Dopo la riforma Fornero è calata la probabilità di reimpiego e se si è riassunti la perdita di salario è più forte. Non ne hanno risentito solo i precari, ma tutti i lavoratori. Invece di diminuire, le disuguaglianze nel mercato del lavoro sono aumentate.
Cosa è cambiato con la riforma Fornero
Perdere il lavoro è sempre doloroso. Ma quanto costa davvero, in termini di reddito perso e difficoltà di reinserimento? E, soprattutto, cosa succede quando cambiano le regole che tutelano i lavoratori?
Nel 2012, nel pieno della crisi del debito sovrano, il governo italiano approvò la riforma Fornero con l’obiettivo di rendere il mercato del lavoro più dinamico e di ridurre la dualità tra lavoratori “protetti” e precari. Un mercato del lavoro è definito duale quando è diviso tra lavoratori con contratti stabili e tutelati (tipicamente a tempo indeterminato) e lavoratori esterni, spesso giovani o precari, che si muovono tra contratti temporanei o discontinui.
Una delle modifiche più significative introdotte dalla riforma fu la limitazione del diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, sostituito in molti casi da un indennizzo economico. A oltre dieci anni di distanza, possiamo valutare quali effetti abbia avuto la riforma non solo sui lavoratori licenziati, ma più in generale su tutti coloro che hanno perso un impiego.
In un nostro studio analizziamo infatti come sia cambiato il costo della perdita del lavoro dopo l’introduzione della riforma Fornero. Ci chiediamo, in particolare, se l’effetto riguardi solo i lavoratori licenziati e se le nuove regole abbiano effettivamente ridotto la dualità nel mercato del lavoro.
Numerose ricerche mostrano che le riforme della protezione dell’impiego possono incidere in modo significativo sul costo della perdita del lavoro. Nei paesi con sistemi di welfare meno generosi, come l’Italia, tende a essere più elevato. Tuttavia, uno degli obiettivi della legge Fornero era quello di rendere i contratti a tempo indeterminato più accessibili, contribuendo così a una minore segmentazione del mercato.
I dati e l’approccio empirico
Per rispondere alle nostre domande, utilizziamo i dati delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, che tracciano l’intera storia contrattuale dei lavoratori. Consideriamo tutte le cessazioni di rapporti di lavoro, indipendentemente dalla causa: licenziamenti individuali o collettivi, fine di un contratto a termine, dimissioni o altri motivi, in imprese di ogni dimensione. Sono esclusi i lavoratori in età pensionabile.
Selezioniamo individui di cui possiamo tracciare il percorso occupazionale per 47 mesi: 13 mesi prima e 33 mesi dopo la perdita del lavoro. Il mese in cui si verifica la separazione assegna ciascun individuo a una specifica coorte.
Utilizziamo un approccio difference-in-differences per confrontare la traiettoria successiva alla perdita del lavoro rispetto al mese precedente (prima differenza) della coorte che perde il lavoro rispetto alla coorte immediatamente successiva che non lo ha ancora perso (seconda differenza). Con questa seconda differenza eliminiamo gli effetti di altre politiche attuate dal governo nel periodo considerato. Applichiamo la procedura separatamente per gruppi formati da coorti che perdono il lavoro prima della riforma tra luglio 2010 e giugno 2011 (gruppo di controllo) e coorti di lavoratori che lo perdono tra luglio 2012 e giugno 2013 (gruppo trattato). In questo modo otteniamo una misura dell’effetto del costo della perdita di lavoro separato per i due gruppi che presentano caratteristiche osservabili simili, come età, genere e altri fattori. Isoliamo l’effetto della riforma calcolando la differenza del costo della perdita del lavoro tra il gruppo trattato e quello di controllo.
La perdita del lavoro è diventata più costosa
I nostri dati non includono il salario mensile, ma solo la retribuzione del primo mese del nuovo contratto e come tale va considerato quando parliamo di salario. Consideriamo l’evoluzione nel tempo – misurato in mesi dall’evento della perdita del lavoro – del salario, della probabilità di occupazione e della probabilità di occupazione con contratto a tempo indeterminato.
Ecco i risultati principali dell’analisi. A dodici mesi dalla perdita del lavoro, i lavoratori che hanno perso l’impiego dopo la riforma guadagnano in media 222 euro in meno rispetto al lavoro precedente. Per chi ha perso il lavoro prima della riforma, la perdita salariale è di 78 euro. La riforma ha dunque aumentato il costo di circa il 15 per cento del salario precedente, accompagnato da una riduzione di 7 punti percentuali nella probabilità di reimpiego (41 per cento per i lavoratori post-riforma contro 48 per cento per quelli pre-riforma). Non si osservano effetti statisticamente significativi sulla probabilità di reimpiego con un contratto a tempo indeterminato. Dopo 33 mesi, la perdita salariale è pari al 4 per cento, ovvero 137 euro nel gruppo post-riforma contro 99 euro per il gruppo di controllo. La probabilità di essere occupati è più bassa di un punto percentuale per i lavoratori del gruppo trattato (37 contro 38 per cento).
Solo i lavoratori del gruppo trattato sono esposti anche al Jobs Act e agli incentivi per l’assunzione con contratti a tempo indeterminato a partire da 21 mesi dopo la perdita del lavoro. Ciò ha aumentato la probabilità di ottenere un contratto stabile, ma non ha compensato completamente il costo della perdita iniziale in termini di probabilità di occupazione. La persistenza dell’effetto rende improbabile che l’introduzione dell’Aspi, che copriva solo dodici mesi, abbia determinato i nostri risultati.
Figura 1 – Effetto dinamico della riforma Fornero su salario, probabilità di occupazione e probabilità di occupazione con contratto permanente
Questi effetti non si limitano ai licenziati, ma riguardano anche chi ha perso il lavoro per altre ragioni.
Una flessibilità che ha aumentato le disuguaglianze
I più colpiti sono giovani, lavoratori del Mezzogiorno, lavoratori full-time e chi è rimasto nello stesso settore dopo il licenziamento. La riforma ha finito per amplificare le disuguaglianze esistenti, livellando verso il basso le condizioni dei lavoratori “protetti”. Con minori vincoli di reintegro, le imprese hanno potuto licenziare con maggiore facilità. Tuttavia, questo ha alimentato l’aspettativa di una produttività media più bassa tra i lavoratori riassunti, con effetti negativi su retribuzioni e condizioni contrattuali. Rendere più facili i licenziamenti non basta a ridurre la dualità del mercato del lavoro. Servono politiche attive, sostegno alla ricollocazione e una rete formale di protezione economica per evitare che i costi della flessibilità ricadano solo sui lavoratori più vulnerabili.
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Vittorio Zandomeneghi
Ottima analisi, tuttavia non mi pare ci siano effetti così polarizzati tra prima e dopo.
Giorgio
Interessante analisi che dimostra come in Italia il superamento dei dualismi si esprima con togliere a chi a poco di più per schiacciare tutti nel poco e basta. Per dirla con una battuta: perché distribuire la ricchezza che è poca quando si può distribuire la povertà che è tanta?