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Il posto della cultura nel Pnrr

Il settore “cultura” comprende mondi diversi, ma sempre più interconnessi. Il Pnrr dà la possibilità di sviluppare progetti che ne ampliano il ruolo, insieme alla consapevolezza collettiva della sua importanza. Non sarà facile, ma vale la pena provare.

La cultura in tre temi

L’insediamento del nuovo governo riporta alla ribalta il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, in vista della sua consegna a Bruxelles a fine aprile.

Come immaginare i prossimi passi perché i mondi della cultura facciano la loro parte? Sono organizzazioni molto diverse fra loro, ma sempre più interconnesse, che concorrono a produrre e tenere vivo quel patrimonio (materiale e immateriale) che la Convenzione di Faro (legge 133/2020) – ratificata a settembre – considera un diritto. Intanto, la scelta di costituire un dicastero focalizzato sul turismo fa pensare a uno spostamento di fuoco per l’attuale ministero per i Beni e le attività culturali e per il Turismo.

Nel rispetto della logica del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che chiede investimenti strutturali di cui possano beneficiare le prossime generazioni, tre sono i temi trasversali ai mondi della cultura che mi sembrano particolarmente rilevanti e che si aggiungono all’attività ordinaria.

Il primo è un più equo trattamento del lavoro culturale: il Covid ha sollevato il velo su un problema che i ristori non riescono a sanare; è indispensabile affrontarlo in tutte le sue sfaccettature, e nella grande varietà di profili contrattuali.

Il secondo è lo sviluppo di una strategia digitale culturale, che riguardi la creazione e il rafforzamento di mercati digitali della cultura, la formazione di uno spazio digitale pubblico, la relazione con le filiere fisiche e dello spettacolo dal vivo, l’accessibilità al patrimonio, la valorizzazione su scala internazionale dei diritti connessi al patrimonio, lo sviluppo di competenze e di attività imprenditoriali in chiave di crescita socioeconomica sostenibile e che connetta le filiere del patrimonio con quelle delle arti e industrie culturali.

Il terzo è l’accesso inclusivo alla cultura, che consenta, da un lato, una forte alleanza con i mondi dell’istruzione, della ricerca e della formazione continua, dall’altro di contrastare le varie forme di “abbandono”.

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Il Pnrr tratta i compositi ambiti della cultura in due modi:

– in modo “diretto”, prevedendo esplicitamente circa 6 miliardi per grandi attrattori/realtà minori; patrimonio materiale/digitalizzazione. A questi si aggiungono altri due miliardi all’interno della stessa linea, ma più specificamente rivolti al settore turistico;

– in modo “indiretto”, con riferimento a interventi di inclusione e coesione e iniziative di rafforzamento delle competenze a tutti i livelli.

Servono progetti chiari

Nel recente passato il ministero ha dato prova di voler progressivamente allargare il peso della cultura e di voler creare le condizioni per una maggiore consapevolezza collettiva sulla sua importanza. Da questo punto di vista, la legge di bilancio unisce alle scelte operate in continuità con gli anni precedenti alcune novità che meritano di essere riconosciute: per esempio, l’attenzione agli operatori culturali operanti nelle filiere creative e una serie di risorse specificamente rivolte all’inclusione e al contrasto alla povertà educativa a livello territoriale.

C’è però da fare molto di più per intercettare le risorse del Pnrr al di là di quelle specificamente “etichettate” per la cultura. Sulla carta, c’è la possibilità di ottenere buoni risultati, soprattutto se a livello locale si vorrà utilizzare la cultura per sviluppare una strategia integrata, per esempio facendo sponda con le risorse per il rafforzamento delle competenze digitali nella pubblica amministrazione o per l’efficientamento energetico degli edifici pubblici.

Per esempio, un comune potrebbe auspicare un rafforzamento della sua capacità di servizio alle persone con disabilità fisiche e sviluppare un progetto incentrato sulla cultura e finanziato con i fondi del Recovery Fund che preveda:

– un adeguamento energetico degli edifici pubblici che ospitano la biblioteca, il museo civico e il teatro;

– un investimento in accessibilità fisica;

– un investimento in formazione professionale del personale pubblico e privato nell’utilizzo di tecnologie digitali per il contrasto della povertà educativa derivante da difficoltà di apprendimento legate a forme di disabilità;

– lo sviluppo di servizi e attività specificamente rivolte a diverse categorie di residenti con disabilità per accesso alla cultura (per esempio, laboratori, percorsi o conferenze);

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– iniziative di aggiornamento professionale e di inserimento nel mercato del lavoro per persone con disabilità e iniziative di ascolto nelle imprese su vincoli e bisogni esistenti da realizzare nei locali della biblioteca;

– una serie di laboratori nelle scuole rivolti a studenti con e senza disabilità;

– un partenariato con centri di cura, associazioni di volontariato, associazioni culturali e imprese, che abbia l’ambizioso obiettivo di rappresentare un centro diffuso di competenze su questo ambito.

Tutto possibile sulla carta, sì, ma di non semplice realizzazione, se non attraverso progetti ambiziosi e ben definiti negli obiettivi, nei risultati attesi e nei ruoli, chiari nelle linee di finanziamento e nei relativi interlocutori e sui tempi e modi di istruttoria. Per gli amministratori locali, per i corpi intermedi, per gli operatori culturali più ambiziosi, strutturati e pronti è il momento di avere coraggio e proporsi di svolgere un ruolo di cerniera che vada oltre agli interessi di categoria.

Non sarà impresa facile, ma la dimensione delle risorse in campo mi sembra un bell’incentivo. Si dirà che il progetto delle capitali italiane della cultura va in quella direzione e che “si potrebbe fare meglio”. Si può sempre fare meglio, certamente. Ma, a volte, il meglio è nemico del bene.

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  1. Gerardo Pecci

    Da nessuna parte, nel documento del PNRR si parla o è citato il termine “Tutela dei beni culturali” anzi lo stesso ministero ha tolto dal nome ufficiale proprio i beni culturali, la ragione per la quale nacque a metà degli anni Settanta dello scorso secolo, ma, guarda un po’, oggi si parla e si afferma solo il principio della valorizzazione, un termine, in questo caso astratto, che in questo contesto mette in evidenza soltanto scelte legate al profitto economico, ma non anche alla tutela di un patrimonio culturale diffuso su tutto il territorio italiano e non certamente coincidente con gli “attrattori turistici” che sono solo 14. Una scelta monca. Una scelta che mette in difficoltà l’esercizio stesso della tutela, così come previsto dall’Art. 9 della Costituzione, in favore della sola valorizzazione.

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