Rispetto al passato, gli incentivi fiscali per investimenti sono diventati più efficaci. Restano alcune criticità, comprese quelle legate all’utilizzo dei crediti di imposta nelle piccole imprese e al loro coordinamento con le politiche infrastrutturali
Incentivi e investimenti delle imprese
La transizione digitale e la dinamica competitiva delle piccole e medie imprese è un elemento determinante per la crescita dell’economia italiana. Si tratta di una opinione diffusa, recepita anche nel decreto legge 19/2024 che istituisce il nuovo piano Transizione 5.0. Il programma mira a sostenere investimenti in digitalizzazione e transizione green attraverso un ordito generale di crediti di imposta, senza imporre vincoli legati alle dimensioni aziendali.
In attesa delle disposizioni attuative del ministero del Made in Italy, è utile allora fare una breve ricognizione di come hanno funzionato finora gli incentivi fiscali per investimenti materiali, beni intangibili e nuove tecnologie. La maggior parte è stata introdotta a metà del decennio passato, con provvedimenti poi successivamente rifinanziati, modificati o integrati via via con maggiori condizionalità di accesso.
I dati sono quelli della VI Rilevazione su imprese e lavoro (Ril) dell’Inapp condotta su un campione rappresentativo di società di capitali e di persone operanti nel settore privato extra-agricolo.
Innanzitutto, consideriamo il fatto che nel corso del 2021 il 30,5 per cento delle imprese con almeno un dipendente ha effettuato investimenti, mentre solo poco più del 17 per cento ha usufruito di uno schema di incentivazione fiscale. Tra gli incentivi, la misura più diffusa è il credito di imposta, ex super e iper-ammortamento (11,5 per cento), seguita dalle agevolazioni per beni strumentali (4,4 per cento), il credito di imposta per la formazione Industria 4.0 (2,7 per cento) e per spese in R&D (1,2 per cento). Si conferma invece marginale la diffusione di misure quali Patent box, Start up e Pmi innovative nonché i certificati bianchi. Tra le imprese localizzate nelle regioni del Sud, la quota media di quelle che usufruisce del credito di imposta per il Mezzogiorno si approssima al 10 per cento.
L’utilizzo degli incentivi è aumentato negli ultimi anni, pur in presenza di una sostanziale stazionarietà della propensione a investire da parte del nostro sistema imprenditoriale. Investimenti e incentivi, d’altra parte, continuano a essere distribuiti in modo disuguale rispetto al settore di attività, alla ripartizione geografica e, soprattutto, alla dimensione aziendale.
La figura 1 mostra, ad esempio, come l’incidenza media degli incentivi (e degli investimenti), definita come la quota di imprese che ha usufruito di qualche schema di incentivazione fiscale (ha investito), passa da un minimo del 12 per cento (24 per cento) nelle microimprese a un massimo del 59 per cento (83 per cento) nelle grandi realtà produttive. Le differenze tra settori e macroaree sono meno evidenti: l’incidenza degli investimenti e degli incentivi si concentra relativamente nei settori della manifattura e nelle regioni settentrionali.
Figura 1 – Incidenza media percentuale per dimensione di impresa
Misure efficaci?
Un tema importante è quello dell’efficacia degli incentivi e – in fin dei conti –dell’allocazione delle risorse pubbliche necessarie per il loro finanziamento.
Tra le imprese che utilizzano forme di incentivazione per acquisire nuovi macchinari e tecnologie, circa il 54 per cento dichiara che, senza le agevolazioni fiscali, non avrebbe effettuato alcun investimento o ne avrebbe effettuato un ammontare minore. Questa percentuale si riduce al 25 per cento se consideriamo solo le imprese per le quali l’incentivo ha indotto una scelta di investimento che non avrebbero fatto altrimenti.
Se guardiamo questi dati con le lenti del passato, possiamo certamente trarre una notizia positiva: l’efficacia media delle politiche di incentivazione sembra essere migliorata, anche grazie all’introduzione di elementi di maggiore condizionalità. La parte meno confortante della notizia è il suo complemento: una quota significativa di imprese ricorre alle agevolazioni fiscali per finanziare investimenti che avrebbe comunque sostenuto con risorse private (46 per cento).
Ma come si distribuisce l’efficacia degli incentivi fiscali in base alle caratteristiche produttive di chi ne usufruisce? La figura 2 è chiara: l’incidenza media delle imprese che dichiarano di aver investito grazie alla presenza di agevolazioni è più elevata tra le micro e le piccole imprese, diminuisce tra le medio grandi fino a una percentuale minima nelle aziende con oltre 250 dipendenti.
Figura 2 – Incidenza media percentuale per dimensione di impresa
Il dilemma della politica industriale
Siamo così arrivati a un punto importante. L’erogazione delle agevolazioni favorisce le aziende di grandi dimensioni, tipicamente localizzate nelle regioni settentrionali e operanti nei settori della manifattura. Queste imprese hanno la maggiore propensione a utilizzare gli incentivi ma, al contempo, rappresentano il target meno “reattivo” alle politiche di incentivazione. Al contrario, la diffusione degli investimenti e degli incentivi fiscali è molto più limitata tra le piccole realtà produttive. Eppure, gli incentivi sembrano avere maggiore successo nel modificare le decisioni di investimento proprio tra le micro, piccole e medie aziende.
Posta in questi termini, sembra che la politica industriale sia di fronte a un dilemma: finanziare in modo selettivo incentivi che sono efficaci “al margine” per un target di imprese che muove volumi di investimento tutto sommato limitati; oppure allocare risorse pubbliche nella creazione di infrastrutture tecnologiche e filiere produttive integrate, magari incentrate su grandi attori e sui mercati locali.
A ben vedere, però, le opzioni non sono né esaustive né alternative. Possono essere complementari. I decreti attuativi del piano Transizione 5.0 e l’introduzione di una legge sulle piccole e medie imprese possono andare in questa direzione.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza. L’INAPP non è responsabile dell’uso che può essere fatto delle informazioni in esso contenute
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Ugo
Credo che, oltre all’efficacia degli incentivi nello stimolare investimenti, vadano anche considerati i ritorni degli investimenti (certo molto difficili da calcolare).
Se si stimolano di molto gli investimenti di imprese che però da questi investimenti hanno scarsi ritorni, la politica è efficace ma non ottiene impatti rilevanti.
Enrico
Stiamo dicendo che per il 46% delle imprese gli incentivi sono un vero e proprio extra-profitto di cittadinanza, visto che dichiarano che, anche in assenza di sussidi avrebbero effettuato esattamente gli stessi investimenti con risorse proprie o prestiti. Eppure non senti levarsi alti lai contro questi imprenditori-divanisti che, in base ai dati, sembrano annidarsi soprattutto nelle grandi imprese che, pur succhiando più risorse pubbliche, reaguscono meno agli incentivi.
Paolo
Non ho capito bene un punto, quando si parla del fatto che in molti casi gli incentivi sbloccano gli investimenti ma non le decisioni. Cioè, il 54% delle imprese dice che senza incentivi non avrebbe fatto l’investimento, ma che “sapeva già” in cosa investire.
Per molte imprese italiane il problema non è come produrre di più, ma a chi vendere. E il risultato naturale è che si rimandino continuamente investimenti che non si sa se pagheranno. In particolare questo vale per tutte le imprese in settori poco adatti all’export, dove invece operano molte di quelle poche grandi imprese che sembrerebbero non essere particolarmente reattive.
Al netto di posizioni ideologiche, già Adam Smith oltre 2 secoli fa aveva chiaro che è la “dimensione del mercato di sbocco che stimola la specializzazione del lavoro”. Gli imprenditori non investono per fare scorte, ma nella speranza di vendere. E il ventennio di depressione della domanda interna che stiamo vivendo inevitabilmente ha un impatto sulla fiducia ben più decisivo di quanto un credito di imposta possa avere.
Se aggiungiamo l’arretramento spaventoso degli investimenti pubblici, per anni in territorio negativo, la frittata è fatta.