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Concordato preventivo: un patto col diavolo? *

Il Ddl di delega fiscale prevede l’istituto del concordato preventivo per alcune categorie di contribuenti. Tra l’altro, dovrebbe permettere di recuperare almeno parte dell’evasione. Criticità di oggi ed esperienze del passato ne fanno dubitare.

Il concordato nella delega fiscale

Il disegno di legge delega fiscale, licenziato dal governo a marzo e ora all’esame delle Camere, prevede l’istituto del concordato preventivo per i lavoratori autonomi, imprese individuali e società di persone di minori dimensioni. La misura, oltre a facilitare gli adempimenti fiscali e assicurare certezza al rapporto tributario, avrebbe soprattutto l’obiettivo di recuperare almeno parte dell’evasione.

Il concordato preventivo ha avuto poca fortuna finora. L’unico effettivamente applicato, e per poco tempo, è stato quello del biennio 2003-2004, previsto dal Dl 269/2003 all’articolo 33. Vi furono 250 mila adesioni su oltre 3 milioni di interessati. Il concordato che era stato inserito poco prima, nella delega fiscale del 2003, era rimasto sulla carta, così come altri tentativi, sia precedenti sia successivi.

L’idea del concordato di oggi, proposto nell’ultimo Ddl di delega fiscale e nel Dl 269/2003, è di affrontare la cronica difficoltà di rilevare i ricavi e i redditi di attività economiche poco strutturate. Il problema ha portato, negli anni, a discipline che, per recuperare l’evasione, hanno di fatto allontanato l’imposizione dal reddito determinato in base alle scritture contabili (come invece previsto dalla riforma tributaria degli anni Settanta). Dopo l’esperienza poco proficua della minimum tax del 1992, negli anni Novanta, con gli studi di settore, si era consentito agli Uffici di stimare presuntivamente i ricavi, per recuperare almeno parte di quanto non veniva dichiarato. Dal 2017 la strategia è cambiata. Sono stati introdotti gli indici sintetici di affidabilità (Isa), allo scopo di incentivare l’adempimento (non più come strumento di accertamento): chi era in linea con gli Isa del proprio settore era considerato “affidabile” e beneficiava di una riduzione dei poteri di accertamento; gli altri potevano invece finire nelle liste di controllo. Il problema è che studi di settore e Isa individuano valori medi, frutto di stime al ribasso rispetto ai redditi effettivi. Di fatto, una rinuncia (dovuta a una precisa volontà politica?) a rilevare i redditi effettivi di questi contribuenti, la cui evasione stimata in sede Irpef, in base alle relazioni ministeriali, non è mai scesa sotto il 65 per cento (rapporto percentuale fra imposta evasa e gettito teorico atteso).

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Il concordato preventivo inserito nel Ddl delega fiscale è, dunque, l’ultimo passaggio di una strategia che non ha comunque ridotto l’evasione dell’Irpef di autonomi e piccoli imprenditori. Il testo del disegno di legge prevede che l’Agenzia delle entrate presenti ai contribuenti una proposta, che ha per oggetto la definizione della base imponibile Irpef e Irap valida per i due anni successivi, e che sarà definita con un contraddittorio semplificato (di cui dovrebbe essere chiarito il significato). Chi aderisce resta potenzialmente controllabile – anche se è ragionevole aspettarsi che i controlli saranno indirizzati ai contribuenti non concordatari, sia per ragioni di efficienza dell’amministrazione, sia per rendere conveniente la proposta. In base al testo attuale della delega, la predeterminazione dell’imponibile è di fatto rimessa alle parti. La delega non dice, poi, se la proposta sarà indirizzata a tutti i potenziali interessati o solo ad alcuni. È importante sottolineare, tuttavia, che la platea è ampia – attorno ai due milioni di contribuenti – ed è estremamente difficile, se non impossibile, pensare che gli Uffici possano gestire proposte di concordato specifiche – e per di più in contraddittorio – con ogni singolo contribuente. Si rischia, insomma, di avere proposte standardizzate per classi di contribuenti, con buona pace dei redditi effettivi.

A chi conviene?

Per quali contribuenti può risultare conveniente una proposta di concordato? Lo strumento permetterà di recuperare gettito?

In primo luogo, il concordato si pone in competizione col regime forfettario, riservato ai soli titolari di redditi da lavoro autonomo e d’impresa sotto un dato livello di fatturato (85 mila euro). La differenza di rilievo, rispetto al regime ordinario, sta nel fatto che il reddito imponibile (ricavi al netto dei costi forfettizzati e dei contributi previdenziali) è soggetto a una flat tax al 15 per cento. Se accettasse la proposta di concordato, il contribuente dovrebbe abbandonare questo regime, per accedere a un’imposizione sul reddito concordato secondo il regime ordinario Irpef che, a parità di reddito imponibile, risulta molto più gravoso. Il concordato potrebbe competere col regime forfettario solo con proposte molto inferiori ai redditi forfettizzati, o comunque ben lontane da quelli effettivi.

Gli Uffici dovrebbero, perciò, indirizzare le proposte di concordato soprattutto a contribuenti non forfettari e – logica vuole – ai potenziali evasori, cui si dovrebbe proporre un imponibile superiore a quello usualmente dichiarato, ma inferiore a quello effettivo (per ridurre il rischio che la proposta sia rifiutata). D’altro canto, una proposta di concordato a un non evasore difficilmente avrebbe successo. Infatti, se fosse in linea o superiore a quanto già dichiarato, verrebbe rifiutata dal contribuente; se invece fosse inferiore, non sarebbe ragionevole per gli Uffici proporla, perché genererebbe una perdita di gettito. Non sembrano, quindi, esserci grandi prospettive per il concordato, se non come una sorta di patto con gli evasori, ai quali si concede di continuare a evadere, ma un po’ meno rispetto a prima – perciò, con recupero di gettito modesto.

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Alcune dichiarazioni del viceministro Maurizio Leo hanno fatto intendere che gli Isa potrebbero essere utilizzati per diversificare le proposte e per decidere se fare accedere o meno al concordato i contribuenti (quelli poco affidabili non verrebbero ammessi). Tuttavia, se così fosse, non si capirebbe la motivazione di stipulare un concordato, a meno che l’obiettivo non sia tanto quello di far emergere l’evasione e quindi intercettare i contribuenti poco affidabili, bensì quello di premiare con uno sconto fiscale gli affidabili. Ma in quest’ultimo caso lo stato realizzerebbe una perdita di gettito. 

Viste le criticità del concordato, e l’infelice esperienza del 2003, forse varrebbe la pena potenziare davvero i controlli, utilizzando le banche dati disponibili con la relativa tecnologia digitale, che negli ultimi anni ha rivoluzionato il mondo della comunicazione. Si pensi solo alle potenzialità insite nell’applicazione dei recenti sviluppi sull’intelligenza artificiale. La legge delega menziona proprio la possibilità di sfruttare il patrimonio informativo e le tecnologie esistenti per migliorare le analisi di rischio. Il punto è, ovviamente, come avvalersene e a che fine. Questa azione, se seriamente intrapresa, potrebbe essere accompagnata da una graduale e realistica diminuzione della pressione fiscale.

* L’articolo è pubblicato in contemporanea su Menabò di Etica ed Economia.

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  1. Angelo

    Sicuramente i dubbi sollevati nell’articolo sono assolutamente condivisibili. Non vedo soluzioni alle questioni sollevate e qualsiasi intervento sembra che peggiori la situazione anziché migliorarla. Probabilmente bisognerebbe tirare una riga e ricominciare da zero, ma anche questa non penso sia una strada percorribile. Nei decenni sono state messe a fare gli “imprenditori” milioni di persone che avrebbero volentieri fatto altro. E il più delle volte per “sopravvivere” hanno dovuto trovare tutti i modi per abbassare le tasse pagate. Tutte le iniziative inventate per recuperarne una parte, nella realtà mi sembra che siano semplicemente andate a premiare chi in questo universo era “messo meglio”. Il forfettario col limite a 85.000 Euro da chi è stato utilizzato? Da chi poteva portare in detrazione ampie spese o da chi non le aveva e il fatturato era principalmente guadagno? Tradotto: ha guadagnato chi già guadagnava bene (85.000 Euro anno sono oltre 7.000 Euro mensili) o che fatturava tanto ma per procurarsi quel fatturato deve spendere tanto e quindi avere un reddito basso? Ho esperienze dirette con la minimum fax, gli studi di settore e molte delle cose citate nell’articolo. Quando il commercialista mi consigliava di dichiarare un po’ di più per non incorrere nella possibilità d’avere controlli, non mi venivano frasi di giubilo, ma modi di dire che è opportuno non ripetere.

    • Daniele Canè

      Gentile Angelo,
      il primo problema che solleva – “sono stati messe a fare imprenditori persone che avrebbero fatto altro” – si collega alla nozione, molto ampia, di imprenditore fiscale, adottata con la riforma degli anni Settanta. Fu una scelta “di campo” non priva di ideologia, dettata dalla convinzione che la determinazione del reddito su base contabile e analitica fosse superiore a quella paracatastale-estimativa, su cui fino ad allora il sistema impositivo si era fondato (fu peraltro estesa ai redditi di lavoro autonomo). Si pensava (auspicava) che avrebbe fatto emergere i redditi effettivi anche di contribuenti che imprenditori – per il diritto comune – non erano, orientando il sistema tributario a principi di uguaglianza – formale ed effettiva – nella contribuzione. Negli anni, questa scelta è stata mantenuta, nonostante l’evasione crescente che vi si collegava – logicamente, la misurazione dell’evasione dipende dalla definizione di imponibile che uno assuma e a cui va parametrata – ma la si è “svuotata dall’interno”: le si sono cioè affiancate discipline opzionali – semplificate e agevolative – di determinazione paracatastale del reddito, che, più o meno largamente, prescindevano dalle risultanze della contabilità.
      Il regime forfettario è una di esse. In origine, aveva una logica (ratio), che si è poi smarrita, man mano che l’innalzamento del limite di ricavi, da un lato, e lo sfoltimento dei requisiti di accesso e delle preclusioni, dall’altro, ne ampliavano (anche impropriamente) la portata. Forze politiche di varia estrazione vi hanno concorso. Oggi, accoglie più della metà – e mancano i dati del 2023, in cui la soglia di accesso si è alzata – delle partite iva individuali, e non può più considerarsi un regime derogatorio, bensì anch’esso naturale, ispirato a principi opposti a quelli della determinazione analitica e su base contabile del reddito d’impresa (e di lavoro autonomo).
      Chi ne ha beneficiato? Tantissimi: principalmente, chi non pensava di avere costi fiscali spendibili, o non così tanti da rinunciare alla semplificazione negli adempimenti – e alla sostanziale immunità dai controlli – che quel regime comporta (anche per l’Amministrazione incaricata dei controlli).
      Il punto è però che, da regime liminare che era, il forfettario è oggi divenuto asse portante del sistema impositivo – quantomeno per la fascia ristretta degli autonomi, rispetto alle decine di milioni di dipendenti – e non può più semplicemente eliminarsi. E’ una disciplina con cui il decisore politico – soprattutto se si propone ampi programmi riformatori – non può “non fare i conti”, e che è invece volutamente trascurata nel dibattito in corso.
      L’ultimo tema – sul dichiarare di più per evitare controlli – coglie una delle ragioni per cui anche questo concordato preventivo rischia di non avere successo: non vi sono norme che inibiscano i controlli, ma chi aderisce deve (continuare a) dichiarare i ricavi effettivamente conseguiti. Ciò, allo scopo di consentire al fisco di adeguare – verso l’alto – i concordati dei bienni successivi – in una spirale senza fine, che dovrebbe far emergere il sommerso (fermandosi però a quel punto). Ma su questo si è scritto nell’articolo.
      Cordialità,
      DC

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