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È sempre tempo di concordato in Italia

Già a fine Ottocento i lavoratori autonomi pagavano imposte a forfait, in base ai redditi passati. Ripercorrere la storia del concordato nel sistema tributario italiano può forse aiutarci a capire quali possibilità di successo ha la sua ultima versione.

Una presenza costante nel sistema tributario

Il concordato ha costituito per lungo tempo il fulcro del sistema tributario italiano, come mostra la storia della tax compliance nel nostro paese.

In principio, fu solo un verbo: “(…) l’agente, dopo aver riportato sulla tabella le somme di reddito netto che siansi concordate coi contribuenti (…)”.

Correva l’anno 1877 e i contribuenti dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile (o RM), l’antesignana dell’Irpef, si potevano dividere in due gruppi: coloro che la pagavano per intero, in quanto percettori di redditi “certi e fissi” (leggi: capitale e lavoro dipendente) grazie a un sistema, di nome o di fatto, di ritenuta alla fonte; e i soggetti “non tassati in base a bilancio” con redditi “incerti e variabili” (leggi: imprenditori individuali e lavoratori autonomi), un po’ più renitenti.

La procedura per i secondi era molto diversa dal sistema di autoliquidazione e versamento spontaneo, a cui oggi siamo abituati. Per farla breve, era l’agente delle tasse che, ricevuta la “scheda” (leggi: modello) compilata dal contribuente, controllava, liquidava l’imposta, redigeva una tabella con nomi, redditi e tributi e poi spediva il tutto (rectius: i ruoli) all’esattore; questi riscuoteva il dovuto emettendo la cartella. L’accertamento – e con esso il concordato – avveniva nel bel mezzo della procedura di dichiarazione, e non dopo, come oggi.

Nello specifico, per i titolari dei redditi “incerti e variabili” (incerti nel senso che la probabilità che si ripetano è ritenuta inferiore al 100 per cento) l’accertamento era fatto per classi e cioè per categorie professionali; le verifiche dell’agente si riducevano a poco o nulla, anche perché c’era ben poco su cui basare i controlli: niente contabilità, e anche quando veniva tenuta, era inaccessibile al fisco. Il risultato, sancito dal concordato, era non il reddito effettivo, ma un reddito corrispondente a quello medio della categoria in quel dato territorio.

Inoltre, l’imposta era calcolata non sull’anno, ma sul biennio precedente quello in cui era fatta la dichiarazione, prendendo la media dei redditi. Infine, l’imposta sull’imponibile così determinato non valeva per il biennio passato, ma per quello futuro. In breve: la dichiarazione del 1877 conteneva l’imponibile medio del 1875-1876 e serviva per pagare le imposte di competenza degli anni 1878-1879. 

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Quindi in Italia già a fine Ottocento gli autonomi pagavano imposte concordate a forfait, in base ai redditi passati, ma validi per i due anni successivi, diventati quattro a partire dal 1907, anno in cui l’istituto ebbe una più dettagliata regolamentazione.

Il motivo di una simile procedura era l’incapacità di accertare il reddito effettivo a causa dell’impossibilità, anche teorica, di avere le informazioni necessarie, in quanto non prodotte dallo stesso contribuente, in assenza di obblighi contabili. Si trattava di una forma embrionale di lotta all’evasione, condotta sparando nel mucchio al buio, basata su meccanismi di fatto intimidatori e conclusa dall’accettazione da parte del contribuente di dichiarare un “di più” e da parte del fisco di una certa dose di evasione.

Le riforme negli anni Cinquanta e Settanta

La prassi durò tre quarti di secolo. Con l’esercizio finanziario 1952-1953 (riforma Vanoni), sparì la media del biennio precedente come imponibile e l’anno di commisurazione dell’imposta divenne anche quello di competenza: “Le imposte dirette, accertate in confronto dei contribuenti non tassati in base a bilancio, sono dovute per l’esercizio finanziario avente inizio dal 1° luglio e sono commisurate sui redditi conseguiti nell’anno solare precedente” (art. 18, legge 25/1951).

Il concordato tout court, però, rimase, prendendo semplicemente il nome di “adesione”; questo perché, a dispetto delle previsioni di legge, la “difficoltà degli accertamenti” rendeva “costante la contrattazione dell’imposta dovuta”, il che portava a una forma di concordato significativamente qualificata come “a stralcio” (così il rapporto Cosciani del 1963 sulla riforma tributaria): di nuovo un forfait invece del reddito effettivo, soltanto ora di validità annuale, anziché pluriennale, e relativo al passato.

La riforma del 1972-1973 ebbe fra i suoi obiettivi la cancellazione del concordato, ritenuto parte di un sistema di accertamento superficiale e di sostanziale accettazione dell’evasione, da sostituire con verifiche, in numero limitato ma approfondite. Inoltre, con le leggi successive, si modificò in profondità la procedura di dichiarazione: ora il contribuente non solo dichiarava, ma provvedeva anche a calcolare l’imposta e a versarla, senza più l’intervento del fisco. L’accertamento diventava un momento successivo a tutto questo, i cui risultati erano consacrati in un atto che in un certo senso si contrapponeva alla dichiarazione del contribuente.

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Il concordato rinacque sì, qualche anno dopo, ma con il nome di accertamento con adesione: la sua base era l’atto di accertamento del fisco, il che implicava che, a differenza del passato, una qualche forma di verifica del reddito effettivo era stata almeno tentata, complice anche la generalizzazione degli obblighi contabili.

La versione più recente

Oggi il concordato viene riproposto e, di fatto, con la stessa finalità del passato: recuperare evasione tramite adempimento spontaneo, cioè con il consenso del contribuente. La riproposizione ha senso nella misura in cui ancora esiste il limite che il fisco sperimentava nel passato: l’impossibilità di accertare il reddito effettivo, oggi non tanto per l’assoluta mancanza di informazioni, ma per la materiale impossibilità di controlli a tappeto.

Se però questo è vero, allora ci si deve porre la domanda del perché un soggetto che ha buone probabilità di non essere controllato, dovrebbe in modo del tutto spontaneo offrirsi di pagare di più di quanto abbia fatto fino a oggi. In questo caso, il concordato contemporaneo sarebbe, nella sua logica di funzionamento, in buona parte assimilabile a quello in vigore nel secolo scorso. Il dubbio è se non rischi di replicarne anche gli incerti risultati nella lotta all’evasione.

* Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono l’istituzione di appartenenza dell’autore.

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  1. ugo romano

    L’ annosa questione sulla equa tassazione dei redditi cosiddetti “incerti”, aldilà delle sterili periodiche polemiche giornalistiche, potrebbe trovare un inizio di soluzione accettabile qualora alla pretesa presuntuosa di assoggettare ad imposta il fantomatico “reddito effettivo” si decidesse umilmente e con spirito pratico di adottare il parametro del “reddito effettivamente verosimile” , in contrapposizione a quello di “reddito effettivamente inverosimile”…

  2. Firmin

    Pare che i pubblicani, ovvero gli esattori denigrati nei vangeli, usassero metodi molto più accurati, basati sulla stima del patrimonio (fondata su un catasto ben costruito ed aggiornato) e su una specie di poll tax, ovvero una imposta capitaria uguale per tutti. Concordati e regimi forfetari rappresentano dunque un regresso rispetto ai tempi dei romani. Una patrimoniale sarebbe più semplice ed equa.

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