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FINANZIAMENTI PRIVATI PER UNIVERSITÀ PUBBLICHE

La riforma prevede la presenza obbligatoria di un numero minimo di rappresentanti esterni nei consigli di amministrazione delle università. I portatori di interessi dovrebbero assicurare un vero impegno attraverso adeguati investimenti. Che naturalmente dovrebbero inserirsi in un quadro regolamentare che ne preveda una specifica finalizzazione. Perché inutile illudersi: non si può fare affidamento sulle sole risorse statali. Meglio allora chiamare gli stakeholder realmente interessati all’istruzione superiore ad assumersi fino in fondo le loro responsabilità.

Le università italiane si trovano in una situazione per certi versi analoga a quella della società di capitali dopo la revisione del diritto societario nel 2004: affrontare la sfida dei nuovi statuti. La differenza è che per gli atenei non si tratta di una semplice opportunità, ma di un obbligo da rispettare in termini relativamente brevi: luglio 2011.

I NUOVI CONSIGLI DI AMMINISTRAZIONE

È una grande opportunità valorizzare alcuni aspetti di una riforma che altrimenti corre il rischio, ricorrente con questo governo, di risolversi nella solita cortina di fumo che, quando si dissolve, lascia intravedere il niente più assoluto.
Uno di questi è il ruolo del consiglio di amministrazione con la presenza obbligatoria di un numero minimo di rappresentanti esterni.
L’argomento è stato oggetto di feroci polemiche, soprattutto da parte di chi vede nella rappresentanza una sorta di cavallo di troia per l’incombente privatizzazione dell’istruzione universitaria.
In realtà, e a prescindere dai soliti e totalmente inutili furori ideologici, è questa un’esperienza largamente diffusa nelle università europee e, lo testimonia l’indagine di Lorenzo Marcucci, una buona governance fondata anche sulla presenza di membri esterni nell’organo collegiale di governo incide positivamente sugli indici di performance degli atenei. In molte università italiane la prassi delle nomine esterne è poi già conosciuta, senza che in verità ne siano conseguiti straordinari risultati. (1)
Non si tratta, quindi, di una grande novità, a meno che gli statuti e chi li scrive non aprano un coraggioso laboratorio di sperimentazione.
L’articolo 2 della legge di riforma lett. i) lascia molta libertà nel determinare le modalità di scelta dei membri esterni e la loro provenienza: gli unici vincoli sono quelli della non appartenenza ai ruoli dell’ateneo e il possesso di comprovate competenze gestionali o riconosciute esperienze professionali, con particolare riferimento ai settori scientifici e culturali. Si può, in sostanza, andare a pescare come e dove si vuole, anche perché i requisiti personali sono così elastici da poter ricomprendere un numero illimitato di qualificazioni (ci si può sbizzarrire: da un imprenditore a uno scienziato, da un manager a un dirigente pubblico, fino ad arrivare a un docente di altro ateneo).

COMPETENZE E RISORSE

Prima di scegliere è, allora, importante chiarirsi bene le idee su cosa ci si aspetta dalla presenza esterna e dal suo contributo al funzionamento del consiglio di amministrazione.
Se l’idea è quella di avvalersi di competenze in grado di garantire un dialogo con il tessuto economico e sociale e quindi una più attenta percezione delle domande di formazione e ricerca che questo esprime, si può probabilmente continuare nel solco della tradizione, già seguita appunto da molti statuti, individuando soggetti rappresentativi di interessi in grado di riflettere quelle istanze.
È però una strada molto debole perché finisce con l’attribuire a quegli interessi un potere privo di responsabilità, strada che diventa rischiosa se si pensa alle rilevantissime competenze strategiche assunte dai nuovi consigli di amministrazione. Soprattutto il settore privato, già notoriamente avaro negli investimenti in formazione e ricerca, potrebbe trovarsi nella comoda posizione, lo dice ben Gigi Roggero sull’ultimo numero di Studi culturali, di “utilizzare e decidere delle politiche universitarie senza dover investire un solo euro, rafforzando, quindi, il proprio ruolo parassitario”. (2) E un divertente, ma serissimo, documento della Uil ci informa di come una delle tante riforme del Cnr abbia previsto l’attribuzione di un componente del Cda a un rappresentante di Confindustria, carica ricoperta da una autorevole esponente degli industriali, senza che nel corso del mandato si sia visto il becco di un quattrino in più di risorse private. (3)

I SOLDI DEI PRIVATI E L’UNIVERSITÀ PUBBLICA

Al contrario, i portatori di interessi dovrebbero assicurare un vero impegno attraverso adeguati investimenti; questo garantirebbe una partecipazione al governo universitario con reali forme di responsabilizzazione sugli indirizzi gestionali e strategici.
Naturalmente, gli investimenti dovrebbero inserirsi in un necessario quadro regolamentare, prevedendone la specifica finalizzazione. Se si devono escludere apporti alle spese generali di funzionamento, potrebbero essere istituiti specifici fondi alimentati (anche) dalle risorse private; ad esempio in relazione alle iniziative di internazionalizzazione (articolo 2 lett. l), o di promozione del merito tra gli studenti. Il famoso fondo di cui all’articolo 4 corre il rischio di rimanere lettera morta perché non ci sono soldi, ma il comma 9 dello stesso articolo prevede la possibilità di apporti privati che al momento rappresentano, forse, l’unica ancora di salvezza.
Può sembrare paradossale, ma uno statuto teso a valorizzare la funzione pubblica dell’università e a tenere il più lontano possibile forme di privatizzazione strisciante, dovrebbe comportarsi in modo esattamente opposto da quello indicato da chi vorrebbe rappresentanze esterne slegate da qualsiasi interesse economico privato.
Sul futuro non bisogna farsi illusioni: comunque la si metta, e anche sperando in una radicale inversione delle attuali politiche di darvinismo universitario, non si può fare affidamento sulle sole risorse statali e allora è meglio chiamare gli stakeholder realmente, e non a parole, interessati all’istruzione superiore ad assumersi fino in fondo le loro responsabilità.
La domanda è: in un consiglio di amministrazione è meglio avere il solito rappresentante di una associazione di categoria che farà le solite litanie, o un imprenditore che decide di investire nell’università pubblica e mette i suoi soldi per finanziare formazione e ricerca e vuole controllare i risultati di questi investimenti? 

(1) Sulle esperienze delle università europee si veda Stefano Marcato, “Sistemi di governo delle Università. Un rapporto delle associazioni delle università europee” sul sito  www.uspurbo.it. Mentre i risultati dell’indagine di Lorenzo Marcucci si trovano su www.lavoce.info, “La riforma dell’università parte dalla governance” del 26 ottobre 2010.
(2) G. Roggero, “Dalle macerie alla crisi. Affermazioni e tendenze della “global University”, in Studi Culturali, n. 3, 2010, p. 415
(3) Uil, “Contro i facili slogan e le cattive riforme: La nostra critica al Ddl Gelmini sull’università”, sul sito www.uilrua.it

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CHI PIANGE SUL LATTE DI PARMALAT

  1. Paolo Quattrone

    L’articolo mi sembra valido nel dire che vi sono indubbiamente degli elementi interessanti nella riforma ma meno incisivo nel discutere della effettiva efficacia e fattibilità di molte delle proposte. La governance e’ una di queste. Il modello "corporate" che ispira la riforma (dove la presenza di external executives migliora la performance) è chiaramente mutuato da modelli che poco hanno a che fare con il nostro tessuto imprenditoriale e culturale. Quindi la domanda finale è mal posta, perchè in molte zone del Paese esterni che apportino risorse non ne vedo. La Business school e la nuova Government school di Oxfrod hanno attratto rispettivamente donazioni per 30 e 90 milioni di sterline, con cui si ottengono gli edifici (giusta soddisfazione dell’ego del donor) e un paio di endowments per lecturerships. Dove sono tutti questi privati dietro la porta delle universita’? Se ci fossero sono certo che anche i rettori sarebbero felici di averli "on board". Ma io non li vedo. In più molta dell’innovazione tecnologica negli US è finanziata da fondi pubblici (vedi defence). Quindi di che università stiamo parlando?

  2. salvatore

    "Perché inutile illudersi: non si può fare affidamento sulle sole risorse statali." Forse perchè un Governo corrotto non sarà mai in grado di combattere la corruzione (60 miliardi di euro) e un Governo di mafiosi non sarà mai in grado di combattere l’evasione fiscale (20 miliardi di euro).

  3. Calogero Massimo Cammalleri

    Mi pare che ella contrapponga il suo di “furore ideologico”, quello del “buon privato”, a chi teme la privatizzazione dell’università statale; perchè quella pubblica non statate è già, nei fatti, privatizzata. Afferma che «inutile illudersi: non si può fare affidamento sulle sole risorse statali», ma non dice perché non bisognerebbe illudersi, cioè pretendere di avere un finanziamento pubblico decente ed europeo. La sua è un’affermazione, non una dimostrazione, in contrasto con la natura sociale della costituzione repubblicana. Sostiene poi che gli statuti dovranno prevedere un «quadro regolamentare che ne preveda una specifica finalizzazione» (degli investimenti dei privati, nda). Tuttavia ciò non è facilmente possibile, dal momento che la pessima legge Gelmini “impone” alle università di inserire esterni nel “nuovo” CDA. Dunque anche se non portano un euro. E poi: pecunia olet o non olet? Perchè se non puzza è facile prevedere che i due o tre posti in CDA saranno appannaggio dei politici trombati o peggio di “rispettabili banchieri”. Magari come Michele Sindona. L’Italia sarà pure una, ma non è tutta uguale. Sarà diversa ma ha gli stessi diritti.

  4. Lucia Pasquadibisceglie

    Mi chiedo: i privati non saranno tentati a finanziare solo i settori universitari da cui poter trarre un immediato profitto? Chi finanzierà i corsi di laurea in Lettere, in Filosofia, in Storia?

  5. antoniutti stefano

    Appoggio l’intervento di Quattrone: ma di che cosa stiamo parlando? A volte ho l’impressione che chi scrive sui media faccia parte di quella schiera di bravi economisti che va per la maggiore, e dall’alto di un dottorato o di un master a Londra o ad Harvard pretenda di applicare le cose che gli hanno insegnato lì, e che lì funzionano anche qui, in un contesto diverso radicalmente. Già abbiamo avuto il 3+2 copiato dal mondo anglosassone, ed è il disastro che è sotto gli occhi di tutti, non abbiamo imparato nulla? Quando capiremo che l’Italia assomiglia di più alla Francia o alla Spagna che agli USA o all’UK? O siamo sempre fermi ai dirigenti che, non sapendo dare soluzioni ai problemi che hanno davanti preferiscono cambiare i problemi/le situazioni fino a che fittano gli esempi del libro su cui hanno studiato? Chi dovrebbe finanziare l’università? Gli industriali che ti propongono di "fare ricerca" scoprendo cosa mettono i loro concorrenti tedeschi nei loro prodotti" che poi li facciamo noi a metà schei e ghe portemo via i clienti?" Spero tanto di sbagliarmi, ma…..

  6. Valerio Mammone

    Che ne sarà della ricerca pura, quella cioè non funzionale a un immediato ritorno economico ma decisiva per il progresso della tecnologia e delle scienze? Dove lo trova un imprenditore disposto a finanziare progetti di ricerca a lunga gittata (come quelli per la cura dell’Aids), senza avere la certezza che possano fruttare nell’immediato un lauto compenso? Continuiamo a mettere tamponi momentanei, laddove avremmo bisogno di riforme strutturali. I nostri imprenditori non sono capaci di mettersi d’accordo per rilevare le nostre aziende (vd Bulgari); figuriamoci se sarebbero in grado di risollevare le sorti delle università.

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