Il governo prova a rivedere il sistema pensionistico in vista della legge di bilancio del 2024. Le necessità finanziarie sembrano prioritarie rispetto al ridisegno generale e alla possibilità di pensioni anticipate senza compromettere la sostenibilità.
Il sistema pensionistico italiano
In Italia, il sistema pensionistico si basa su un sistema a ripartizione con metodo di calcolo contributivo. Ciò significa che, pur non finanziando direttamente la propria pensione, i lavoratori hanno diritto a riceverne una calcolata in base ai contributi versati.
Il sistema ha affrontato diverse sfide negli ultimi anni, a causa dell’invecchiamento della popolazione e dei cambiamenti demografici. Ciò ha comportato riforme volte a garantirne la sostenibilità, ma ha anche generato preoccupazioni riguardo all’adeguatezza delle pensioni future.
Nel contesto di un sistema così organizzato, risulta evidente che il flusso delle entrate (rappresentato dai contributi) deve mantenere un equilibrio con l’ammontare delle uscite, ossia le pensioni erogate. È fondamentale lavorare al controllo progressivo della spesa pubblica destinata alle pensioni, in modo da evitare che assuma proporzioni eccessive rispetto al prodotto interno lordo (Pil).
Un sistema previdenziale poco sostenibile
Nel corso degli ultimi anni, a seguito di un peggioramento ulteriore delle circostanze, si sono verificati diversi cambiamenti normativi che hanno apportato modifiche ai criteri e alle fasce d’età per il pensionamento. L’obiettivo principale è quello di ridurre le spese previdenziali, una delle voci di bilancio più onerose per l’erario pubblico. Dall’ultimo Osservatorio sulle pensioni dell’Inps emerge che, nel 2022, la spesa complessiva annua per le pensioni è stata pari a 231 miliardi di euro, di cui 206,6 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali e 24,42 miliardi da quelle assistenziali.
Le maggiori criticità degli ultimi anni sono riassumibili in due fattori principali. In primo luogo, si registra un progressivo invecchiamento della popolazione causato sia dell’aumento della speranza di vita sia dalla riduzione delle nascite, il che comporta un numero sempre più esiguo di giovani generazioni che contribuiscono finanziariamente alle pensioni. Inoltre, la crisi dell’occupazione stabile ha portato a una diminuzione dei contributi versati.
I due elementi contribuiscono al costante deterioramento di un altro indicatore, noto come “tasso normalizzato di pensionamento”. Secondo l’Istat, nel 2018 c’erano 259 individui in pensione su mille abitanti in Italia. Nel 2019, la cifra è salita a 260, nel 2020 a 263 e nel 2021 a 267. Di conseguenza, in proporzione alla popolazione, il numero di pensionati è in costante aumento e le previsioni indicano che la tendenza si aggraverà nel medio e lungo termine.
Nel 2019, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha pubblicato uno studio intitolato “Working better with age”, nel quale si è calcolato che entro il 2050 l’Italia rischia di avere più persone di almeno 50 anni di età che non lavorano rispetto a quelle occupate. Questo metterebbe il nostro paese in una situazione peggiore rispetto agli altri oltre 40 paesi presi in considerazione nello studio.
La situazione emergenziale in cui versa il nostro paese è evidenziata dai dati Eurostat: nel 2019 l’Italia ha raggiunto una spesa pensionistica in rapporto al Pil pari al 15,9 per cento, inferiore solamente alla Grecia (16,1 per cento) e di 3,2 punti percentuali superiore alla media dei 27 paesi dell’Unione. L’Italia dovrà continuare a impegnarsi in un processo di riduzione della spesa destinata alla previdenza sociale non solo per le considerazioni precedenti, ma anche perché tutti gli altri grandi paesi dell’Unione europea sostengono spese inferiori, per esempio la Francia (14,7 per cento), la Spagna (12,7 per cento) e la Germania (11,9 per cento).
Un ulteriore aspetto preoccupante deriva dal fatto che nell’ultima edizione del Documento di economia e finanza (Def), pubblicato dal governo Meloni il 13 aprile, è scritto che la spesa pubblica per le pensioni in rapporto al Pil continuerà ad aumentare almeno fino al 2042.
Le modalità di pensionamento e il tentativo di una riforma previdenziale
Attualmente il sistema pensionistico prevede la pensione di vecchiaia e alcune modalità di pensionamento anticipato. La pensione di vecchiaia, a cui hanno diritto tutti i lavoratori assicurati mediante il sistema di previdenza obbligatoria, viene concessa quando si raggiunge l’età stabilita dalla legge (67 anni dal 2019 al 2022, ma la soglia aumenterà gradualmente in base alla riforma Monti-Fornero del 2011) e si hanno contributi per almeno 20 anni.
Per cercare di rendere più flessibile il sistema in uscita, esistono varie modalità di pensionamento anticipato. Alcune di queste sono la pensione anticipata prevista dalla legge Fornero, l’Ape sociale, Quota 103 e “Opzione donna”.
La pensione anticipata ordinaria è aperta a tutte le età ed è riservata ai lavoratori iscritti alle gestioni Inps. Per potervi accedere, gli uomini devono aver versato contributi per 42 anni e 10 mesi, mentre le donne devono averne versati un anno in meno.
L’Ape sociale è una forma di anticipo pensionistico riservata ai lavoratori considerati categorie deboli, con almeno 63 anni compiuti e un determinato numero di anni di contributi a seconda della categoria (30/36/32). La misura è stata confermata anche per il 2023 con la legge di bilancio.
Quota 103 è la misura transitoria in vigore solo per il 2023, introdotta dalla legge di bilancio allo scopo di evitare il brusco passaggio da Quota 100 ai regimi ordinari. L’età per andare in pensione è fissata a 62 anni di età e 41 anni di anzianità contributiva ed è riservata agli iscritti alle gestioni Inps.
Infine, “Opzione donna” è riservata alle lavoratrici, è stata introdotta dalla legge 243 del 2004 in via sperimentale, ma prorogata fino a oggi, e dà la possibilità di andare in pensione con il sistema di calcolo contributivo con 35 anni di contributi. La legge di bilancio 2023 ha però previsto pesanti modifiche all’anticipo pensionistico riservato alle donne: a causa dell’aumento dell’età a 60 anni (con anticipo di 1 anno per ogni figlio, entro un massimo di due) per tutte le categorie di lavoratrici e dell’introduzione dell’appartenenza a specifiche categorie di svantaggio, di fatto si è reso irrilevante uno dei pochi strumenti di autentica flessibilità in uscita che un sistema contributivo ben progettato dovrebbe avere, come discusso nell’articolo di Carlo Mazzaferro.
Dopo i primi tavoli di discussione del 26 giugno, tra il governo e i sindacati sono in programma due nuove riunioni a luglio sul tema delle pensioni dei giovani e su quello della flessibilità in uscita.
Per quanto riguarda i giovani non è possibile ignorare l’enorme squilibrio generazionale, con un futuro previdenziale più incerto che mai a causa della discontinuità delle carriere e dei salari bassi. Il tema della flessibilità, invece, verrà affrontato proponendo molto probabilmente una deroga a Quota 103 con le attuali regole.
A settembre, sarà il turno di “Opzione donna”. La misura, tuttavia, ha già il destino segnato e se sarà riproposta, lo sarà probabilmente a condizioni ancora più restrittive.
Le decisioni prese dal governo evidenziano come, in Italia, la questione delle pensioni sia un terreno sempre in evoluzione: negli ultimi anni ci si è concentrati principalmente sulla generazione di entrate finanziarie, senza riuscire a riformulare in modo efficace l’intero quadro del sistema pensionistico.
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Andrea Zaniol
Non so se l’avete notato , ma la fig. 2 di questo articolo si riferisce ad altro argomento , modalita’ di voto in vari paesi . Saluti