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Perché le regole Ue sulla migrazione restano “preistoriche”

Il punto cardine delle politiche di immigrazione e asilo in Europa continua a essere il regolamento Dublino III. Più volte le istituzioni europee hanno cercato di riformarlo, scontrandosi però con le resistenze degli stati, comprese quelle dell’Italia.

Immigrazione e regole europee

“Nessuno stato, da solo, può affrontare un problema così epocale. Ma l’Unione europea può farlo con un’azione coordinata e ben organizzata. E questo è un tema che richiama alla responsabilità dell’Unione, e richiama a una nuova politica di immigrazione e di asilo dentro l’Unione, superando vecchie regole che sono ormai della preistoria”. Con queste parole, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha richiamato un principio spesso disatteso negli ultimi anni, ovvero quello della solidarietà tra stati Ue in tema di politiche di asilo.

Ma quali sono le regole “preistoriche”? E perché finora non sono state modificate? Cercando di dare una risposta alle due domande emerge come anche l’Italia abbia le sue responsabilità nella mancata costruzione di un “sistema comune di asilo”.

Innanzitutto, bisogna chiarire che le politiche migratorie tout court (rilascio dei permessi di soggiorno, definizione delle quote e dei profili di ingresso per lavoro) sono di competenza degli stati membri, come peraltro le leggi sulla cittadinanza (da cui dipendono la definizione di “straniero” e le modalità e i requisiti per la naturalizzazione).

Anche le politiche di asilo (ricezione e valutazione delle richieste di protezione internazionale e accoglienza delle persone in attesa di risposta) sono in realtà di competenza nazionale ma, fin dal Consiglio europeo di Tampere del 1999, gli stati membri si accordarono per costruire un “sistema europeo comune di asilo”, introducendo strumenti per:

1) determinare con chiarezza e praticità lo stato competente per l’esame delle domande di asilo;

2) prevedere norme comuni per una procedura di asilo equa ed efficace;

3) condizioni comuni minime per l’accoglienza dei richiedenti asilo;

4) il ravvicinamento delle normative relative al riconoscimento e agli elementi sostanziali dello status di rifugiato.

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Il regolamento mai riformato

Il punto cardine del sistema è il regolamento Dublino III (2013/604/Ce), terza tappa di un processo iniziato nel 1990 con la Convenzione di Dublino e proseguito nel 2003 con Dublino II. Definisce i criteri e i meccanismi per determinare quale sia lo stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno dei paesi membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide. In sostanza, il regolamento stabilisce che la richiesta di asilo deve essere gestita dal primo paese dell’Unione in cui il migrante ha messo piede. Si tratta indubbiamente di un meccanismo che oggi svantaggia i paesi mediterranei, ma che fu ideato anche per sopperire a un loro eccessivo lassismo nei movimenti secondari (intra-Ue), per il quale erano stati spesso richiamati.

Peraltro, al momento della firma, gli accordi furono presentati all’opinione pubblica italiana come uno strumento di “protezione” dai profughi in arrivo nei paesi transalpini.

Il regolamento ha evidenziato i propri limiti già nel 2015 quando la Germania, pur non essendo il primo paese di ingresso, decise di accogliere un milione di richiedenti asilo giunti attraverso la rotta balcanica. Da allora, la riforma è stata chiesta da più parti, vista la situazione profondamente cambiata rispetto a quando fu firmato l’accordo.

Va detto che le istituzioni europee si sono sempre dimostrate favorevoli a una riforma, salvo incontrare la resistenza del Consiglio (cioè degli stati membri).

Addirittura, nel 2017, il Parlamento europeo aveva approvato la revisione del regolamento di Dublino, prevedendo un meccanismo permanente di ricollocamento volto a superare la logica del primo paese d’ingresso. La riforma fu affossata nel Consiglio europeo del 2018, in cui l’Italia (governo Conte I) si schierò con i paesi di Visegrad. Un esempio lampante di come spesso le alleanze politiche prevalgano sull’interesse nazionale.

Sempre nel 2018, peraltro, l’Italia si rifiutò di aderire ai Global Compact sulla migrazione e sull’asilo, due accordi quadro voluti dall’Assemblea delle Nazioni Unite e finalizzati a gestire le migrazioni e l’asilo in maniera coordinata e condivisa.

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Successivamente, la Commissione europea ha continuato a proporre una gestione condivisa, come quando – nel 2020 – lanciò il Nuovo patto su migrazione e asilo, tuttora fermo al livello di “proposta quadro”.

Un altro tentativo di gestione comunitaria è il celebre piano di ricollocamenti (2015), miseramente fallito: per circa 100 mila ricollocamenti pianificati da Italia e Grecia (con quote concordate da ciascuno stato ricevente), solo il 30 per cento fu effettivamente completato. Emblematico l’atteggiamento dell’Ungheria che, nel 2016, organizzò un referendum (poi fallito) chiedendo ai cittadini di esprimersi contro la quota di propria competenza (1.294 rifugiati), peraltro concordata dallo stesso governo ungherese in sede europea.

Dunque, parlando di politiche migratorie, la gestione comunitaria dovrebbe essere sempre un obiettivo da perseguire. Purtroppo, in passato, l’Italia ha dimostrato atteggiamenti poco coerenti, cavalcando il sentimento antieuropeista e contribuendo all’affossamento delle riforme.

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  1. Savino

    Prima di puntare il dito sulla UE, è lo Stato italiano che deve progettare un sistema nazionale strutturale, valido per tutto lo stivale, di accoglienza e integrazione, facendo in modo, tralaltro che nessuno ne approfitti e ci speculi su (sindaci, parroci, ong istituite per altri scopi). Ci si chiarisca le idee sul fatto che non si tratta di un’emergenza e sul rilievo economico dei fenomeni migratori.

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