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Autonomia differenziata: tre i punti da riscrivere

Ci sono almeno tre aspetti da riconsiderare nel disegno di legge sull’autonomia differenziata: criteri per l’attribuzione delle competenze alle regioni, meccanismi per finanziarle, definizione dei Lep in modo da condurre alla convergenza territoriale.

I Lep

Grande è la confusione sotto il cielo sulla cosiddetta “autonomia differenziata”. Proviamo a far chiarezza su tre punti centrali.

Secondo il disegno di legge approvato definitivamente dal Consiglio dei ministri il 15 marzo 2023, non si possono delegare alle regioni funzioni su cui insistono i livelli essenziali delle prestazioni (i Lep), se prima questi non sono stati definiti e quantificati dallo stato. Per farlo, la legge di bilancio per il 2023 ha già stanziato importanti risorse e messo in piedi una cabina di regia con a capo un comitato tecnico-scientifico di prestigio. Ottimo. Ma a leggere il Ddl sembra si propaghi un’illusione: l’idea che la quantificazione dei Lep determinerà automaticamente l’attribuzione di risorse alle regioni. È il cosiddetto approccio “bottom up”; a ogni servizio da offrire si applica un costo (possibilmente “standard”, nel senso di costo minimo o almeno medio data la tecnologia), poi si fa la somma dei servizi che ogni regione deve offrire e il risultato determina automaticamente il finanziamento regionale. Ma questo approccio non può funzionare se, come sembra ovvio e come si è già fatto per la sanità (dove i Lep già esistono e si chiamano Lea), si interpretano i Lep come l’insieme di tutti i servizi offerti dal settore pubblico in una particolare funzione.

La ragione è semplice. Se attuasse davvero questo sistema, dovendo garantire sempre e comunque il finanziamento integrale di tutti i servizi, il governo centrale perderebbe il controllo di gran parte della propria spesa. Una cosa che nessun governo può permettersi, figuriamoci il nostro. Non a caso, nella sanità, nonostante la definizione più che ventennale dei Lea, l’approccio è strettamente “top down”: prima lo stato definisce quanto può permettersi di spendere sulla sanità in un determinato anno, poi redistribuisce le risorse tra le regioni. Il legame tra il costo dei Lea e il finanziamento regionale rimane sullo sfondo, ma non è certo automatico.

Esiste un ulteriore rischio nell’interpretare, così come fa sbrigativamente il Ddl, i Lep semplicemente come input di risorse da attribuire alle regioni. È il rischio che lo stato nazionale, avendo assegnato le risorse, si disinteressi ai risultati, ovvero a come le regioni spendono i soldi. Al contrario, sarebbe più produttivo interpretare i Lep come “output”, cioè come obbiettivi di servizio che devono essere offerti ai cittadini. Il loro monitoraggio da parte dello stato centrale servirebbe allora a sviluppare politiche nazionali che spingano verso la convergenza, così che davvero l’offerta dei servizi essenziali tenda all’uniformità sul territorio nazionale.

Il tema vero è se queste politiche per la convergenza si attuano poi davvero. Purtroppo, l’esperienza non è positiva. Per esempio, grazie ai test Invalsi, sappiamo da anni che il livello di competenze attribuite dalla scuola italiana agli studenti è molto più basso al Sud che al Nord del paese. Ma nessun governo – di destra o di sinistra – si è mai posto l’obiettivo di affrontare il problema con politiche appropriate. E la scuola è ora una funzione gestita a livello nazionale, figuriamoci se venisse delegata alle regioni.

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Le intese stato-regioni

Il problema fondamentale dell’approccio del governo all’autonomia differenziata è che la decisione su quali funzioni delegare è attribuita puramente alla mediazione politica. A parte qualche vago principio richiamato in apertura, manca nel disegno di legge delega qualunque criterio esplicito che guidi la contrattazione tra gli esecutivi. Il governo nazionale e quello regionale contrattano e si mettono d’accordo su cosa delegare, e il Parlamento vota il risultato finale, senza possibilità di intervenire in itinere e anche con il grosso rischio che una volta raggiunta un’intesa non sia più possibile tornare indietro. Tutto ciò è problematico perché: a) alcune delle funzioni delegabili nella lunga lista delle materie presenti nel comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione sono state redatte in un periodo storico completamente diverso e non avrebbe senso attribuirle ora a enti sub-statali (per esempio, energia, banche, porti e aeroporti); e b) anche nelle funzioni in cui un maggior ruolo delle regioni può avere un senso, non c’è alcun criterio che leghi la loro devoluzione a una maggiore capacità gestionale delle regioni, effettiva o potenziale. A leggere la delega, si ha in effetti l’impressione che per il governo delegare funzioni alle regioni sia comunque e sempre preferibile, non si sa bene sulla base di quali argomenti. Qui il rischio vero è che per raggiungere un compromesso politico che accontenti tutti si finisca con il delegare troppo a troppe regioni, incluse quelle che manifestamente non hanno sufficiente capacità amministrativa, come per esempio quelle che sono da molti anni commissariate sulla sanità.

C’è un’alternativa? Forse sì, almeno a detta di diversi costituzionalisti. Lo strumento migliore potrebbe essere una legge delega attraverso la quale il Parlamento dà mandato al governo di trattare con le regioni, ma allo stesso tempo fissa i paletti, cioè i criteri, all’interno dei quali la contrattazione può aver luogo. È più rispettoso delle funzioni del Parlamento, ma anche più in linea con il buon senso, trattandosi di un processo di delega che potrebbe interessare funzioni fondamentali, come appunto la scuola.

Il finanziamento

Il modello di finanziamento previsto dalla delega è basato su compartecipazioni: per ogni funzione delegata a una regione, si calcola quanto lo stato spende attualmente in quella determinata regione e si attribuisce a quest’ultima una compartecipazione (cioè una percentuale) al gettito incassato da uno o più tributi nazionali nella regione stessa, in modo che garantisca alla regione esattamente gli stessi soldi spesi dallo stato in quella funzione. Così a tempo zero, primo anno di devoluzione, nessuno ci perde e nessuno ci guadagna. Benissimo. Ma cosa succede negli anni successivi? Dal Ddl sembrerebbe che la regione si tiene la stessa percentuale da zero all’infinito, salvo considerare la possibilità che se le risorse così decentrate si rivelassero insufficienti, cioè se la dinamica della spesa per la funzione delegata fosse maggiore di quella del gettito compartecipato, il governo centrale interverrebbe con risorse addizionali. Ma così non va bene, perché tutto il rischio finanziario resterebbe sulle spalle dello stato centrale, mentre i possibili vantaggi andrebbero solo alla regione.

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È certo importante che le regioni siano responsabilizzate sulle proprie basi imponibili, perché questo offre un incentivo ai governi regionali a farle crescere, il che è vantaggioso per tutta la collettività nazionale. Ma a) non tutta la crescita (o decrescita) delle basi imponibili regionali dipende dai comportamenti dei governi regionali, dipende anche da tanti altri fattori che non sono sotto il controllo della regione; e b) il governo nazionale deve comunque assicurare le regioni contro il rischio di una crescita insufficiente del gettito. E dunque il modello di finanziamento ottimale deve essere diverso e lasciare una parte della crescita addizionale alla regione (per incentivarla) redistribuendo il resto alla collettività nazionale, evitando così che si possa determinare sia una distanza eccessiva nella distribuzione delle risorse tra regioni che una carenza di risorse per la copertura del rischio finanziario. Sembra complicato, ma il modello di perequazione regionale introdotto con il decreto 56/2000, poi soppresso qualche anno dopo, funzionava esattamente così.

Un’ultima notazione. Fondare l’autonomia regionale solo su compartecipazioni è una pessima idea.

Con la compartecipazione ai tributi nazionali, le risorse delle regioni sono dipendenti dalle decisioni del governo centrale. Se per esempio la compartecipazione è sull’Irpef e il governo decide di intervenire sul tributo riducendo il gettito, chi ci rimette è la regione. Non solo, ma se c’è un imprevisto, e la regione non ha spazi di autonomia tributaria per sollevare maggior gettito, deve per forza batter cassa dallo stato. Per dare elasticità al bilancio regionale, ci vorrebbero invece tributi propri, sui quali la regione abbia spazi di autonomia. Questo responsabilizzerebbe anche i governi regionali, perché si potrebbe allora richiedere che spese regionali in eccesso rispetto a quanto preventivato siano finanziate tassando di più i residenti della regione stessa. Il problema è che dei tributi regionali attuali, il principale – l’Irap – è in fase di smantellamento e il secondo – l’addizionale regionale sull’Irpef – non è più pagata da una larga fetta di contribuenti (tutti i lavoratori autonomi in regime forfettario) ed è quindi oramai improponibile come tributo proprio. Si rischia così di devolvere ulteriori competenze alle regioni, mentre le si deresponsabilizza sui livelli di spesa. Una combinazione assai pericolosa.

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Il Punto

  1. Ernesto Kratter

    DDL CALDEROLI Autonomia differenzia avevo capito che prevedeva 23 materie statali da trasferire alle regioni italiane a statuto ordinario e che la gestione autonoma delle 23 materie alle regioni a statuto ordinario dovrebbe essere finanziato con le imposte e tasse della regione stessa trattenute per i 9/10 mentre 1/10 delle risorse finanziarie incassate dovrebbe andare per la fiscalità generale come avviene attualmente le le die province autonome a statuto speciale di Trento e Bolzano, tutto ciò a saldi invariati cioè senza aggravio di spese pubbliche mi sembra questo un grosso problema perché comporterebbe che tutte le spese di personale, spese correnti e di capitale dallo Stato trasferire alle singole regioni non dovrebbe aumentare mi sembra una missione impossibile?

    • Davide Corda

      Infatti sarebbe il fenomeno che dovrebbe forzare il passaggio all’autonomia fiscale con un’ulteriore riforma, almeno in teoria. Ovviamente è un azzardo, ma ogni tanto sto quiz di paese dovrà pur rischiare qualcosa.

  2. bob

    rispetto il suo lavoro, ma come è possibile dare credibilità a questa follia ma soprattutto a dare credibilità ai soggetti che lo vogliono attuare con un passato che tutti conosciamo, che oltre far perdere credibilità al Paese nel mondo hanno con le loro stravaganze tenuto fermo il Pese per 30 anni.
    La prego me lo spieghi!

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