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Donna e manager: la parità non arriva da un voucher

Basterà il voucher per frequentare un Mba a correggere la carenza strutturale di donne in posizioni dirigenziali? Un ostacolo alla progressione di carriera è il carico di lavoro di cura che ricade sulle donne. Di questo dovrebbe occuparsi la politica.

Un voucher per diventare donna-manager

Nella conferenza stampa di domenica 21 giugno, a chiusura degli Stati generali dell’economia, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha presentato i punti salienti del programma “Progettiamo il rilancio”, ossia quell’insieme di misure di politica economica che dovrebbero rimettere in piedi il paese al termine di una delle crisi economiche e sanitarie peggiori della storia. Tra le varie proposte, Conte ha fatto riferimento anche all’introduzione di un voucher per pagare un percorso di formazione avanzato (un Master in Business Administration, Mba) a 500 donne che “aspirano a diventare manager”.

Forse per via di un lapsus, il presidente aveva presentato la misura come un voucher di 500 euro per tre anni alle donne manager “per dare una svolta all’empowerment femminile”, dal momento che “nelle prime 500 imprese solo il 6 per cento è guidato da donne”. Al di là del lapsus, è quantomeno bizzarro non rendersi conto che 500 euro per tre anni alle donne che aspirano a diventare manager sia una proposta assolutamente senza senso, dal momento che lo stipendio medio lordo annuo di una donna con qualifica di dirigente nel settore privato è pari a circa 92 mila euro (contro i 114 mila di un dirigente uomo, giusto per non dimenticarsi il gender pay gap).

Ma torniamo alla proposta vera, ossia il voucher per le donne che intendono intraprendere un Mba: sarà efficace rispetto all’obiettivo di correggere la carenza strutturale di presenze femminili in posizioni dirigenziali? Innanzitutto, un Mba è un programma di formazione avanzato rivolto a soggetti che abbiano già un’esperienza lavorativa e che intraprendono il percorso per aumentare le proprie competenze e prospettive di carriera. Stando al ranking del Financial Times, l’effetto di un Mba sul salario individuale è un incremento almeno doppio a tre anni dalla fine del corso in 71 dei 100 atenei inclusi nella classifica. Frequentare un Mba porterà certamente benefici in termini di salario e competenze alle donne che eventualmente vi accederanno grazie al fatto che lo stato ne sussidia il costo. Ma basterà a rompere il soffitto di cristallo e ad aumentare strutturalmente la quota di donne manager nel mercato del lavoro italiano che, nel 2018, era pari al 19 per cento sul totale dei manager (fonte: elaborazione su dati Inps)? Ci sembra difficile che sole 500 donne (o 1.500 se la misura è destinata a prolungarsi per tre anni) possano riuscire nell’ardua impresa. Certo, potrebbero rappresentare modelli di ruolo per incentivare altre donne a intraprendere percorsi di carriera simili, ma gli effetti in termini di aumento del numero di donne manager sarebbero tutt’altro che immediati. Meglio, allora, concentrarsi sull’istruzione terziaria di base di donne e uomini. Se, da un lato, nel 2018 la percentuale di donne laureate è pari a 57,1 per cento, in ingegneria è il 31,8 per cento, in Ict (tecnologie dell’informazione & comunicazione) è il 15 per cento e nelle scienze economiche e aziendali è il 47,2 per cento. La carenza di donne nelle discipline Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) non è un fenomeno solamente italiano, ma senza un rafforzamento della presenza femminile in queste materie, che oggi offrono più opportunità sul mercato del lavoro, è difficile aspettarsi progressi significativi sulla quota di donne manager.

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Perché le ragazze tendono a scegliere meno i percorsi di laurea in ambito scientifico ed economico? I fattori possono essere molteplici e legati sia al contesto in cui crescono (le aspettative della famiglia, i pregiudizi dei docenti nella scuola, l’assenza di role models nella società) sia a fattori personali, come la minor fiducia nelle proprie capacità nelle discipline matematico-statistiche rispetto agli uomini. Inoltre, trattandosi di discipline dominate dagli uomini, le donne potrebbero avere più difficoltà a formare network oppure essere meno disponibili alla competizione. Difficile che programmi di formazione – quali gli Mba – che intervengono a valle di tutti gli investimenti in istruzione possano sciogliere questi nodi.

Dove si inceppa la carriera

C’è però un ostacolo alla progressione di carriera delle donne che non dipende dal corso di laurea frequentato e che persiste anche per quelle che frequentano l’Mba: il carico di lavoro di cura che le donne si trovano a sostenere dopo la nascita di un figlio. Uno sbilanciamento che non può essere risolto a suon di voucher, ma che richiede un definitivo scatto culturale nel nostro paese, che ancora vede nella donna la prima responsabile dei compiti di cura. L’impatto sui redditi e sull’offerta di lavoro delle donne della nascita di un figlio è stato già discusso in un precedente articolo. La maternità ha però un impatto significativo anche sulla probabilità di ricoprire un ruolo dirigenziale, come mostra la figura 1. Il grafico riporta le stime, ricavate con tecniche econometriche, della percentuale di donne con e senza figli che hanno la qualifica di dirigenti (sulla base di un campione di dati Inps del settore privato tra 1985 e 2016) rispetto all’anno antecedente la maternità, nei cinque anni prima e nei quindici dopo la nascita di un figlio. Il grafico mostra come prima della nascita le traiettorie di donne con e senza figli siano praticamente sovrapponibili, ma dopo la nascita quelle con figli pagano una penalità in termini di opportunità di carriera rispetto alle donne senza figli (queste ultime individuate nel campione di dati in modo tale da risultare comparabili alle mamme nel periodo antecedente la maternità). La differenza nella probabilità di ricoprire ruoli apicali è dunque correlata alle scelte di vita delle donne, una questione che può essere affrontata solo agendo sulla genitorialità e sulla condivisione dei compiti di cura tra uomini e donne. Un proposito che, comunque, il governo sembra essere intenzionato a perseguire attraverso il Family act.

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Figura 1 – Percentuale di donne con qualifica di dirigenti intorno alla nascita di un figlio rispetto all’anno antecedente la maternità

In generale, cercare di chiudere il gap nelle prospettive di carriera di uomini e donne è urgente. Dubitiamo che il voucher per frequentare un Mba sia la soluzione, tenendo anche conto del costo complessivo che graverebbe sulle finanze pubbliche. Se le donne non fanno carriera per il tipo di capitale umano che accumulano, meglio non aspettare il tempo del master per intervenire. Se le donne non fanno carriera per una interazione viziosa tra comportamento delle imprese e divisione dei compiti di cura all’interno delle famiglie, allora meglio concentrarsi su organizzazione dei tempi di lavoro e di cura e sulle politiche salariali delle imprese come target dell’azione politica. Se ne parla da tempo: gli Stati generali sarebbero dovuti servire semplicemente per dire da dove la politica vuole partire.

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  1. Henri Schmit

    Siamo alla frutta! Piccoli regali a destra e a manca per colpire l’immaginazione dei creduloni. Rifiuterei di commentare questo tipo di misure! Controllerei dopo chi sono le fortunate beneficiarie. Quello che manca drammaticamente non da ieri è un piano generale (criteri, proposte, scenari, effetti) di riforma fiscale. Il governatore di Bankitalia ha giustamente evidenziato l’importanza di quest’idea, ora con lo sconvolgimento causato dall’epidemia più indispensabile e per assurdo più facile da realizzare che mai, da 15 anni almeno. La stessa cosa vale per la politica a favore delle famiglie, delle donne e dei giovani.

  2. Luca Neri

    La relazione tra progressione di carriera e tempo dedicato al lavoro è ovvia e perfettamente coerente col trend evidenziato in figura 1. L’assunzione che aleggia più o meno esplicitamente in tutto il vostro articolo (e in genere nell’approccio femminista al problema del labor supply femminile) è la seguente: 1. uomini e donne avrebbero costitutivamente la medesima propensione a perseguire obiettivi di carriera se non fosse che 2. le donne sono costrette ad occuparsi dei bambini (i.e. ipotizzate che le donne non siano libere di allocare il loro tempo liberamente). Queste due assunzioni sono per lo meno non adeguatamente sostenute empiricamente, se non del tutto prive di fondamento. Il dubbio che le donne con figli scelgano liberamente di riallocare diversamente il loro tempo dopo la nascita di un figlio è completamente da scartare? Già oggi il concedo parentale non obbligatorio è equamente allocabile tra i genitori ma pochissimi scelgono questa opzione.

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