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Davvero l’aumento dei tassi di interesse fa male alle banche?

L’aumento dei tassi di interesse ha fatto danni ad alcune banche americane, ma non è così per tutte. Le italiane, per esempio, ne hanno tratto profitto, aumentando il margine di interesse, mentre le perdite sui titoli sono in buona parte solo potenziali.

Rialzo dei tassi e stabilità delle banche

I casi di crisi bancarie verificatisi di recente negli Usa (Silicon Valley Bank, Signature Bank of New York, First Republic Bank) hanno messo in evidenza il delicato rapporto tra politica monetaria e stabilità finanziaria. Molti commentatori hanno attribuito le difficoltà di quelle (e altre) banche americane all’aggressivo aumento dei tassi di interesse attuato dalla Fed a partire dal marzo dello scorso anno, dopo un lungo periodo di tassi vicini a zero. Si è puntato il dito contro la brusca inversione di politica monetaria, che non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione i contraccolpi sul sistema finanziario, ormai assuefatto a un mondo con tassi di interesse nulli.

Questa visione appare un po’ semplicistica e soprattutto non va generalizzata. L’aumento dei tassi di interesse ha due effetti sulle banche, uno positivo e uno negativo. Da un lato, l’incremento dei tassi sulle attività a tasso variabile e su quelle a tasso fisso di nuova acquisizione determina un aumento dei ricavi. È vero che anche i costi di finanziamento aumentano, ma in genere più lentamente rispetto ai tassi attivi. Di conseguenza, il margine di interesse aumenta in un contesto di tassi in crescita. D’altro lato, l’aumento dei tassi di interesse incide negativamente sul valore di mercato delle attività a tasso fisso detenute dalle banche, come i titoli a medio-lungo termine. Quale effetto prevale? Dipende dal modello di business delle banche e dalla capacità del management di gestire i rischi (di tasso di interesse, di mercato, di liquidità), nonché dalla efficacia della vigilanza nel segnalare situazioni critiche e imporre correzioni.

Le crisi bancarie americane

Il modello di business delle tre banche statunitensi entrate in crisi era molto particolare. Avevano vissuto una notevole crescita dimensionale nel giro di pochi anni, finanziata prevalentemente raccogliendo depositi non assicurati da pochi soggetti, spesso connessi tra di loro. Questo aspetto ha reso particolarmente fragile la loro raccolta, esponendole a fenomeni di bank run rapidi e massicci. Il loro business era molto concentrato verso alcuni settori: imprese high-tech, intermediari operanti nel settore dei cripto-asset, prestiti immobiliari. Ciò ha esposto le banche agli shock che hanno investito in particolare quei settori, mentre il management ha sottovalutato il rischio di liquidità e di tasso di interesse. Quando questi ultimi sono aumentati, le banche hanno subito ampie perdite di valore dei titoli in portafoglio. Sotto la pressione del ritiro del denaro da parte di alcuni grandi depositanti, sono state costrette a liquidare in perdita una parte del portafoglio-titoli, inducendo altri depositanti a ritirare i loro depositi e avviando così una spirale negativa. Le autorità di vigilanza sono intervenute in ritardo nel segnalare al management le criticità e nel prendere provvedimenti tali da indurre la direzione delle banche ad adottare i necessari correttivi. In questo senso, un ruolo decisivo ha giocato la deregulation avvenuta nel 2018 (sotto l’amministrazione Trump), che ha innalzato da 50 a 250 miliardi di dollari la soglia dimensionale oltre la quale applicare gli standard prudenziali più esigenti destinati alle banche maggiori.

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Banche italiane: più profitti con l’aumento dei tassi

Nel caso delle tre banche statunitensi, l’impatto negativo dell’aumento dei tassi di interesse ha superato di gran lunga quello positivo, portandole al dissesto. Molti si chiedono se alla luce di quanto è accaduto negli Usa, possiamo essere tranquilli sulla solidità delle banche italiane. A livello di sistema, la risposta è affermativa: l’effetto positivo sembra prevalere su quello negativo.

Da quando la Bce ha iniziato ad alzare i tassi di interesse, a metà dello scorso anno, le banche nostrane hanno aumentato i tassi attivi in misura maggiore di quelli passivi: di conseguenza, il loro margine di interesse è significativamente aumentato, contribuendo così alla loro redditività e, di conseguenza, alla loro solidità. Il grafico riportato sotto (tratto dall’Abi Monthly Outlook di maggio 2023) mette in evidenza la maggiore velocità con cui le banche hanno adeguato i tassi sui prestiti ai tassi Bce, rispetto a quanto fatto dal lato dei depositi. L’effetto è stato un raddoppio (da circa un punto e mezzo percentuale a tre punti) dello spread tra tassi attivi e passivi. La conferma di questa (semplice) analisi arriva dall’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia (aprile 2023), nel quale si afferma che “nel 2022 la redditività delle banche italiane è migliorata; il Roe (return on equity), al netto delle componenti straordinarie, è aumentato dal 6,0 all’8,7 per cento. Il margine di interesse è cresciuto del 18,5 per cento, principalmente per la dinamica degli interessi attivi sui prestiti alle imprese, che per tre quarti sono a tasso variabile, e di quelli sui titoli di stato. Sono invece lievemente saliti gli interessi passivi sui depositi” (pag. 31).   

Sul fronte del possibile impatto negativo dell’aumento dei tassi sulla stabilità delle nostre banche, qualche preoccupazione può venire dal portafoglio-titoli, in particolare quelli pubblici: rappresentano oltre il 9 per cento del totale attivo del sistema bancario italiano. Ma soprattutto, oltre il 70 per cento dei titoli non sono valutati in bilancio al loro valore di mercato, bensì al costo storico. Nascondono quindi perdite potenziali significative (si veda ancora il Rapporto Banca d’Italia, pag. 26), che si tradurrebbero in perdite effettive se i titoli dovessero essere venduti prima della scadenza, ad esempio per fare fronte a improvvise esigenze di liquidità. Tuttavia, l’eventualità sembra remota: gli indicatori di liquidità regolamentari hanno generalmente valori elevati per le banche italiane; che hanno inoltre notevoli quantità di titoli prestabili in garanzia alla banca centrale per accedere al rifinanziamento.  

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Figura 1

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Il rischio di un Patto ancora più rigido

  1. Savino

    L’inflazione fa male alla collettività. Bisogna combattere quella, con recupero di potere d’acquisto dei salari, controlli sui prezzi e più concorrenza. Senza inflazione incontrollabile, le banche centrali non sarebbero mai intervenute col rialzo dei tassi.

  2. Roberto Convenevole

    L’articolo è molto interessante ma mischia aspetti diversi che è bene tenere separati. L’acquisto di titolo di Stato delle Banche rappresenta un reinvestimento dei profitti lucrati sulla pelle delle Imprese. Come diceva Schumpeter nel 1911 l’interesse è una “Tassa sui profitti”. Concentriamoci sui tassi attivi bancari cercando di capire quale sia oggi il loro livello. Lo spread riportato da Baglioni è irrealistico. Nel 2019 Unicredit chiedeva un tasso del 10,78% per una apertura di credito in conto corrente di soli 5.000 euro! Il tasso soglia per la Legge sull’usura era del 17,47%. l’inflazione era all’epoca Zero, come pure la remunerazione dei depositi. È la Storia che ci dice che quando c’è inflazione le Banche accrescono i loro profitti: basta vedere ciò che è accaduto negli anni Settanta del secolo scorso spesso caratterizzati da inflazione a due cifre. il Prelievo delle aziende ordinarie di credito sui profitti della Manifattura passò dal 24,8% nel 1970 al 45,6% nel 1981. Sarebbe bello se il prof. Baglioni appoggiasse l’iniziativa del consigliere Enrico Zanetti (ministero dell’Economia), di tassare gli extra-profitti bancari. Considerando che i proventi potrebbero essere destinati all’edilizia per gli studenti universitari.

  3. Luciano Maria Munari

    La valutazione deve essere fatta in prospettiva e non con un’analisi statica. Del resto è noto (è scritto in tutti i testi di economia bancaria) che nel breve periodo l’aumento dei tassi di mercato produce un aumento dello spread tra tassi attivi e tassi passivi delle banche perché i tassi attivi reagiscono più rapidamente dei tassi passivi. Nel medio periodo anche i tassi passivi aumentano e lo spread si riduce, quindi non mi apre corretto esprimere valutazioni guardando i dati di breve periodo. Attualmente, poi, i tassi passivi potrebbero avere un adeguamento più rapido del solito perché la volatilità dei depositi potrebbe aumentare per via del remote banking e dei social media. A ciò si aggiunge la necessità di rimborsare alla BCE i finanziamenti TLTRO, con pressioni sulla liquidità. Infine, l’aumento dei tassi di interesse dopo un periodo di abbondante liquidità a tassi praticamente nulli può mettere in difficoltà molte imprese con elevata leva finanziaria che non riescano a trasferire sui prezzi l’aumento dei costi o che vengano penalizzate dal probabile credit crunch. Ciò può far crescere gli NPL con la necessità per le banche di aumentare gli accantonamenti. In definitiva, l’aumento degli utili delle banche può essere solo un fenomeno di breve periodo e non può essere valutato guardando solo i dati attuali.

  4. Luigi

    I profitti delle banche (in particolare le maggiori per capitalizzazione) aumentano perchè hanno deciso così, indipendentemente dai tassi di interesse e inflazione. Non hanno concorrenza vera nel mercato domestico, l’unica concorrenza è quella delle altre top banks mondiali, con specifico riguardo ai relativi valori azionari. In breve, il principale rischio per le principali banche italiane (ed in generale per tutte le large cap in settori con mercato domestico oligopolistico e capital intensive) è un’acquisizione paper-paper sbilanciata, o l’incetta di azioni a prezzi sotto il FV di lungo periodo da parte di fondi hedge/sovereign o fondi pensione.
    Per il resto è come guardare il dito anziché la luna.

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