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LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie a tutti i lettori dei commenti, rispondo brevemente per punti ricalcando alcune delle osservazioni mosse.
1) Nei concorsi inglesi c’è l’ostacolo della domanda (application) che richiede un impegno significativo nella compilazione. Ottima osservazione, infatti per l’accesso al mondo del lavoro pubblico o privato le capacità attitudinali sono spesso molto più importanti delle competenze specifiche. In questo senso l’università di provenienza ha un impatto enorme perché Università come Oxford o Cambridge (e molte altre, naturalmente) offrono opportunità di crescita formativa extracurriculare e orientamento che sono tanto importanti quanto la preparazione accademica vera e propria, se non di più. E’ un altro esempio di una cultura basata più sulle competenze (transferable skills) che sui titoli. Un laureato che si sia dimostrato un finissimo giurista o matematico ma che non abbia dimostrato qualità manageriali e attitudine al ‘public service’ difficilmente passerà il concorso. Ottimi studiosi possono essere pessimi dirigenti pubblici.
2) Le università dovrebbero pubblicare le posizioni occupazionali dei loro laureati. Sono pienamente d’accordo e in Inghilterra molte università lo fanno, anche se a dire la verità tutte si tengono sul vago. È sicuramente un principio di trasparenza che andrebbe adottato. In Italia sarebbe interessante chiedere, oltre alla posizione professionale, il numero di giorni retribuiti lavorati all’anno.
3) La consultazione del ministero è tendenziosa. Purtroppo è vero, alcune domande obbligano a scegliere una soluzione per ripesare i voti anche quando il rispondente è contrario per principio. Può comunque essere interessante vedere, tra i contrari al ripesamento, quale opzione sia la meno osteggiata ma sarà un dato da non strumentalizzare.
4) Il sistema ‘pesi della laurea’ applicato al settore pubblico trasformerebbe le aspettative di chi si iscrive all’università. Concordo naturalmente che il voto di laurea sia un traguardo molto importante. Non sono però convinto che la maggioranza dei liceali si iscriva all’università pensando ai concorsi pubblici (almeno, mi auguro di no), anche perché questi sono aperti solo ad alcune classi di laurea in scienze sociali e legge. Più in generale, valorizzare i percorsi individuali vuol dire anche lasciare spazio alle commissioni per valutare il valore reale dei titoli caso per caso, senza imbrigliarsi in una gerarchia dei titoli sanzionata dallo stato– perlomeno, questa è l’esperienza anglosassone. Peraltro anche in Italia è già così per molti tra i concorsi migliori e più competitivi, come in Banca d’Italia dove il requisito d’accesso è un voto minimo di 105.
Se posso finire con una provocazione, si potrebbe cogliere l’occasione per abbandonare il nostro culto per i titoli e smettere di dare la qualifica di “dottore” a tutti i laureati. Soltanto in Italia non ci sono mai nomi propri – siamo tutti dottori. Si tratterebbe di poca cosa, simbolica al più, ma essere dottori solo fino al confine è francamente un po’ imbarazzante.

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FREQUENZE E TV NELL’ERA DI MONTI

  1. Olmo Forni

    C’e’ anche la mica, l’oro dei folli. Il sistema “meritocratico” di USA e Gran Bretagna di fatto favorisce le universita’ serie, ingessando la stratificazione e bloccando la mobilita’ sociale. 1. Il meccanismo di selezione all’ingresso si applica anche all’accesso universitario e, soprattutto nel caso USA, all’intero sistema scolastico, con la conseguenza estrema per cui, se non si riesce ad iscrivere la progenie al nido giusto, si rischia di precludere l’accesso alla Ivy League. 2. Perche’ dati i costi di tuition e alloggio, chi ha gia’ di suo puo’ permettersi le scuole migliori senza colpo ferire, il resto della popolazione ha come alternativa il debito studentesco (oltre $20k/studente a fine laurea triennale di media, $60k e piu’ per medicina e law school) od un universita’ di scarsa qualita’ e con prospettive d’impiego ridotte. Senza considerare la diversificazione delle tariffe su base territoriale, per cui gli studenti stranieri (o di un altro stato negli USA) subiscono tariffe a volte piu’ che raddoppiate. Le borse di studio esistono, ma sono limitate e non sostituiscono il diritto universale allo studio. E’ forse questo il modello cui aspiriamo?

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