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Perché il rapporto Draghi non è solo un libro dei sogni

Il rapporto Draghi offre una profonda analisi delle ragioni per la scarsa crescita Ue e dei rischi per il futuro. Le soluzioni proposte richiederebbero che l’Europa diventasse una vera federazione. Ma qualcosa si può iniziare a fare, almeno tra paesi volenterosi.

Il rapporto Draghi

Se si dovesse ridurre a una battuta il rapporto Draghi, si potrebbe riassumere così. Se l’Unione europea vuole recuperare i livelli di reddito e competitività perduti rispetto ad altri grandi paesi e affrontare le sfide del futuro (tra cui una devastante crisi demografica) deve smettere di comportarsi come un’accozzaglia di paesi diversi, debolmente connessi tra di loro. Deve invece diventare una vera e propria federazione in alcuni campi specifici, coordinando tutte le politiche per raggiungere obiettivi comuni in settori fondamentali – come l’energia, l’industria del futuro, la difesa – pur mantenendo la specificità del modello europeo, quale un più esteso sistema di welfare e minor disuguaglianza. Così, per esempio, come già fanno Usa e Cina, politica commerciale, politica fiscale e politica industriale dovrebbero essere coordinate, invece che frammentate e differenziate tra governo europeo e singoli stati nazionali, proteggendo con tariffe le industrie innovative su cui la Ue mostra i ritardi più seri, stimolandone lo sviluppo con investimenti e sussidi appropriati, garantendo la sicurezza degli approvvigionamenti con specifici trattati commerciali con i paesi più affidabili.

Le immani risorse necessarie per sostenere la transizione ipotizzata (il 5 per cento del Pil europeo all’anno di maggiori investimenti, secondo le stime) dovrebbero arrivare da finanziamenti pubblici congiunti, emettendo anche debito europeo se necessario, e soprattutto dai privati, armonizzando e semplificando la regolamentazione dei mercati finanziari e bancari per veicolare l’enorme risparmio europeo a sostegno di questi investimenti, e rivedendo la politica della concorrenza nei settori fondamentali, che finora ha impedito lo sviluppo di campioni europei sufficientemente robusti da competere con gli equivalenti cinesi e americani.

L’Unione di oggi

Siccome la Ue non è una federazione e non sembra aver voglia di diventarlo attraverso una nuova attribuzione di competenze e la revisione delle regole decisionali (inclusa l’abolizione del vincolo dell’unanimità sulle politiche principali) e, soprattutto, dato che la situazione finanziaria dei paesi principali è molto diversa – con alcuni sull’orlo del tracollo finanziario per eccesso di debito, mentre altri sono vincolati da regole interne e comunque non sono disposti a mettere in comune altre risorse – il rapporto Draghi è stato rapidamente classificato come un libro dei sogni, destinato al cassetto. In particolare, alla luce della situazione politica attuale, che vede i principali paesi europei con governi traballanti e insidiati dai populisti e altri che hanno già governi esplicitamente sovranisti e antieuropei.

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Sembra però una lettura un po’ semplicistica. Certo, nel rapporto Draghi c’è molto ottimismo della volontà, ma in realtà i problemi su cui pone l’accento sono già ben noti e discussi nelle cancellerie dei principali paesi come nelle istituzioni europee. Sul fatto che ci sia un sempre più preoccupante ritardo europeo nelle principali tecnologie e industrie del futuro e che bisogna intervenire urgentemente su difesa, energia e politica commerciale, l’accordo è pressoché generale. Più che nella novità della diagnosi, e al di là della condivisione di specifiche proposte, il merito del rapporto è piuttosto quello di offrire una visione onnicomprensiva dei problemi e delle possibili soluzioni, in particolare sottolineando il fatto che per una banale ragione di scala e di effetti di ricaduta è illusorio pensare che i singoli paesi, anche i più grandi, possano pensare di risolvere i problemi da soli. Se i vincoli politici di breve periodo impediranno l’attuazione immediata di quanto previsto, il rapporto resterà un punto di riferimento e influenzerà sicuramente l’attività della nuova Commissione, la cui presidente, non a caso, ha attribuito a Mario Draghi il compito di redigerlo.

I punti su cui lavorare

Ma in concreto che cosa ci possiamo aspettare? È chiaro che pensare di cominciare ad applicare l’agenda Draghi discutendo di riforme dei Trattati (che comunque il rapporto ritiene non necessarie) o di debito comune è un non-sequitur, bloccherebbe immediatamente ogni possibile progresso. Invece, puntare su alcuni progetti comuni, rivedendo quanto già fatto e discutendo prima cosa fare e poi casomai come finanziarlo, può essere una strategia che raccoglie sufficiente consenso.

Per esempio, un tema centrale nel rapporto Draghi è il costo dell’energia che le imprese europee devono affrontare, molto superiore a quello delle concorrenti cinesi e americane. Qui, riformare il funzionamento del mercato dell’energia per abbassare i costi di intermediazione e rafforzare le reti elettriche transnazionali dovrebbe essere un interesse comune a molti paesi. Investire su progetti di difesa comune, a cominciare dal sistema missilistico, è un interesse comune e potrebbe anche fare risparmiare soldi, riducendo le duplicazioni e sfruttando i ritorni di scala. Aumentare il finanziamento autonomo del bilancio europeo, così da renderlo meno dipendente dalle decisioni dei paesi, e quindi più efficace, è una possibilità concreta, già sostenuta da numerose proposte. Ridurre l’onere burocratico e regolatorio sulle imprese, magari adottando il “28esimo sistema” suggerito da Enrico Letta è una possibilità ragionevole. E si potrebbe continuare a lungo.

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Anche l’unanimità è un vincolo solo fino a un certo punto. I Trattati già prevedono che gruppi di paesi possono portare avanti progetti comuni, lasciando agli altri la scelta di aderire, se vogliono, in futuro. Certo, sarebbe un peccato, perché perseguire una determinata politica in gruppi più piccoli significherebbe perdere i vantaggi della dimensione europea. Ma, di fronte a paesi scettici o sovranisti, potrebbe rappresentare la soluzione, invece di consentire a questi ultimi di bloccare l’intero processo.

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Il Punto

  1. Savino

    I problemi non sono inerenti tanto la forma di una politica comune, ma sono questioni di bilancio, di debito e di trasparenza nell’utilizzo di fondi appropriati per determinate politiche comuni.

  2. BB

    L’ Europa politica non è,’ una federazione e non interessa a nessuno che lo diventi , purche’ produca stipendi, privilegi, arricchimento personale a chi ne fa parte. Il popolo da qui “populisti” si usa alla tornata elettorale.Infatti vota meno del 45%
    Cominciamo seriamente a chiedere, e con una votazione europea per ogni stato , chi decide di aderire all’unione e chi no

  3. paolo

    Alcuni spunti dall’articolo:

    “Se l’Unione europea vuole recuperare i livelli di reddito e competitività perduti rispetto ad altri grandi paesi e affrontare le sfide del futuro (tra cui una devastante crisi demografica) deve smettere di comportarsi come un’accozzaglia di paesi diversi, debolmente connessi tra di loro”. Questa è una valutazione meramente politica, dal punto di vista strettamente tecnico se l’UE vuole crescere di più e non perdere terreno quello che deve fare è investire, investire, investire, investire. Il problema non è quindi comportarsi da “accozzaglia di paesi”, ma essersi dati regole che hanno avuto come effetto (e anche come scopo) quello di ridurre gli investimenti pubblici.

    E questo dipende dal maggior peso decisionale che hanno avuto i paesi “vincolati da regole interne e [che]comunque non sono disposti a mettere in comune altre risorse”. Non dai paesi “con eccesso di debito”, che sono stati quelli che più di ogni altro hanno tagliato investimenti e sofferto della scarsa crescita.

    Come ben specificato, venendo alle possibili soluzioni, l’unanimità non è un problema, gruppi di paesi possono fare progetti comuni, e già ne fanno. Quindi quale è stato l’ostacolo principale a questi progetti? Forse l’assurdità delle regole economiche?

    Da ultimo, Draghi ha sottolineato le peculiarità positive del modello sociale europeo, che rischia di saltare. Ma il modello sociale europeo, così importante, è stato nel rapporto sventolato sotto forma di minaccia. Quali impegni si vuole prendere l’Europa per lo stato sociale di tutti i cittadini? È la cosa di cui più andiamo fieri e non ha nessuno spazio nelle discussioni sul futuro dell’Unione Europea.

    Quindi, tirando le somme, forse la federazione non si farà mai, forse i paesi non vorranno mai essere solidali, ma possiamo sperare che a gruppi facciano cose. Quali sono gli ostacoli da superare? I vincoli di bilancio e il tabù della monetizzazione del debito. Fintanto che non ci sarà accordo su una maggiore integrazione, se l’UE vuole sopravvivere dovrebbe smantellare le regole economiche assurde che si è data.

  4. michele

    Il fatto che in Italia si parli di risolvere i problemi di bassa crescita… dell’Europa (!) lo trovo un pò ironico, per così dire. E mi pare anche fumo che ci stiamo gettando negli occhi per non vedere i nostri problemi. Piuttosto sforziamoci nello spingere le riforme che servono a noi, che gli altri paesi non se la cavano così male.

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