La sempre maggiore importanza dei microprocessori per la produzione mondiale ha spinto la Cina a specializzarsi nel settore, anche se l’industria cinese continua a essere molto meno avanzata rispetto agli altri grandi produttori. Per raggiungere la frontiera, il ruolo di Taiwan è fondamentale.
Il settore dei microchip è al centro della competizione tra Stati Uniti e Cina per la leadership tecnologica, che i primi hanno detenuto incontrastati dalla fine della seconda guerra mondiale per qualche decennio da soli, e poi in modo integrato con un gruppo di altri paesi tecnologicamente avanzati, e da cui la Cina vuole affrancarsi, diventando essa stessa produttrice delle tecnologie di frontiera (è questo l’obiettivo del piano industriale noto come Made in China 2025). Per affrancarsi dalla tecnologia occidentale, la Cina deve poter controllare il suo cuore più avanzato, cioè i microchip. Senza la produzione di microchip, non può ambire a una maggior indipendenza tecnologica: al momento produce solo il 7 per cento dei microprocessori a livello globale. Perciò ha bisogno di assicurarsi il controllo delle grandi competenze tecnologiche di Taiwan, primo produttore al mondo di microchip, le componenti più avanzate di tutti i dispositivi elettronici usati nel mondo. Finora le imprese cinesi hanno imparato dai leader, attraverso programmi di cooperazione tecnologica con i grandi paesi produttori (Stati Uniti inclusi) e acquisizioni mirate di piccoli e medi produttori all’interno della catena. Questo grande centro di produzione di tecnologia è la motivazione latente per cui la Cina, grande importatore di microchip, accampa diritti territoriali sull’isola di Taiwan (la Repubblica di Cina), sostenendo di voler procedere verso l’unificazione entro il 2049, in occasione del centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese.
Essere isolata dalla principale supply chain dei chip, quella dominata da Taiwan, per la Cina significa perdere il traino non solo per l’approvvigionamento (vedi grafici sotto) ma anche per l’apprendimento. Per questo motivo, i media statali e le istituzioni commerciali cinesi hanno subito condannato la nuova legge varata da Joe Biden sulla produzione di microprocessori negli Stati Uniti. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese ha definito una versione precedente della legge come il risultato di una “guerra fredda e di una mentalità a somma zero”. Il Chips Act è solo l’ultima mossa degli Stati Uniti che dovrebbe colpire l’industria cinese dei chip. Washington ha anche inasprito le restrizioni sull’accesso delle aziende cinesi agli strumenti avanzati per la produzione di chip, compresi alcuni tipi di software di automazione della progettazione elettronica (Eda). Inoltre, gli Stati Uniti starebbero cercando di ampliare il divieto di esportazione delle apparecchiature per includere quelle necessarie per i processori a 14 nanometri, rispetto all’attuale divieto che riguarda i processori a 10 nanometri e inferiori. Questo include la cosiddetta alleanza Chip 4, che Washington spera possa portare a un più stretto coordinamento nel settore dei semiconduttori tra Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e Taiwan.
I produttori di chip di Taiwan si trovano al centro di questo scontro. L’isola ospita i più grandi e avanzati produttori di chip a contratto del mondo, ma oltre a dover rispettare le restrizioni commerciali di Taipei con la Cina continentale, deve anche tener conto dei continui cambiamenti provenienti da Washington. Per esempio, la Tsmc, il più grande campione di chip dell’isola, sarà un grande beneficiario di nuovi sussidi negli Stati Uniti, dove sta attualmente costruendo una fonderia da 12 miliardi di dollari a Phoenix, in Arizona.
Durante una recente visita a Taipei, la Presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi ha incontrato il presidente di Tsmc Mark Liu e ha discusso il Chips Act, sottolineando l’importanza dell’azienda per la catena globale di fornitura di chip. Il governo cinese, ancor prima che lei atterrasse a Taipei, ha iniziato a bloccare l’importazione di oltre 2 mila prodotti da Taiwan e ha annunciato diversi giorni di esercitazioni militari in sei aree vicine alla costa dell’isola. Le conseguenze per ora non sono concrete, ma hanno lo scopo di dissuadere Taiwan dal continuare ad ambire a diventare davvero uno Stato indipendente. Taiwan finora ha minimizzato le conseguenze delle sanzioni economiche, reputando improbabili ulteriori restrizioni al commercio. Infatti, sanzioni più strette colpirebbero soprattutto la Cina, che è grande utilizzatrice – e pertanto anche un player debole, in quanto dipendente – ma al contempo ha una leva di potere sulla filiera, ossia il possesso nel sottosuolo delle terre rare che servono per produrli. Il problema è proprio questo, o meglio, non si tratta di un problema, cui si trova una qualche soluzione, ma di una situazione intrecciata, in cui né la Cina potrebbe rinunciare ai chips prodotti a Taiwan, né Taiwan potrebbe fare a meno delle terre rare estratte in Cina.
Nonostante le forti proteste di Pechino, gli effetti delle politiche di Washington sulla Cina appaiono finora contrastanti. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti sta ancora approvando molte esportazioni verso la Cina, dove il campione nazionale di chip Semiconductor Manufacturing International Corporation (Smic) ha recentemente raggiunto la produzione di chip a 7 nm. La Smic potrebbe produrre chip a 7 nm utilizzando scanner a ultravioletti profondi (Duv), che l’azienda è autorizzata ad acquistare, ma è improbabile che sia in grado di produrli in massa nel breve termine.
Mentre le aziende cinesi di chip tradizionali erano in crisi, i giganti di Internet come Tencent, ByteDance, proprietaria di TikTok, e Alibaba Group Holding erano impegnati ad avviare le proprie attività di progettazione di chip, che è la tendenza del momento tra le aziende Big Tech a livello globale, ma in questo caso ci si concentra, appunto, sulla progettazione. Questo non aiuta molto a rafforzare la capacità produttiva della Cina. Su questo fronte, la Cina ha sentito il peso dei vincoli della catena di approvvigionamento. La produzione nazionale di circuiti integrati a luglio è scesa del 17 per cento. Ciò non significa che gli Stati Uniti abbiano ostacolato con successo gli sforzi della Cina nel settore dei semiconduttori. Come spesso accade nel settore tecnologico, potrebbe essere solo questione di tempo prima che la Cina si metta al passo. Eric Schmidt, l’ex amministratore delegato di Google che ora presiede la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale, ha avvertito l’anno scorso che gli Stati Uniti devono investire di più nel settore per “rimanere due generazioni di semiconduttori avanti ai cinesi”. Secondo un rapporto di Harvard, la Cina potrebbe diventare un “attore di primo livello nell’industria dei semiconduttori entro il 2030”. Ma finora la Cina ha solo qualche competenza nel design e nell’assemblaggio, fasi non cruciali rispetto alla produzione dei chips.
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