La Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sul contrasto all’elusione fiscale e alla pianificazione fiscale aggressiva. Le basi giuridiche dell’intervento sono deboli, ma si tratta di un primo passo sul tema. Sei misure ricalcate sul piano d’azione dell’Ocse. Effetti in Italia.
Basi giuridiche fragili per un intervento forte
Il 28 gennaio 2016 la Commissione europea ha ufficialmente presentato una proposta di direttiva sul contrasto all’elusione fiscale e alla pianificazione fiscale aggressiva (COM(2016) 26 final): mai, prima d’oggi, la volontà di intervenire su un tema così sensibile aveva assunto questa incidenza a Bruxelles e mai s’era manifestata con strumenti tanto penetranti quanto tuttavia fondati su basi giuridiche fragili. La base giuridica scelta dalla Commissione, infatti, è l’articolo 115 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfeu) che permette l’utilizzo di direttive per avvicinare le legislazioni degli Stati membri in contesti nei quali l’unilateralismo finirebbe per pregiudicare il mercato comune o in ogni caso per produrre un effetto non soddisfacente. Ecco che allora, nel rispetto degli ulteriori principi di sussidiarietà (articolo 5 del Trattato Ue) e proporzionalità, la Commissione può farsi motore di progetti in settori che non sono di esclusiva competenza degli Stati. Il punto è però che in materia di fiscalità diretta (a differenza dell’Iva, delle dogane e delle accise armonizzate) le prerogative statuali sono massime e i poteri di intervento della Commissione particolarmente deboli. La direttiva in questione, per i rimedi che propone e per gli istituti giuridici che configura, è essenzialmente pensata proprio per il settore più estraneo all’intervento europeo: è facile immaginare la battaglia legale che si scatenerà durante la sua discussione.
Sei misure contro la perdita di gettito
Per quel che riguarda il merito, invece, la proposta sembra trarre il meglio dal piano d’azione Ocse sull’erosione della base imponibile e sul trasferimento artificioso del profitti all’estero (cosiddetto piano d’azione Beps) finalizzato nel 2015, con il quale proprio l’organizzazione di Parigi aveva suggerito agli Stati membri linee di policy per garantire l’effettività della tassazione, un efficiente contrasto alle forme di pianificazione tributaria aggressiva e una fiscalità sostenibile. La proposta di direttiva è orientata così ad assicurare un minimo livello di protezione dell’erario dei diversi Stati, lasciando impregiudicato il loro potere di adottare strumenti di contrasto all’elusione anche più aggressivi, purché compatibili con il diritto Ue. L’obiettivo è perseguito proponendo, nei fatti, sei misure che dovrebbero intercettare le operazioni che maggiormente danno luogo a perdite di gettito: (1) la deducibilità degli interessi passivi; (2) la tassazione di uscita (Exit taxation); (3) una clausola generale anti elusiva; (4) una migliore e più raffinata disciplina delle società controllate estere; (5) una chiara regolamentazione degli strumenti finanziari (o dei soggetti ibridi); (6) una originale proposta per una “switch over clause”. Il tentativo, sul piano giuridico, è ambizioso: si cerca di mediare fra le libertà fondamentali sancite dal Trattato Ue (libertà di stabilimento e circolazione in primo luogo) e la necessità di mantenere sul territorio dello Stato (di ogni Stato) quanto più reddito imponibile possibile. La volontà di radicare la proposta sul principio giuridico della sussidiarietà, individuando così una competenza concorrente fra Unione e Stati (articolo 5), tuttavia, lascia un po’ perplessi dato che la fiscalità diretta rientra ancora in quella esclusiva degli Stati membri dell’Unione. Ogni scelta eurounitaria, adottata con direttiva, deve essere poi realizzata all’interno degli ordinamenti degli Stati: l’Italia, questa volta, si troverebbe in un’ottima posizione visto che alcune delle sei misure suggerite dalla Commissione sono, in modo più o meno rispondente al modello Ue, già vigenti. La limitata deducibilità degli interessi passivi, la clausola generale anti-elusiva (peraltro di recente introduzione all’articolo 10bis della legge 212 del 2000) sono norme di presidio dell’interesse erariale già applicate in Italia, mentre altre, pur già previste, avrebbero bisogno di una limitata revisione qualora la direttiva venisse approvata. È il caso del regime fiscale delle società controllate estere (Cfc), la cui compatibilità con il diritto Ue era stata fortemente messa in dubbio dalla Corte di giustizia in precedenti che hanno fatto giurisprudenza, come il Cadbury Schweppes. Altre, infine, costituiscono un’assoluta novità, come la switch over clause, in base alla quale si cerca di garantire un massimo comun denominatore di tassazione per il reddito transfrontaliero imponibile (di modo che se non è uno Stato a tassarlo, allora potrà provvedere l’altro): si tratta di una soluzione che, in questi termini, non era stata neppure suggerita nell’ambito del piano d’azione Beps. Insomma, il quadro che emerge dagli strumenti tecnici proposti è ispirato a una forte segmentazione degli interventi, orientato com’è ad affrontare specifici aspetti o altrettanto selettive modalità di elusione fiscale internazionale. A prescindere dal giudizio di merito sul contenuto (ad esempio, la limitazione alla deducibilità degli interessi passivi al 30 per cento rischia di essere addirittura superata in alcuni paesi nei quali si discute sull’opportunità di ridurre ulteriormente la quota-parte fiscalmente rilevante), va però riconosciuto che si tratta di un primo, timido passo avanti della Commissione e dei politici eurounitari sul tema dell’elusione fiscale.
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Henri Schmit
Articolo molto interessante che non può però far dimenticare il fatto che la prima causa dell’evasione, dell’elusione e dell’ottimizzazione internazionale (la differenza dipende dall’aggressività della soluzione e dall’aggressività del paese che la prevede) è la fiscalità italiana, non la permissività eccessiva e sleale in alcuni posti. Un esempio: Una multinazionale con sede vicino a Milano propone ad alcune decine di dipendenti di scegliere fra un trasferimento in Svizzera o un licenziamento per ragioni economiche, con la solita buonuscita. Scommettiamo che la frazione di reddito tassabile che è migrato così oltrefrontiera è proporzionalmente superiore al numero di persone trasferite rispetto a tutto il personale. Ecco perché il problema è soprattutto nazionale.