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Patti di non concorrenza: perché preoccuparsene

Anche in Italia i lavoratori dipendenti sono spesso soggetti a patti di non concorrenza. Il rischio è che si trasformino in un ostacolo alla mobilità del lavoro, già bassa nel nostro paese. Dovrebbe occuparsene l’Autorità garante della concorrenza.

Cosa sono i patti di non concorrenza

In un precedente articolo, abbiamo riassunto e discusso il dibattito statunitense sull’uso e abuso dei patti di non concorrenza (anche noti come accordi o clausole di “non concorrenza”) nei contratti di lavoro, attraverso cui un dipendente si impegna, appunto, a non fare concorrenza al datore una volta terminato il rapporto di lavoro.

Nati come strumenti per proteggere segreti industriali e investimenti specifici nel rapporto di lavoro da parte delle imprese, tali accordi sono diventati (anche) uno strumento di limitazione della mobilità dei lavoratori e quindi del loro potere contrattuale, con effetti negativi sulla concorrenza nel mercato del lavoro, ma anche sul mercato dei prodotti, impedendo a imprese concorrenti di assumere i lavoratori vincolati dalla pattuizione e dunque di proporre prodotti o servizi migliori o a minor prezzo.

La situazione in Italia

In Italia, i patti di non concorrenza sono regolati dal codice civile (articolo 2125), ma la legge prevede solo requisiti minimi, senza fornire un quadro dettagliato. Nonostante la loro importanza nel disciplinare molti aspetti dei rapporti di lavoro, i contratti collettivi sorprendentemente non svolgono alcun ruolo nel regolarne l’utilizzo. Nel corso degli anni, la giurisprudenza ha chiarito alcuni aspetti ma, al di là del rispetto dei requisiti formali di base, i tribunali mantengono un significativo margine di discrezionalità nella valutazione di ciascun caso. E comunque i casi che ogni anno arrivano alla Cassazione si contano sulle dita di una mano, cosa che ha portato a considerare il fenomeno come del tutto marginale.

Invece, i risultati di un’indagine che abbiamo condotto su un campione di 2 mila dipendenti, rappresentativo dei lavoratori del settore privato, mostra sorprendenti consonanze con il caso americano. Circa il 16 per cento dei dipendenti del settore privato in Italia è vincolato da un patto di non concorrenza, in totale circa 2 milioni di lavoratori. Dopo i più noti accordi di riservatezza (non-disclosure agreements), si tratta delle clausole più diffuse (figura 1).

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Figura 1 – Percentuale di lavoratori dipendenti vincolati da clausole che limitano l’attività al termine del rapporto di lavoro

Nota: Risposte alla domanda “Nella sua attuale posizione di lavoro, Lei ha firmato un patto (o clausola) di non concorrenza? Sì/Mi pare di sì/Mi pare di no/No/Preferisco non rispondere / non so”.

Questi accordi non sono limitati a professionisti o manager altamente qualificati o a lavoratori con accesso a informazioni riservate, ma sono molto più diffusi. Le clausole sono relativamente frequenti anche tra i lavoratori impiegati in occupazioni manuali ed elementari e tra quelli con un basso livello di istruzione e di retribuzione, anche senza accesso ad alcun tipo di informazione riservata. Analizzando il contenuto dei patti di non concorrenza alla luce delle risposte dei lavoratori, più della metà non rispetta i requisiti minimi stabiliti dalla legge, ossia non specifica un corrispettivo e i limiti temporali, settoriali e geografici del vincolo. Ciò significa che una buona parte dei patti è (probabilmente) nulla, non idonea a superare l’eventuale vaglio giudiziale; d’altra parte, può significare che i lavoratori non sono consapevoli dei loro possibili effetti – anche coloro che sono sicuri di averne firmata una e dichiarano di averla letta attentamente prima di firmarla. Allo stesso tempo, il contenuto del patto sembra non influenzare la consapevolezza dei lavoratori: avere un patto valido o nullo non incide sulla percezione del rischio di causa (cioè che l’impresa agisca in giudizio per far rispettare il patto) e sul fatto di essere ritenuti responsabili di aver violato la clausola e la sua eseguibilità (figura 2). Quindi, i patti di non concorrenza possono avere effetti deterrenti a danno della mobilità del lavoro, anche quando sono illegittimi e dunque destinati a essere disapplicati in un eventuale giudizio.

Figura 2 – Percezioni relative a probabilità di azione del datore di lavoro e di clausola giudicata eseguibile per validità della clausola

Nota: per probabilmente invalide si intendono quelle clausole che non sembrano rispettare i requisiti minimi stabiliti dalla legge, ossia specificare un corrispettivo e limiti temporali, settoriali e geografici. Usiamo il condizionale perché, non avendo accesso ai contratti di lavoro, prendiamo con cautela il dato sull’invalidità (le risposte dei lavoratori suggeriscono che le clausole sono invalide), così come quello sulla validità (le risposte dei lavoratori suggeriscono che le clausole sono valide, ma non siamo in grado di fare un vaglio di ragionevolezza sul contenuto effettivo).

L’evidenza che emerge dalla nostra indagine suggerisce che, a causa di un mix tra abusi da parte dei datori di lavoro e scarsa consapevolezza da parte dei lavoratori, in un numero non banale di casi, gli accordi di non concorrenza possono generare distorsioni nel mercato del lavoro, limitando ulteriormente la mobilità dei lavoratori, già relativamente bassa in Italia rispetto agli standard internazionali. Sembra quindi opportuno promuovere un uso più bilanciato dei patti di non concorrenza, migliorando la trasparenza e l’equità del processo di negoziazione, senza imporre un onere eccessivo ai datori di lavoro o impedire loro di proteggere i propri legittimi interessi commerciali.

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Perché preoccuparsene

Più in generale, è tempo che anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato cominci a occuparsi di concorrenza nel mercato del lavoro. Ben prima delle recenti iniziative, le autorità antitrust americane hanno cominciato a interessarsi della questione (si vedano per esempio le Antitrust Guidance for Human Resources Professionals). In Europa, l’Autorità per la concorrenza portoghese ha recentemente pubblicato una guida indirizzata a imprese e lavoratori per garantire una sana concorrenza sul mercato del lavoro, sottolineando l’illiceità di clausole che limitano la mobilità dei lavoratori. Una iniziativa simile è stata presa dalla Competition and Markets Authority britannica, che ha anche commissionato un’indagine sull’incidenza dei patti di non-concorrenza.

A nostro avviso sono temi che meriterebbero attenzione anche in Italia perché ormai è chiaro che la concorrenza non significa solo prezzi, concentrazioni e cartelli, ma anche salari, lavoratori e dipartimenti delle risorse umane. Studi empirici negli ultimi decenni hanno, infatti, messo in luce le interrelazioni tra concorrenza nei mercati del prodotto e del lavoro. Nel frattempo, i contratti collettivi potrebbero prendere l’iniziativa e regolare l’uso dei patti di non concorrenza.

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  1. Angelo

    Personalmente la mia esperienza mi porta a pensare che non sia una delle priorità d’affrontare nel mondo del lavoro. Come dice lo stesso articolo, i casi arrivati in Cassazione sono irrisori, per il semplice motivo che le imprese sono le prime a non rispettare i patti, semplicemente non pagandoli. Non hanno quindi nessun interesse a portare l’ex dipendente in tribunale, anche quando lo stesso non rispetta l’accordo sottoscritto. Mi sembra un falso problema.

  2. Marco Ferrari

    L’articolo è un non sequitur. Anche ammesso che ci sia un problema (e in Italia ne dubito e anche negli Stati Uniti il tema è un po’ fuori moda), perché dovrebbe occuparsene l’AGCM e non la contrattazione collettiva o un’autorità ad hoc (come quella che già esiste sugli scioperi nei settori essenziali per restare in campo lavoristico)?
    I dati empirici poi sono piuttosto deboli il campione è piccolo e oggetto di analisi non i contratti ma le risposte dei dipendenti.
    Forse invece di dilungarsi sull’uso di eleganti strumenti quantitativi, sarebbe bene leggere davvero i contratti; anzi farli leggere da un giurista esperto in diritto del lavoro per vedere se le percezioni corrispondono alla realtà.

  3. Alessandro Corrado

    Buongiorno,
    mi chiedo se una possibile, seppure parziale, soluzione non possa consistere nel prevedere che il divieto di svolgere attività in concorrenza cessione “quando il datore di lavoro disdice il rapporto di lavoro, senza che il lavoratore gli abbia dato un motivo giustificato, o quando il lavoratore disdice il rapporto per un motivo giustificato imputabile al datore di lavoro”.
    Questo è quanto dispongono legislazioni del lavoro di altri Paesi tra cui la Svizzera, in particolare l’art. 340c G del codice delle obbligazioni, di cui mi sono recentemente occupato per motivi professionali.
    In tal modo, buona parte dei patti di non concorrenza decadrebbero, senza inutili discussioni intorno alla loro validità.
    Grazie per l’attenzione.
    Alessandro Corrado, avvocato giuslavorista di Milano e socio di AGI (Avvocati Giuslavoristi Italiani)

  4. Marco La Colla

    Il patto di non concorrenza prevede un corrispettivo aggiuntivo al normale stipendio ed una penale legata appunto all’aumento ricevuto in rapporto all’impegno preso. Nel mio caso, commerciante di macchine da ufficio con relativa assistenza, compensava gli investimenti sostenuti per la preparazione dei tecnici dell’assistenza. Ad ogni nuovo modello di macchina inserito sul mercato , era necessario un corso a pagamento per istruire ed addestrare i tecnici alle sue installazione e riparazioni.Questi corsi avvenivano presso la sede della società produttrice, duravano da pochi giorni a due settimane e, oltre i costi del corso, comportavano ‘le spese per il vitto e l’alloggio per il personale inviato . Tutti tali costi giustificavano l’impegmo da parte del dipendente a non mettere a disposizione di eventuali concorrenti tale preparazione per un tempo determinato e in una zona geografica ben delimitata. Non vedo come ,in questo caso, si possa criticare o colpevolizzare un datore di lavoro che usa questo sistema per proteggere i suoi investimenti nella preparazione del suo personale tecnico!

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