Indici diversi utilizzati per misurare la povertà in Italia danno risultati contrastanti. Quelli di reddito delineano però un quadro del disagio economico più coerente con l’andamento dell’occupazione e dell’economia, in leggera ripresa da qualche anno.
Tanti indici per descrivere la povertà
La quota di persone povere in Italia sta aumentando o diminuendo? Sembra una domanda facile: una volta stabilito un criterio per definire chi è povero, è ovvio che in un certo intervallo di tempo una percentuale o sale o scende o sta ferma, non può fare più di una cosa. Quando abbiamo diversi indicatori, però, si possono muovere in direzioni diverse, ed è quello che succede in Italia da alcuni anni: alcuni sono scesi, altri saliti.
La povertà è un fenomeno complesso, quindi è bene avere a disposizione più di un indicatore per poterla descrivere. La si può definire in base al reddito oppure alla spesa di una famiglia, oppure ancora in termini multidimensionali, osservando se una famiglia riesce a raggiungere alcuni standard ritenuti essenziali per avere un sufficiente livello di benessere materiale.
Un indicatore di povertà può inoltre essere relativo o assoluto: nel primo caso la linea di povertà cambia di anno in anno seguendo il reddito o il consumo corrente medio o mediano, nel secondo la linea viene aggiornata nel tempo solo sulla base dell’inflazione e quindi resta costante in termini reali. Il criterio relativo tende a confondersi con quello di diseguaglianza, perché la fissazione della linea cambia ogni anno a seconda della variazione nella distribuzione del reddito o del consumo, mentre quella assoluta non ne risente.
Il metodo base comune a tutti i paesi per la stima della povertà Ue è quello di povertà relativa di reddito: si è poveri se il reddito disponibile familiare (reso confrontabile tra famiglie di diversa composizione) è inferiore al 60 per cento (o ad altra percentuale) del reddito disponibile mediano del paese.
Istat, unico in Europa tra gli istituti di statistica, da anni accompagna a questa misura anche un indice assoluto basato sulla spesa: si è poveri se la spesa della famiglia è inferiore al valore di un paniere di riferimento, variabile a seconda del tipo di famiglia, della regione e del tipo di comune in cui si vive. Negli ultimi anni questo indicatore assoluto ha assunto il ruolo di punto di riferimento nelle discussioni sulla povertà in Italia. Nell’ultimo Rapporto annuale Istat sulla situazione del paese, ad esempio, la povertà assoluta calcolata sulla spesa è citata ottantuno volte, contro le due citazioni per la povertà relativa di reddito.
Un indicatore di povertà assoluta si può calcolare anche sul reddito: basta prendere la linea relativa sul reddito calcolata in un certo anno e poi aggiornarla nel tempo solo per l’inflazione, proprio come si fa con la linea sulla spesa.
Come è cambiata la povertà
La figura 1 mostra come è cambiata negli ultimi anni la quota di persone in povertà secondo varie definizioni. Per ottenere valori più comparabili con quelli della povertà assoluta, la linea di povertà relativa è il 40 per cento del reddito mediano. Il grafico parte dal 2014 perché da quell’anno sono disponibili i nuovi dati sulla povertà in base alla spesa. Visto che l’indagine sul reddito registra quello dell’anno precedente all’intervista, gli indici sul reddito sono stati retrodatati di un anno. In tal modo, non sono ancora influenzati dal forte incremento dei prezzi del 2022-2023.
Le curve si muovono in modo opposto: l’incidenza della povertà in base al reddito scende, quella sul consumo sale. È molto probabile che la misura basata sui consumi segnalerà per il 2022 e il 2023 un aumento della povertà, a causa della forte inflazione, ma il trend della povertà basata sul reddito è in calo, ed è coerente con la moderata ripresa dell’economia a partire dalla metà dello scorso decennio.
Figura 1 – Percentuale di persone in povertà in Italia negli ultimi anni
Istat calcola anche altri indicatori sul disagio economico delle famiglie. Il loro andamento recente è più coerente con la misura della povertà basata sul reddito e non sulla spesa.
La figura 2 contiene la quota di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale e i tre indicatori che contribuiscono a definirla:
- la povertà relativa di reddito con linea 60 per cento è stabile, ma gli altri indici si riducono negli ultimi 8 anni;
- l’indicatore di grave deprivazione materiale è la quota di persone che vivono in famiglie con almeno 7 segnali di deprivazione materiale e sociale su un totale di 13 rilevati (ad esempio, non poter far fronte a una spesa imprevista, non essere in grado di avere un pasto completo ogni due giorni, non avere la casa adeguatamente riscaldata, e così via). Questo indicatore passa da 12,1 per cento nel 2015 a 4,7 per cento nel 2023;
- la bassa intensità di lavoro è la quota di persone che vivono in famiglie i cui membri hanno lavorato meno del 20 per cento del loro tempo di lavoro potenziale. La sua riduzione è associata al recente incremento dell’occupazione.
Il rischio di povertà o esclusione sociale è la combinazione dei tre indicatori, cioè la quota di persone che sono o in povertà relativa di reddito, o in grave deprivazione, o vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro. Scende di cinque punti percentuali nel corso del periodo.
È piuttosto forte quindi il contrasto tra l’indicatore più usato per misurare la povertà e gli altri indici disponibili. Questi ultimi forniscono un quadro del disagio economico più coerente con quanto sappiamo sull’andamento dell’economia, in leggera ripresa a partire dalla metà dello scorso decennio (a parte il periodo Covid-19), e dell’occupazione. L’abbondanza di dati e misure sulla povertà è utile per aiutare a capire un fenomeno così variegato, ma a volte rischia di confondere le idee e rende difficile capire cosa sta accadendo. Tutti questi indicatori possono fornire argomenti sia a chi è convinto che le cose peggiorano sia a chi vede il bicchiere mezzo pieno. Nel caso specifico, l’indicatore più usato ha un andamento che contrasta con la maggioranza degli altri.
Figura 2 – Indicatori di povertà o esclusione sociale – Europa 2030
* Questo articolo è stato pubblicato in contemporanea, in una versione breve, su Il Foglio.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Savino
Un criterio oggettivo è quello della disponibilità patrimoniale. Chi vive in affitto e stenta a pagarlo, chi non può permettersi l’automobile o si arrangia con vecchi modelli, chi non riesce a far studiare i propri figli ecc. ecc. Trovo assurdo e vergognoso che non si riesca a porre a criterio quelli che vengono definiti bisogni o necessità. Stessa cosa, in Italia, vale per i meriti, i demeriti, i diritti e i doveri.
Giovanni Fattore
Il ragionamento sulla povertà vale anche per la disoccupazione o la diseguaglianza. Misure diverse danno risultati parzialmente diversi. A me la scelta dell’ISTAT convince : a) perchè la povertà assoluta tende ad essere più drammatica b) perchè l’incertezza potrebbe portare le persone, anche le più povere, a risparmiare rinunciando a prodotti e servizi essenziali c) perchè è corretta per le differenze geografiche nei prezzi. Inutile dire che con 1000 euro è molto più povera una persona a Milano che in un paese della Calabria. Grazie comunque dell’utile articolo.
Enrico
L’ottimo articolo di Baldini (e i pessimi commenti di alcuni analisti e dei media) trascurano gli indicatori di “intensità” della povertà a favore del puro conteggio del numero di famiglie in condizioni definite critiche. Ad esempio, il calo del numero di famiglie con un reddito “da poveri” in Italia (sbandierato da tutti i filogovernativi di ogni stagione) nasconde un peggioramento delle condizioni materiali di quelle stesse famiglie, come suggerisce anche l’indicatore basato sui consumi (c’è segnala un aumento dell’area della povertà). Avere un reddito inferiore ad una certa percentuale di quello mediano (non deflazionato), infatti, non vuol dire molto se quella stessa soglia non consente più una vita dignitosa. Se è così, il calo degli indicatori basati sul reddito indicherebbe solo un generale impoverimento del paese che comparativamente fa “brillare” sempre di più i redditi delle famiglie definite povere.
Mahmoud
Tutto pare convergere ad una situazione di sussistenza: da un lato sussidi e lavori sottopagati coprono una parte sempre più rilevante della popolazione togliendola dalla povertà assoluta, dall’altro il “ceto medio” inevitabilmente si sgretola sempre di più. Ormai sempre meno famiglie possono fare qualcosa ritenuto normale in Europa pochi decenni fa, come acquistare casa di proprietà e crescere alcuni figli con un solo stipendio per famiglia.