Risolta la fase critica dovuta alle sanzioni, la banca centrale russa deve oggi districarsi tra l’esigenza di una stretta monetaria che raffreddi economia e pressioni inflazionistiche e la volontà politica di continuare ad alimentare la macchina bellica.

Due motori per la crescita  

Il 31 agosto la banca centrale russa ha stabilito nuovi e più stringenti parametri per i prestiti al consumo, con lo scopo di contenere l’esposizione dei singoli istituti verso i consumatori più indebitati. Il restringimento dei parametri di vigilanza macroprudenziale segue una serie di misure prese negli ultimi mesi, che hanno progressivamente fatto aumentare i tassi alla clientela e cercato di irrigidire il credito, che invece continua ancora a espandersi a doppia cifra, tanto che la banca centrale prevede sarà tra il 13 e il 17 per cento in più rispetto al 2022. Proprio l’aumento del credito a famiglie e imprese, al ritmo massimo degli ultimi cinque anni, è uno dei motori della crescita dell’economia russa nella prima parte dell’anno. L’altro motore della crescita è l’espansione fiscale, decisa dall’esecutivo per sostenere l’invasione dell’Ucraina. Nel 2023 la spesa militare dovrebbe superare i 100 miliardi di dollari, raddoppiando rispetto ai programmi degli anni precedenti e determinando uno sbilancio nei conti pubblici che nei primi sette mesi di quest’anno è arrivato a circa 30 miliardi di dollari, l’1,8 per cento del Pil. In un’intervista di luglio il ministro delle Finanze ha preannunciato che per 2023 il deficit arriverà tra il 2 e il 2,5 per cento del Pil. Per finanziarlo si farà ricorso a nuovo debito (il debito pubblico russo rimane tra i più bassi al mondo, sotto il 15 per cento del Pil) e alle risorse del fondo nazionale della federazione russa (Nwf). Negli anni passati il fondo era utilizzato per sterilizzare gli afflussi valutari in eccesso ma di recente vi si è attinto per compensare il calo degli introiti dalla vendita di idrocarburi. La dotazione del fondo si è così progressivamente ridotta: a fine luglio era di 146 miliardi di dollari, contro i 186 di fine 2022 e i 210 del luglio di un anno fa. Spesa militare e credito ai privati, soprattutto per consumi e investimenti in costruzioni, sono la benzina della crescita dell’economia russa, che il Fondo monetario ha rivisto per due volte al rialzo quest’anno, adesso stimata all’1,5 per cento, mentre la banca centrale russa la colloca tra l’1,5 e il 2,5 per cento, superando di fatto la perdita di prodotto registrata nel 2022. Anche l’indicatore composito Pmi, diffuso da S&P, conferma che la crescita dell’economia russa procede spedita, forse troppo. La disoccupazione, infatti, rimane al minimo storico del 3 per cento e i vincoli all’offerta imposti con le sanzioni, anche se in parte compensati dall’incremento dell’import dalla Cina e aggirati attraverso le importazioni parallele, producono pressioni inflazionistiche significative.  

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La stretta monetaria  

Le pressioni inflazionistiche si sono amplificate con il calo delle quotazioni del rublo. Ormai tagliata fuori dal mercato dei capitali occidentali, la valuta russa si muove in funzione degli afflussi e deflussi valutari che derivano dagli scambi commerciali: quando il prezzo delle merci esportate è alto, gli afflussi aumentano e la valuta si apprezza, quando invece i prezzi internazionali diminuiscono, gli afflussi diminuiscono e il rublo si deprezza di conseguenza. Ai minori afflussi dalle esportazioni si somma l’aumento dei deflussi valutari a seguito dell’incremento dell’import, conseguenza della crescita economica e dell’aggiramento delle barriere imposte dalle sanzioni occidentali. Nei primi sette mesi dell’anno, l’import di beni è cresciuto del 18 per cento, mentre l’export è diminuito del 32 per cento. Il risultato è un surplus di partite correnti che è crollato di circa l’85 per cento rispetto a quello registrato nel 2022, passando da 165 miliardi a 25. Il rublo dall’inizio dell’anno ha così perso circa un terzo del proprio valore rispetto al dollaro, che dai circa 60 rubli di fine 2022 è arrivato a superare quota 100 intorno alla metà di agosto. I prezzi all’importazione sono pertanto aumentati e hanno amplificato le pressioni inflazionistiche interne, con il risultato che l’inflazione, che ad aprile era al 2,3 per cento, sotto al target del 4 per cento, è adesso al 4,4 per cento e si stima che arrivi tra il 5 e il 6,5 per cento alla fine dell’anno. L’aumento dei tassi deciso dalla banca centrale per due volte negli ultimi due mesi, che ha portato il tasso ufficiale di sconto dal 7,5 al 12 per cento, ha appunto lo scopo di raffreddare le pressioni sui prezzi che derivano dall’esterno e dall’interno. Posto che la Russia rimane esclusa dal mercato finanziario internazionale, e la leva del tasso d’interesse non può agire sul cambio attirando capitali stranieri, la stretta monetaria punta a raffreddare l’attività economica, così come i deflussi di valuta da importazioni, e a mantenere ancorate le aspettative di inflazione, che sono in aumento da alcuni mesi. Il compito non è certo semplice. Risolta la fase critica dello scorso anno, quando le sanzioni avevano seriamente messo in dubbio la stessa stabilità finanziaria dell’economia russa, quello che la banca centrale si trova adesso ad affrontare è un contesto per molti versi differente: un’economia che viaggia al potenziale, con poca capacità inutilizzata per espandersi ancora, mentre la domanda interna continua a essere alimentata dalla spesa militare e dal credito bancario. Districarsi tra l’esigenza di una stretta monetaria che raffreddi l’economia e con essa le pressioni inflazionistiche e la volontà politica di continuare ad alimentare la macchina bellica non è storicamente un compito semplice per il banchiere centrale. Lo è ancora di meno nella Russia di Putin.    

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