solo per i PIGG).

  5. Simone

    Ma le agenzie di rating che hanno declassato prima la Grecia e poi la Spagna, non sono forse le stesse che hanno affibiato la tripla A ai titoli tossici conosciuti come subprime che hanno poi causato la crisi economica che è partita dagli USA e si è poi propagata in tutto il mondo? Queste agenzie come analizzavano quei titoli? Non è che quelle stratosferiche valutazioni servivano a qualcuno dei grossi speculatori statunitensi? Non so voi, ma dopo i subprime non è che mi fidi molto dell’obbiettività di queste agenzie.

  6. paolo lencioni

    Come altri economisti continuate a vedere la crisi Greca solo da un punto di vista finanziario. A mio avviso la vera crisi è causata dall’economia reale, già poco competitiva prima dell’entrata nell’euro e attualmente insostenibile se la grecia non torna ad essere indipendente dall’euro. Rimanere nell’EU significa buttare i soldi al vento e creare pericolose conseguenze sociali nel paese. L’errore è stato quello di farla entrare nell’euro (per motivi prettamente politici); farla rimanere sarebbe diabolico.

  7. luca salvarani

    E’ una vergogna che miliardi di euro dei contribuenti vengano dati a un paese straniero prossimo al default, nostro competitor economico in svariati settori (per es il turismo), che ha ripetutamente truccato i suoi conti pubblici, non ha ancora fanno nessuna seria riforma interna e insulta pubblicamente i suoi creditori. Il tutto senza nemmeno un voto del parlamento, quando persino fare una stradina in comune sperduto richiede il voto del consiglio comunale!! Se Berlusconi vuole finanziare un paese fallito al 5% (tasso ritenuto elevato dagli aitori) che lo faccia pure, ma con i suoi soldi, non con quelli dei contribuenti! Per quale motivo la Grecia deve essere aiutata e l’Irlanda si è dovuta arrangiare? Che comincino a tagliare i salari dei dipendenti pubblici del 30% come in Irlanda e poi ne riparliamo. Dove si prenderanno i soldi per salvare la Spagna e il Portogallo e ovviamente anche l’Italia (money printing escluso)? I soldi dati alla Grecia sono comunque debito. Come si può sperare di risolvere una crisi dovuta all’eccesso di debito contraendo ancora altro debito? Il nuovo debito sarà ipergarantito perciò ci saranno cmq perdite per i vecchi bonds!

  8. Giuseppe De Marte

    Stavamo appena uscendo da una crisi finanziaria globale, quando ci ritroviamo in pieno in un’altra crisi finanziaria di portata europea. Si cercano le colpe, i colpevoli, i registi occulti, e persino i partner europei non sono d’accordo. Scoprire che uno dei paesi fondatori è perino euroscettico, per dare retta al suo elettorato, è proprio un’incredibile segnale di crisi di una leadership. Bisogna uscire dalla economia di carta e tornare alla economia reale, ma quella sana: ovvero quella che produce bellezza, posti di lavoro, benessere sociale, civile e ambientale. Questo lo devono capire tutti, sia i cosidetti fattori di produzione, che la politica, che deve fare molti passi indietro e tornare ad essere quella con la P maiuscola. La Grecia, culturalmente, e la Germania, pragmaticamente, sono tra i soci "fondatori", di un club di valori chiamato Europa. Non credo che le istituzioni europee stiano a guardare che qualsiasi default, voluto da agenzie di rating, da speculazione di fondi sovrani e certamente anche da errori nella politica economica europea, abbia mai luogo, proprio in nome di quei valori.

  9. Guido Meak

    Buongiorno e grazie per l’articolo. Concludete con un accenno alla “disciplina fiscale”. Sarebbe bello leggere qualcosa sull’interazione tra fiscalità e cultura. La mia impressione è che la disciplina fiscale che un popolo è disposto ad accettare, o a darsi attraverso i suoi sistemi democratici interni, dipenda dalla sua cultura dominante. Conseguentemente, l’idea che nel lungo periodo in Grecia cambi qualcosa appare velleitaria. A meno che, come peraltro voi stessi suggerite, l’Europa non metta in piedi sistemi di controllo, di incentivazione e di sanzione che progressivamente impongano dall’esterno una diversa linea di condotta fiscale e, mi sento di aggiungere, che questi meccanismi di incentivazione collaborino con la comunicazione e la libera circolazione delle persone e delle merci per cambiare l’intero approccio culturale al lavoro e alla concorrenza. Ma è tutto questo davvero necessario? E se sì, può realisticamente avvenire? Mi pare un problema simile al rapporto nord-sud da noi in Italia.

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