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Sul salario minimo c’è ancora tanto da discutere

Sono molte le questioni ancora aperte nel dibattito sul salario minimo. Da un lato, l’ampia copertura della contrattazione collettiva non basta più a garantire a tutti una base salariale adeguata. Dall’altro, va riconosciuta più flessibilità al sistema.

La contrattazione collettiva non basta

Nella discussione in corso sul salario minimo sono diversi i punti che suggeriscono che il dibattito sia ancora lontano dall’esaurirsi. Su lavoce.info, Pietro Ichino ne ha toccati due che riguardano chi è favorevole all’introduzione di un salario minimo. Francesco Lombardo e Michele Tiraboschi su Adapt sollevano dubbi di costituzionalità sulla norma che prevederebbe un obbligo per i contratti collettivi di non scendere sotto il minimo. Da parte mia, oltre alle perplessità sul metodo utilizzato (o non utilizzato) per arrivare alla cifra di 9 euro, già espresse in passato e ancora valide, mi soffermo su altre due questioni: una che riguarda solo chi è fermamente contrario a un salario minimo per legge, una seconda, invece, che tocca sia la proposta di legge depositata in Parlamento sia chi vi si oppone.

Uno degli argomenti principe di chi ritiene che un salario minimo non sia necessario è che, grazie a una copertura dei contratti collettivi molto elevata, la contrattazione collettiva già svolge la funzione di garantire salari base a tutti (e molto altro), si veda per esempio il “Compendio del catechismo sul salario minimo” di Emanuele Massagli sempre su Adapt. Come già richiamato in un precedente articolo dedicato alla direttiva europea per salari minimi adeguati, effettivamente tutte le stime sul tasso di copertura della contrattazione collettiva in Italia la indicano come quasi totale, ma solo le stime Cnel-Inps permettono di separare il grano dal loglio, cioè i contratti firmati da sigle sindacali e datoriali vere da quelli “pirata”. Tuttavia, le stime Cnel-Inps si basano sulle dichiarazioni che le imprese rendono all’Inps a fini previdenziali, ma non riflettono necessariamente il Ccnl che è effettivamente applicato e comunicato al lavoratore. L’informazione sarebbe disponibile solo se si riuscisse a allineare quel dato con le informazioni da rendere nel contratto individuale di lavoro e con le comunicazioni obbligatorie presso il ministero del Lavoro, che però non usano il codice alfanumerico unico Cnel-Inps e quindi non possono essere utilizzate per distinguere contratti “buoni” da contratti “pirata” (vi vuole porre rimedio una proposta di legge Cnel in attesa di discussione). Anche assumendo che la copertura sia davvero del 97 per cento, va comunque considerato l’effetto “spada di Damocle” che i contratti pirata possono rappresentare al momento della negoziazione dei contratti “veri”. Se è teoricamente possibile uscire dal contratto collettivo principale per crearsene uno pirata, il potere contrattuale dei sindacati si indebolisce ulteriormente, anche se il Ccnl sarà alla fine rinnovato. Infine, il significativo ritardo nel rinnovo dei contratti rappresenta un limite importante nella capacità della contrattazione collettiva di proteggere i lavoratori pagati meno, soprattutto in un momento di inflazione elevata. Accontentarsi di dire che la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani è coperta dalla contrattazione collettiva non è più un argomento sufficiente per rifiutare l’eventualità di un salario minimo per legge.

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Altrimenti non si capisce come mai, a fronte di trattamenti economici nei contratti collettivi che sulla carta vanno dai 9 a oltre gli 11 euro, metà dei lavoratori del privato guadagni meno di 11,70 euro all’ora. Non è il nero, non è il part-time, non è il precariato (Istat misura i salari orari dichiarati dalle imprese). Ma il divario tra la carta dei contratti colletivi e la pratica della loro applicazione.

La rigidità del sistema

Un secondo punto poco discusso accomuna i due fronti del dibattito: entrambi concordano sulla necessità di estendere i contratti collettivi rappresentativi. Questo avrebbe effettivamente il potenziale di estirpare i contratti pirata ed evitare il rischio di fuoriuscita dal Ccnl per pagare il nuovo minimo per legge. Tuttavia, ciò solleva un altro problema, molto presente nel dibattito fino al 2012-2013 e poi sparito: la rigidità del sistema di contrattazione, che fissa griglie salariali valide da Merano a Lampedusa. I contratti pirata, a modo loro, rappresentano una risposta (ai margini della legalità) a questa rigidità. Alcuni studiosi come il giuslavorista Michele Faioli, infatti, parlano di “aziendalizzazione del contratto nazionale”: essendo limitati i margini legali e pratici di deroga a livello di imprese e territorio, le aziende si fanno il proprio “contratto nazionale”. Per dare una risposta duratura ed economicamente sostenibile al fenomeno, è quindi necessario non solo affrontare il quadro normativo, ma anche la ragione economica di fondo. Sul modello di altri paesi europei, l’efficacia dei contratti non dovrebbe essere automatica, ma concessa dal ministro competente o da una autorità indipendente in base alla rappresentatività dei firmatari e alla presenza di maggiori margini di flessibilità per la contrattazione aziendale e territoriale. I contratti nazionali, per esempio, potrebbero prendere la forma di contratti-quadro che lascino la possibilità di rinegoziarne i termini a livello di impresa entro certi limiti, come in alcuni paesi scandinavi. Oppure, dovrebbero lasciare la possibilità di esenzione dalla estensione in determinate condizioni, per esempio in caso di crisi aziendale o per aziende localizzate in aree economicamente depresse. L’accordo interconfederale del maggio 2011 (quello che fece seguito all’accordo aziendale Fiat del 2010) già prevede la possibilità di rinegoziare al livello aziendale molte voci del contratto nazionale, ma non il minimo tabellare retributivo. Non serve pensare a una piena derogabilità, basta che i Ccnl definiscano le forchette che la contrattazione di secondo livello potrà poi adattare, invece di griglie prescrittive e inderogabili. Limitarsi a dare forza di legge ai Ccnl esistenti, come proposto in questi giorni, senza affrontare la radice dei problemi, rischia di far uscire la questione dalla porta per vederla rientrare dalla finestra.

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In conclusione, ribadisco la proposta fatta nella relazione sul lavoro povero lo scorso anno con altri colleghi: non partire con una norma generale, ma sperimentare un salario minimo per legge o griglie salariali basate sui contratti collettivi in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità, per poterne valutare adeguatamente gli impatti economici e quelli sul sistema di relazioni industriali.

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  1. Savino

    Le problematiche indicate si risolvono dando spazio maggiore alla contrattazione di secondo livello. I sindacati debbono cessare di pensare di essere solo qualcosa di macro, di megalomane e debbono discutere tutte le condizioni contrattuali, luogo di lavoro per luogo di lavoro, territorio per territorio. Ciò non può avvenire per legge, ma per cambio di mentalità. Questa scelta strategica di relazioni non la si vuole fare, ragion per cui si chiede la scorciatoia normativa.

  2. Vittorio Molinari

    Buonasera. L’equilibrio della sua posizione è apprezzabile, ma dal mio punto di vista, è sottostimata la quota di lavoratori non compresi nei CCNL, ciò non solo in base a quanto vedo ogni giorno, situazione che non ha i crismi del dato oggettivo, ma anche sulla base di un’altra constatazione: l’imprenditore che utilizza forme contrattuali povere è un professionista del crimine (mi scuso per ciò l’iperbole, ma non trovo altra definizione); significa che utilizzerà tutti gli strumenti, comprese le false dichiarazioni, spesso non sanzionabili, per non far vedere la propria realtà contrattuale, sia per le retribuzioni, l’orario di lavoro, ma anche per contributi ed imposte. Le sue proposte sono ragionevoli, anche perché graduali.

  3. Michele

    Apprezzabile l’analisi dell’attuale dibattito che finalmente si allarga all’introduzione del salario minimo per legge, tuttavia anche in questo articolo il “focus” non è centrato su chi davvero dovrebbe essere: il lavoratore.
    In tutti questi discorsi sembra che il lavoratore, in Italia, non abbia voce in capitolo e capacità di negoziazione nella sua individualità. Sembra che il salario debba essere deciso in base ad eventi esterni come ideologiche politiche, analisi macroeconomiche, in base alla capacità di negoziazione di sindacati (che sempre meno conoscono i ruoli e le mansioni contemporanee), in base a presunti a budget aziendali per persone come fossero attrezzature e robot.
    Ecco, in Italia, i lavoratori dovrebbero essere visti più come professionisti, ognuno con le sue conoscenze, esperienze ed abilità, ognuno con la propria carriera, ognuno nella sua unicità e nella sua capacità di portare valore aggiunto sul luogo di lavoro.
    I CCNL fanno l’esatto contrario: mettono un’etichetta alle persone e, in base a quella, le fanno interpretare un ruolo per cui acquisiscono diritti e doveri. Un metalmeccanico avrà diritto ha più o meno pause per andare in bagno di un perito chimico non in base alla sua persona e alle specificità del luogo di lavoro ma in base al suo ruolo. Questo appiattimento ed etichettatura dei lavoratori italiani, tramite un CCNL per ogni singola figura lavorativa, è probabilmente la causa principale di un mercato del lavoro immobile in cui tutti sono rimpiazzabili con altri. Infatti ai colloqui le domande che valgono la selezione non sono sul professionista ma sulla disponibilità e flessibilità temporale, sull’età anagrafica, sulla composizione del nucleo familiare.
    Il lavoratore ha bisogno si di essere tutelato ma non di essere etichettato e deprofessionalizzato, ma soprattutto ha bisogno di strumenti di tutela con cui può farsi valere in prima persona. Questo strumento deve essere semplice: tutti devono capirlo dall’immigrato al neolaureato. Deve essere universale: tutti lo devono avere da chi è in stage a chi in apprendistato a chi lavora con cooperative a chi in Partita IVA. Il lavoratore deve avere uno strumento non argomentabile che non posponga al tempo della busta paga il problema . Il lavoratore “alla base” non ha conoscenze giuridiche, non ha il tempo e non ha risorse economiche per farsi valere. Il salario minimo è lo strumento semplice di cui ha bisogno. Una volta che i lavoratori iniziano ad essere pagati dignitosamente per il servizio che offrono possono diventare professionisti e mettono sul piatto della contrattazione capacità, abilità ed esperienze: la propria carriera.

  4. Firmin

    Qualcuno mi spieghi che senso ha un salario minimo orario, piuttosto che giornaliero, settimanale o mensile (eventualmente ridotto per il part time). Neanche la STASI riuscirebbe a controllare il rispetto di una simile norma, a meno di dotare i lavoratori di braccialetti elettronici per la certificazione delle ore effettivamente trascorse in fabbrica. Oltre tutto, gran parte dei nuovi lavori non è retribuito ad ore ma a risultato (una volta si chiamava cottimo). Se l’obiettivo è una integrazione dei salari indecenti è meglio il meccanismo del bonus previsto dal EITC americano, che almeno incentiva l’occupazione regolare. Se invece si vuole rafforzare la parte debole della contrattazione è meglio il RdC, che taglia automaticamente l’offerta di lavoro al di sotto di una certa soglia salariale.

  5. La condizione salariale nel nostro paese ha una storia antica e la contrattazione collettiva ne è stata l’equilibrio più efficace.
    Subito dopo la grande guerra si rese necessario stabilire minimi salariali territoriali derivanti dalla contrattazione collettiva.
    Negli anni ’60 e ’70 la contrattazione collettiva riunificò le differenze di genere e territoriali.
    Nel 1976 si ridusse il divario tra lavoratori con la scala mobile.
    Nei decenni successivi, il salario assunse una funzione di variabile dipendente, caratterizzando la contrattazione come contenitore delle condizioni economiche più generali.
    Tutto questo avveniva con una economia sostanzialmente basata sull’industria manufatturiera. Con l’avvento della robotica e dell’informatica e con la crescita del terziario, i livelli di flessibilità incisero nettamente sul costo del lavoro. Stesso effetto derivato dalla globalizzazione dell’economia.
    Inoltre, la caratteristica italiana basata sulle PMI, incideva sui salari minimi da ccnl che dovevano essere oggettivamente contenuti a livello nazionale con regolamentazioni che aprivano al II° livello aziendale o territoriale.
    La finanziarizzazione delle imprese nell’ultimo ventennio ha posto il lavoro produttivo al terzo posto per grado di importanza, dopo gli investimenti finanziari e commerciali.
    Parlare oggi di salario minimo legale rischia di essere di retroguardia, senza grande efficacia sull’insieme dell’economia e del potere d’acquisto dei lavoratori. Sarabbe come ritornare indietro al “salario come variabile indipendente”.
    Meglio sarebbe, a mio avviso, coinvolgere tutti gli attori economici e istituzionali per stabilire meccanismi che portino un vantaggio tangibile e misurabile se raggiunti obbiettivi concordati. All’interno di questo meccanismo ci sarà lo spazio per definire i minimi retributivi, così come era la contingenza nella scala mobile.

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