I risultati fin qui ottenuti dal Reddito di cittadinanza indicano quali sono i punti critici su cui intervenire. A partire dagli istituti responsabili dell’attivazione al lavoro, che vanno resi più efficienti ed efficaci. Non servono due misure distinte.

Scelte guidate dall’ideologia

L’introduzione di una garanzia di Reddito minimo per chi si trova in povertà in Italia non è stata solo tardiva. È anche caratterizzata da rapide e drastiche discontinuità dovute non a una valutazione basata su dati empirici solidi sul concreto funzionamento di ciò che si intende cambiare o sostituire, ma su scelte, e valutazioni, ideologiche. È successo con la sostituzione del Reddito di inserimento con il Reddito di cittadinanza e rischia ora di succedere con il Mia (Misura di inclusione attiva) che, a sua volta, dovrebbe rimpiazzarlo.

Quando venne introdotto il Rdc, per puri motivi di politica identitaria, insieme all’opportuno e necessario aumento del finanziamento e conseguente allargamento della platea, si è introdotto un inspiegabile privilegio verso gli adulti e le famiglie piccole a sfavore dei minorenni e delle famiglie numerose, ove maggiore è l’incidenza della povertà, e si è esclusa la maggior parte degli stranieri poveri legalmente residenti. È stato anche radicalmente cambiato il sistema di governance che era in capo ai comuni e ai servizi sociali, istituendo invece un modello tripartito tra istituti di cui era ampiamente nota la mancanza di intercomunicazione e interoperatività. E, almeno nel caso dei centri per l’impiego, era anche nota l’inadeguatezza rispetto al loro compito istituzionale, così come era nota l’assenza di serie politiche attive del lavoro, che pure avevano un ruolo centrale nel disegno della misura. Lo ha documentato la ricerca condotta da Inapp, per il secondo anno, sui beneficiari di Rei e Rdc e sui servizi coinvolti nella messa a punto delle misure insieme di attivazione e di condizionalità (patto per il lavoro e patto di inclusione sociale) che devono accompagnare il sussidio monetario.

Dove sono le criticità

Dalla ricerca emergono criticità organizzative cui si deve gran parte della mancata “attivazione” dei beneficiari e cui occorre, appunto, porre rimedio prima di inventare un nuovo strumento. Ad esempio, a quasi quattro anni dall’istituzione del Rdc, la interoperatività tra i sistemi informativi dei diversi istituti coinvolti nella gestione a livello centrale e locale – Inps, Anpal, centri per l’impiego, servizi sociali comunali e sistema informativo unitario dei servizi sociali, per nominare i principali – riguarda meno della metà dei casi. Inoltre, a detta dei servizi, a causa anche della mancanza di personale, passano circa 4 mesi e mezzo tra l’autorizzazione a ottenere il Rdc rilasciata dall’Inps e la presa in carico del beneficiario da parte dei centri per l’impiego. Solo la metà dei centri per l’impiego risulta in condizione di convocare entro i 30 giorni prescritti dalla norma i beneficiari della misura, che pure è solo il primo passo cui dovrebbero seguirne altri più concreti. Data la diversa numerosità dei beneficiari a livello territoriale, i tempi di attesa risultano più ridotti al Nord, dove sono mediamente di 3 mesi e mezzo, mentre al Sud sono circa 5 mesi e mezzo. Secondo i beneficiari intervistati da Inapp i tempi possono essere anche molto più lunghi, in media quasi 8 mesi prima di essere chiamati dai servizi. E Il 42 per cento dei beneficiari Rdc intervistati era ancora in attesa di essere convocato vuoi al centro per l’impiego, vuoi ai servizi sociali. Anche i dati sugli esiti occupazionali del programma Garanzia di occupabilità dei lavoratori non sono incoraggianti. Considerando solo coloro che erano entrati nel programma da almeno 60 giorni (370.521 persone), l’ultimo rapporto Anpal riferisce che hanno trovato lavoro in 63.396, il 17, 1 per cento. Si tratta pressoché solo di persone definite vicine al mercato del lavoro, per livello di qualifica ed esperienza: un gruppo di cui i percettori di Rdc, pur costituendo un quarto del totale dei partecipanti al programma, sono una piccola minoranza. I percettori di Rdc senza esperienza di lavoro recente che hanno trovato lavoro tramite la partecipazione a Gol sono solo 4 mila, il 6,5 per cento. La percentuale è doppia tra i percettori che fruiscono anche di Naspi o DisColl, che quindi hanno un’esperienza di lavoro recente. Tra i disoccupati non percettori di Rdc, la percentuale di chi ha trovato lavoro oscilla tra il 18,1 e il 25,7 per cento.

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Questi dati dovrebbero indicare che, invece di pensare a introdurre ulteriori penalità per beneficiari rappresentati come riottosi a lavorare, come intende fare il governo con il Mia, occorrerebbe rendere più efficienti ed efficaci gli istituti che sono responsabili dell’attivazione, allo stesso tempo prendendo atto che per molti beneficiari di Rdc passare dall’occupabilità teorica alla effettiva possibilità di occupazione occorre un tempo più lungo di qualche mese. E forse, per alcuni soggetti e aree del paese occorre anche investire nella creazione di posti di lavoro, anche in collaborazione con il terzo settore, non affidandosi solo al mercato.

Non servono due misure

Questi dati suggeriscono anche qualche dubbio sull’efficacia, ma direi anche utilità, della proposta Caritas, presentata anche su questo sito, di distinguere due forme di sostegno al reddito per i poveri, una per le famiglie e una per i singoli adulti occupabili secondo criteri oggettivi e consolidati a livello internazionale. Con essa si intende distinguere tra politiche attive del lavoro e contrasto alla povertà senza cadere nella rozza e impropria distinzione tra occupabili e non, basata sulla composizione familiare, presente sia nelle norme transitorie contenute nella legge di stabilità, sia nella bozza di proposta del Mia. Tuttavia, posto che molti degli adulti poveri realisticamente occupabili si trovano in una famiglia povera e che secondo la proposta Caritas le due misure sono cumulabili, non si capisce perché la misura economica non possa essere unica, con le opportune modifiche per evitare la penalizzazione dei minorenni e famiglie numerose, anche abbassando l’importo massimo per una persona sola. Del resto, è quanto indica la nuova Raccomandazione europea sul reddito minimo, che sottolinea come la distinzione tra occupabili e non riguardi non la misura monetaria, ma quelle di attivazione. Sono queste che vanno rafforzate – e direi anche rese esigibili sia da parte dei servizi sia da parte dei beneficiari, che si tratti di politiche attive del lavoro o di altre misure di inserimento sociale. Se poi succede che un beneficiario adulto, in modo intenzionale, non rispetti i patti, si potrà ridurre o detrarre la sua quota dall’importo familiare, salvaguardando il diritto al sostegno dei familiari incolpevoli, specie se minorenni o con disabilità, a differenza di quanto avviene ora. Avere due misure mi sembra un’inutile complicazione che, mentre avvalora la tesi che il problema stia nella riottosità dei beneficiari, non tocca quelli, ben più seri e documentati, che riguardano l’attività dei servizi, le opportunità di attivazione e i controlli sulle stesse.

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