Il risultato più importante della Cop29 di Baku è aver evitato il fallimento grazie a un accordo al ribasso sulla finanza climatica. Si è affievolita la spinta verso il raggiungimento dell’obiettivo delle emissioni zero. Anche la Ue non è più un faro.

Una Conferenza anonima

La Cop29 appena conclusa a Baku non si consegnerà alla storia: entro poco tempo l’opinione pubblica l’avrà dimenticata. La stessa sorte è toccata a quasi tutte le altre Cop: Sharm El Sheikh, Marrakech, Katowice, Madrid, New Dehli, Milano, Buenos Aires, Nairobi, Durban, Poznan, Cancún. Se ne ricordano solo gli addetti ai lavori perché è quella, come tante altre prima, dove è stata varata la nuova “Initiative” o che ha inaugurato un’altra “Roadmap”, quando non erano “un Dialogue” o un’”Alliance”. Le “vere” Cop si contano ancora sulle dita di una mano: Kyoto, Copenaghen, Parigi, Glasgow.

Quello della Cop di Baku era poi un insuccesso annunciato e, come è stato detto da alcuni osservatori, è già un risultato aver evitato un disastro diplomatico, seppure fuori tempo massimo, anche qui come è già capitato in altre occasioni. Negli ultimi giorni della conferenza giravano sondaggi su quando si sarebbe riusciti a chiudere con il comunicato finale e Baku si è collocata sul trend mostrato dalla figura 1, con un giorno e mezzo di ritardo.

Figura 1 – Durata delle Cop rispetto alla chiusura prevista

Fonte: CarbonBrief – COP28: Key outcomes agreed at the UN climate talks in Dubai

L’accordo sulla finanza climatica

Il risultato principale del meeting riguarda la finanza climatica. Qualcuno, come il Commissario europeo al clima Wopke Hoekstra, l’ha enfaticamente salutato come l’“inizio di una nuova era per la finanza del clima”. A noi sembra un’affermazione forzata, se pensiamo che i 300 miliardi di dollari annui sono solo tre volte i famosi 100 miliardi annui stabiliti nella Cop15 di Copenaghen del 2009 e che anziché essere risorse annuali sono diventati una somma messa insieme finalmente solo nel 2022. Ci sono motivi per essere pessimisti, visto che siamo rimasti lontanissimi dalla richiesta avanzata dai paesi in via di sviluppo di un contributo di 1300 miliardi annui e visto che, secondo l’Energy Transitions Commission, un think tank di leader globali dell’energia, gli investimenti per il clima nei paesi in via di sviluppo (Cina esclusa) necessari per contenere l’aumento della temperatura entro +2°C ammontano a 900 miliardi all’anno.

Il tema della finanza per il clima è cruciale per almeno due motivi. Il primo è che i paesi meno ricchi hanno come primo obiettivo quello della crescita economica e del benessere, in un contesto di aumento dei consumi e quindi del fabbisogno di energia. Il secondo, collegato al primo, è che in prospettiva le emissioni tenderanno a crescere lì proporzionalmente di più rispetto al mondo sviluppato ed emergente. Come nota l’Economist, è dunque essenziale che i fondi vadano a finanziare o a stimolare l’investimento privato nelle energie rinnovabili e a compensare per la chiusura delle centrali a carbone. Ma è altrettanto necessario che vadano a finanziare il mantenimento di serbatoi di carbonio come le foreste: il controllo dell’aumento della temperatura permesso da estese coperture forestali è un bene pubblico globale per il quale tutti i paesi che ne beneficiano sono chiamati a contribuire. Infine, i fondi servono per l’adattamento che nei paesi più poveri è – e sarà – più che mai necessario.

Mitigazione ancora in secondo piano

Per contro, rispetto a un tema così importante, poco si è fatto e detto sulla mitigazione. Ed è per questo che servono in fondo le Cop: per raggiungere un accordo tra paesi sulla riduzione delle emissioni di gas serra. Di concreto ed effettivo, dopo Kyoto e Parigi, non è successo più nulla. Il meccanismo di Parigi, dove l’intesa è stata possibile perché nasceva “dal basso”, si sta rivelando a dir poco complesso, incentivando la dispersione in mille aspetti, tecnici e meno tecnici. In realtà, i paesi dovrebbero sedersi a un tavolo, per il tempo necessario, e stabilire di quanto ciascuno si impegna a ridurre le proprie emissioni domestiche, avendo chiaro quanto ciò significa per il clima globale. Sarebbe utile anche un sistema di incentivi e disincentivi, che dia benefici netti a chi partecipa all’accordo e penalizzazioni per i “free riders”.

Certo, è più facile a dirsi che a farsi. Prima di tutto bisognerebbe restringere il tavolo – limitatamente alla mitigazione – a pochi attori, per esempio i primi dieci grandi emettitori assoluti o addirittura i primi quattro. Nell’ambito del G20 si potrebbe istituire un E10 o un E4 (dove “E” indica le “Emissioni”). Di E4 potrebbero far parte Cina, Stati Uniti, India e Unione europea (i primi quattro emettitori), mentre all’E10 potrebbero partecipare Cina, Stati Uniti, India e Unione europea, Russia, Giappone, Brasile, Indonesia, Iran e Canada (tutti nel G20, tranne l’Iran). Così si semplificherebbero le trattative, ma sarebbe necessaria un’altra condizione: un clima di collaborazione, pur partendo da interessi diversi o contrapposti.

L’ombra di Trump

Da questo punto di vista, la Cop29 è nata male. Le presidenziali americane hanno sotterraneamente condizionato la Conferenza, dando forza agli emuli di Donald Trump, come il presidente argentino, a chi sulle fonti fossili campa, come il presidente dell’Azerbaijan, e ai negoziatori sauditi, che con i loro veti sono riusciti a eliminare ogni riferimento a quelle fonti energetiche. Si è trattato di un vero passo indietro rispetto a Cop28 e al “transitioning away” dal fossile. Verrebbe da dire che ci siamo “allontanati” dall’“allontanamento dal fossile”. La spinta che si era vista a Glasgow verso il “Net Zero Emissions” sembra ormai lontana, anche perché si è capito che il target nel 2050 non verrà raggiunto.

Il contesto internazionale, poi, non favorisce accordi su una tematica che è percepita ancora lontana – benché sia tremendamente vicina come gli eventi estremi e le anomalie climatiche continuano a ricordarci – rispetto ai timori per i conflitti attuali e per quelli potenziali, con le conseguenti preoccupazioni per la sicurezza, la dipendenza energetica ed economica, la de-industrializzazione, i limiti al commercio, i dazi. Né ha giovato che in contemporanea a un summit globale sul clima si svolgesse un G20 dedicato appunto ai temi ritenuti più urgenti, con molti osservatori che giravano la testa un po’ verso Baku e un po’ verso Rio. In questo quadro, l’Unione europea ha perso parte della sua forza, anche perché il Green Deal non c’è più e il nuovo Deal non si sa ancora come sarà. L’Europa è rimasta sola a trattare con i paesi in via di sviluppo, mentre la Cina – che è destinata ad acquisire forza in virtù dell’annunciata assenza degli Usa dal tavolo del negoziato – ha continuato a fare il pesce in barile durante il meeting. Intanto. è stato annunciato che le emissioni cumulate cinesi hanno raggiunto quelle europee: è successo in una manciata d’anni contro le decine e decine necessarie all’Europa. È un dato impressionante, che dovrebbe sollecitare la coscienza dei leader globali, visto che dietro la Cina già si affaccia l’India.

Dov’è la volontà politica?

In conclusione, il problema non sono le Cop ma, come si usava dire una volta, la volontà politica. Anche questa, però, per tradursi in decisioni operative deve servirsi di meccanismi efficaci e le Cop non sembrano più essere all’altezza del compito. L’architettura va rivista radicalmente: più lavoro preparatorio prima e più focus sul testo del negoziato durante. Val la pena a questo proposito citare un personaggio sicuramente al di sopra di ogni sospetto, anche per essersi meritato un premio Nobel per quanto fatto, Al Gore: “Sebbene l’accordo raggiunto alla Cop29 eviti un fallimento immediato, è ben lungi dall’essere un successo. Su questioni chiave come la finanza per il clima e la transizione dai combustibili fossili, questo è — ancora una volta — il minimo indispensabile. Non possiamo continuare a fare affidamento su mezze misure dell’ultimo minuto. I leader di oggi si sottraggono alle proprie responsabilità concentrandosi su obiettivi ambiziosi a lungo termine che si estendono ben oltre i loro mandati. Per affrontare la sfida del nostro tempo, abbiamo bisogno di azioni concrete su scala di mesi e anni, non di decenni e quarti di secolo”.

Figura 2 – Consumi di energia primaria

Fonte: Enerdata – World Energy & Climate Statistics Yearbook 2024

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