Quali sono stati gli effetti del movimento studentesco del ’68 sull’istruzione? Una vera riforma dell’università arrivò solo molti anni dopo. Il cambiamento fu nella scuola, con i decreti delegati del 1974. E la leva fu la sindacalizzazione degli insegnanti.

L’eredità del ’68

Il ’68 e l’istruzione è una interessante raccolta di interventi a cura di Luciano Benadusi, Vittorio Campione e Roberto Moscati (editore Guerini e Associati). Testimoni diretti di quegli anni, sia i curatori sia gli autori di alcuni contributi – fra gli altri, Luigi Berlinguer, Alessandro Cavalli, Enrico Pugliese, Giunio Luzzatto, Fiorella Farinelli – sono stati in seguito tra i protagonisti del riformismo della sinistra italiana in campo educativo, in particolare negli anni Ottanta e Novanta. Ne risulta una significativa motivazione a esplorare, in vario modo e su un medio periodo, l’eredità, o almeno gli effetti, del movimento studentesco.

Nonostante la contestazione radicale delle istituzioni, delle pratiche e delle culture tradizionali del sistema educativo e il rifiuto dell’interazione con la politica e la legislazione sul piano classico dei progetti di riforma, in quali termini il ’68 ha generato di fatto un cambiamento profondo della scuola e dell’università? Uno dei pregi del libro è l’invito abbastanza esplicito a distinguere, da un lato, i tratti del processo culturale di lunga durata e a dimensione internazionale – fino alla rottura e alla messa in crisi della concezione intrinsecamente autoritaria delle forme di trasmissione della conoscenza su cui era stato disegnato storicamente il sistema; dall’altro, il suo difficoltoso tradursi in cambiamenti sostanziali, negli ordinamenti e nelle forme della didattica.

Sul primo versante, diversi contributi si occupano di quella decisiva connessione generazionale che, nonostante profonde differenze tra i vari paesi, collegava tre fenomeni, ossia: a) la fase effervescente di trasformazione (in tutto l’Occidente) negli anni Sessanta del “disgelo”, in termini di accelerazione e trasformazione dei linguaggi, dei consumi, dei media, con l’emergere dei giovani come soggettività culturale e sociale; b) la comparsa, sorprendente per l’establishment, di movimenti studenteschi di rivolta che costellano un decennio “fluido” (Cavalli), a partire dal Free Speech Movement di Berkeley nel 1964, che solo in Italia si prolungano per tutti gli anni Settanta; c) le basi teoriche, in buona parte nuove, che si facevano strada nelle scienze sociali, intese in senso esteso (Birmingham, ma anche Chicago e Toronto; Edgar Morin, Rolan Barthes e Pierre Bourdieu – suggerirei di rileggere i cataloghi editoriali di Einaudi, Feltrinelli e non solo). Nelle università i docenti più giovani erano i protagonisti del rinnovamento, mentre in contrasto con l’arretratezza della pedagogia pre-’68 si manifestava un ribollire, nella scuola e fuori (da don Milani a Danilo Dolci), di nuove esperienze alternative, che negli anni successivi si riversò in un esteso movimento educativo e associativo, destinato a influenzare centinaia di migliaia di insegnanti.

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Fu una rottura culturale che tuttavia non si tradusse in un quadro organicamente nuovo e condiviso, cosicché i tentativi, negli anni Novanta, di riorientare il sistema verso articolazioni e competenze coerenti con i profili emergenti dei “lavoratori della conoscenza” si scontrarono con forti resistenze e incomprensioni, in parte derivanti dalla mentalità della stessa generazione “anti-autoritaria” del ’68.

La risposta confusa della politica

Inefficace e confusa, del resto, fu la risposta delle istituzioni educative, dei partiti e del riformismo parlamentare, nettamente separati dal paesaggio “di movimento” in cui per diversi anni si ritrovarono uniti in modo magmatico gli studenti, gli operai dell’“autunno caldo” del ’69, il sindacalismo dei consigli di base e di zona, le formazioni di una nuova sinistra radicale e la base dei partiti della sinistra storica. Ciò favorì l’inerzia interessata della Dc e dei suoi apparati ministeriali, ma anche di aree intellettuali di destra e di sinistra, fedeli a una concezione “elitista” (e centralista) del sistema educativo. Ritenendo l’università un nodo decisivo per gli equilibri di potere, il quadro “istituzionale” rispose all’affollamento, al cambiamento della composizione sociale degli studenti e alle occupazioni delle facoltà e delle scuole portando provvedimenti poco incisivi alla decadenza della legislatura, nello stesso 1968 e poi nel 1971, e limitandosi a varare nel 1969, come “provvedimenti urgenti”, la liberalizzazione degli accessi da tutti i canali della scuola secondaria e il diritto di presentare piani di studio individuali. Erano tra le rivendicazioni delle assemblee e non furono senza effetti positivi. Ma un vero processo di riforma, ancora sostanzialmente rimandato dal compromesso parlamentare del 1980 (la legge 28), si innescò solo dieci anni dopo, con l’impostazione autonomistica proposta in chiave già europea dal ministro Antonio Ruberti. Il vero effetto a breve termine del movimento fu dunque nella scuola, con i decreti delegati del 1974, che introducevano gli organi collegiali, riducendo l’autoriferimento, e ampliando spazi di cittadinanza, di dialogo e di progettualità collettiva. E la sua vera leva fu la sindacalizzazione degli insegnanti, sostenuta allora da una disposizione non corporativa e politicamente generosa.

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Luciano Benadusi, Vittorio Campione e Roberto Moscati, Il ’68 e l’istruzione – Prodromi e ricadute dei movimenti degli studenti, Guerini e Associati, 2019, 160 pagine, 6,99 euro (e-book)

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