A Jackson Hole, Jerome Powell non si è limitato ad annunciare l’attesa svolta di politica monetaria. Ha anche ripercorso gli avvenimenti degli ultimi anni, fornendo utili chiarimenti sull’approccio seguito dalla Fed e poi da altre banche centrali.
Il discorso di Powell
Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell ha colto l’occasione del suo intervento al recente forum dei banchieri centrali (Jackson Hole, Wyoming, 23 agosto) per annunciare la svolta della politica monetaria statunitense, che verrà messa in pratica a partire dal prossimo meeting del board a metà settembre. Ma il discorso è stato anche l’occasione per chiarire l’interpretazione che la banca centrale americana dà degli avvenimenti degli ultimi quattro anni, che hanno visto prima il vistoso incremento e poi il rientro dell’inflazione. Mentre il primo aspetto del discorso di Powell è stato ampiamente ripreso dalla stampa, per le evidenti implicazioni sull’evoluzione dei tassi di interesse e dei mercati finanziari nell’immediato futuro, il secondo lo è stato assai meno, forse perché giudicato di interesse più “accademico”. L’analisi retrospettiva di Powell è invece interessante per comprendere l’approccio della Fed, e in realtà anche di altre banche centrali, di fronte a uno shock inflazionistico come quello verificatosi nel 2021-2022.
La svolta della politica monetaria statunitense
Il presidente Powell non poteva essere più chiaro: “the time has come for policy to adjust”. Il momento per abbandonare la politica restrittiva, mantenuta finora, è arrivato. In omaggio al principio della politica data-dependent (che ha sostituito la foreward guidance usata per molti anni ma ormai andata in soffitta), l’indicazione è stata accompagnata dal solito ritornello: il timing e il ritmo delle riduzioni dei tassi di interesse ufficiali dipenderanno dai dati in arrivo e dall’evoluzione delle prospettive economiche. Il board si tiene così le mani libere di decidere di volta in volta sulla base delle informazioni più recenti. Ma la direzione di marcia è chiara, al di là delle discussioni sulla dimensione del prossimo taglio dei tassi, se di un quarto o di mezzo punto percentuale. Il cambio di rotta (che qualche membro del board avrebbe voluto intraprendere già alla fine di luglio) si giustifica con la convergenza del tasso di inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento (il dato di giugno segna un 2,5 per cento per Personal Consumption Expenditures – Pce price index) e con l’indebolimento del mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione è in aumento, pur mantenendosi al livello storicamente basso del 4,3 per cento, e la crescita dei salari è moderata. Rispetto al passato, il mix dei rischi è cambiato: quello di una ripresa dell’inflazione è diminuito, mentre quello di una riduzione dell’occupazione è aumentato. La Fed persegue infatti un obiettivo duplice e bilanciato (dual mandate): stabilità dei prezzi e piena occupazione. Tuttavia, il mix dei rischi faceva prevalere finora il primo obiettivo. D’ora in avanti, invece, la priorità della Fed sembra essere la prevenzione di un ulteriore indebolimento del mercato del lavoro.
La versione dello shock temporaneo
Da cosa è dipesa la fiammata inflazionistica del 2021? Jerome Powell ricorda che la pandemia ha portato con sé l’uscita dal mercato del lavoro di 8 milioni di persone, riducendo così drammaticamente l’offerta di lavoro. La dimensione della forza lavoro ha recuperato il livello pre-pandemico solo nel 2023. Le catene internazionali di approvvigionamento di materie prime e semi-lavorati hanno risentito delle diverse ondate di lockdown. Quando le restrizioni dovute alla pandemia sono state abbandonate, i consumi sono rimbalzati, anche per effetto della politica fiscale che ha fornito ampio sostegno. L’aumento della domanda, in presenza di vincoli dal lato dell’offerta, ha causato ampi aumenti dei prezzi di alcuni beni di consumo, ad esempio le automobili, nella primavera del 2021. In questo scenario, la Fed, come altre banche centrali, si è per un po’ di tempo cullata nella illusione che la pressione inflazionistica fosse temporanea e destinata a rientrare spontaneamente. Sulla base di questa visione, la risposta è stata “da manuale”: di fronte a uno shock inflazionistico da offerta temporaneo, la banca centrale non reagisce, purché le aspettative di inflazione rimangano ancorate all’obiettivo annunciato dalla banca centrale stessa (2 per cento). Poiché il tasso di inflazione atteso rimaneva basso, la Fed riteneva opportuno “lasciare correre” l’inflazione effettiva: reagire in senso restrittivo avrebbe inflitto un costo ingiustificato all’economia reale. Se la versione dello shock temporaneo è sufficientemente condivisa, una banca centrale può permettersi di lasciare correre l’inflazione senza perdere la sua reputazione di “guardiano dell’inflazione”. Per questo motivo, la Fed e altre banche centrali (tra cui la Banca centrale europea) hanno molto insistito nella loro politica di comunicazione, durante il 2021, sulla tesi dello shock temporaneo.
Tuttavia, la versione dello shock temporaneo ha avuto vita breve. Verso la fine del 2021, i dati hanno cominciato a smentire quella visione. All’inizio dell’anno successivo, l’incremento dei prezzi dell’energia, dovuto all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, avrebbe aggiunto altra benzina sul fuoco. Con un mercato del lavoro molto “teso” (con difficoltà a reperire lavoratori in diversi settori) e di un tasso di inflazione su livelli storicamente alti (attorno al 7 per cento), la Fed ha finalmente avviato la stretta monetaria che ha portato il tasso ufficiale d’interesse a crescere di oltre cinque punti percentuali nel corso del 2022-2023. Sempre nel 2022, sono stati prima ridotti e poi terminati gli acquisti di titoli sul mercato, ponendo così fine alla politica di allentamento quantitativo (quantitative easing). Questa ha lasciato il posto alla politica di restrizione quantitativa (quantitative tightening): il mancato reinvestimento di parte dei titoli in scadenza, detenuti dalla Fed, produce una riduzione della dimensione del suo bilancio. La stretta monetaria è stata mantenuta fino ad oggi.
La credibilità mantenuta
Dal picco raggiuto nell’estate del 2022, l’inflazione si è ridotta di ben 4,5 punti percentuali negli Usa (dal 7 al 2,5 per cento, prendendo come riferimento il Pce price index). Ciò è avvenuto senza una brusca frenata dell’economia e in presenza di condizioni soddisfacenti del mercato del lavoro, che solo di recente mostra segni di indebolimento. Cosa ha reso possibile questa success story rivendicata da Powell? Due fattori. Primo, il rientro di alcune distorsioni (viste sopra) dal lato dell’offerta e della domanda di beni di consumo, legate all’uscita dalla fase pandemica e allo shock energetico. Peraltro, al contenimento della domanda aggregata (di beni di investimento e di consumo durevole) ha contribuito anche la stretta sui tassi d’interesse. Secondo, il fatto che la politica monetaria aggressiva, attuata nello scorso biennio, ha contribuito a mantenere basse le aspettative di inflazione: mostrando la sua determinazione ad agire, seppure con ritardo, nel combattere l’inflazione, la Fed ha preservato la credibilità del suo obiettivo di inflazione (2 per cento), pur in presenza di un’ampia e non breve deviazione del tasso effettivo rispetto a esso. Quanto maggiore è la reputazione anti-inflazionistica della banca centrale, quanto minore è il costo reale della disinflazione: questo aspetto è stato spesso trascurato nel dibattito che ha accompagnato la stretta monetaria della Fed (e della Bce), quindi bene ha fatto Powell a richiamarlo.
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Firmin
Per le banche centrali è certamente essenziale mantenere la loro credibilità, il problema è stabilire gli obiettivi rispetto ai quali devono essere credibili. Se l’unico obiettivo è il contenimento del tasso di inflazione (come per la BCE), non c’è dubbio che le attuali politiche monetarie siano sostanzialmente appropriate. Tuttavia l’attenzione quasi esclusiva alla dinamica dei prezzi da parte delle banche centrali ricorda da vicino una classe di patologie indicate come monomanie nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali in cui una sola idea sembra assorbire tutte le facoltà intellettuali. Non a caso anche i modelli di comportamento economici più ortodossi prevedono che un soggetto razionale massimizzi una funzione in cui entrano diversi obiettivi desiderabili. Mi chiedo perché le banche centrali debbano invece concentrarsi su un unico oggetto del desiderio, come qualsiasi piromane, serial killer o maniaco sessuale.
Angelo
Quando leggo queste analisi fatte da chi dovrebbe comandare, o almeno indirizzare gli avvenimenti, resto sempre basito. Per anni continuavano a raccontare il mantra del 2% d’inflazione, senza mai riuscire ad ottenerlo. Poi stavano a guardare con l’inflazione che correva, dicendo che era un fuoco di paglia. Poi l’inflazione scendeva e non facevano nulla nuovamente, dicendo che l’ inflazione vera era ancora alta. Però quando le cose sono già successe, sono bravissimi a prendersi i meriti e a spiegarle. Ma loro le hanno capite?
Savino
La variabile della domanda di beni, servizi e credito è scomparsa; l’offerta se le canta e se le suona da sola. Le spese obbligate mangiano gran parte del potere d’acquisto. Il consumatore-contraente debole è rassegnato ad un incremento costante di prezzi e tariffe (anche pubbliche, cosa ancor più grave) a causa del ricarico post-pandemico, bellico, climatico e dell’aumento generalizzato di ogni materia prima. Solo i governi e i banchieri centrali non vedono tutto questo. Mi vien da dire, che razza di economisti sono!!