La transizione digitale richiede un nuovo patto sociale, in cui le persone possano esercitare responsabilità, creatività e autonomia. Con l’affermarsi del “lavoro personale” servono forme contrattuali capaci di dare tutele e ridurre le disuguaglianze.

Lavoratori né subordinati né autonomi

La rivoluzione digitale dissolve i confini tradizionali tra lavoro subordinato e autonomo, generando una costellazione di forme ibride che sfuggono alle categorie del diritto del lavoro novecentesco. In un contesto in cui l’intelligenza artificiale generativa (GenAI) trasforma l’organizzazione della produzione, la figura del lavoratore cambia radicalmente: non più solo un esecutore di compiti sotto la direzione di un datore, ma sempre più un soggetto attivo, autonomo nelle modalità operative ma vincolato a obiettivi e risultati fissati dalle piattaforme, dalle imprese digitali o dal management algoritmico, un sistema di gestione del lavoro basato su algoritmi che organizza, assegna, monitora e valuta le attività dei lavoratori in modo automatizzato, sostituendo funzioni manageriali tradizionali attraverso dati, metriche e istruzioni digitali. 

Queste nuove modalità organizzative non sono riconducibili né al modello classico dell’autonomia professionale, né a quello della subordinazione tradizionale. Emergono figure di lavoratori che operano come “artigiani associati”, ma senza potere contrattuale, senza capitali propri, senza i margini di libertà di un vero imprenditore. 

La GenAI, accelerando l’automazione di task ripetitivi e digitali, accentua ulteriormente questa transizione: il valore economico si sposta verso le capacità umane ricercate dalla macchina – creatività, problem-solving, gestione delle relazioni – ma non tutti i lavoratori sono messi nelle condizioni di integrarsi nel nuovo paradigma. Il rischio è l’ampliamento delle disuguaglianze e la frammentazione del lavoro. 

La nuova categoria del “lavoro personale”

In questo scenario, la struttura delle imprese digitali muta profondamente: le carriere non seguono più la linearità dell’anzianità, ma si sviluppano su base progettuale, attraverso performance discontinue e l’accumulo di competenze trasversali. I manager diventano facilitatori di strumenti, incentivi e benessere psicosociale, più che controllori di tempi e attività. Il management definisce principi generali e obiettivi coerenti, lasciando ai team autonomia nella scelta di strumenti e collaboratori. Ad esempio, le piattaforme di collaborazione devono garantire coordinamento asincrono e produzione di report integrabili nei sistemi aziendali e utili all’addestramento dell’AI. All’interno di questi vincoli, i team possono adottare gli strumenti più adatti. Analogamente, la composizione dei gruppi di lavoro può avvenire in modo autonomo, ma sulla base di criteri comuni stabiliti a livello centrale. Gli spazi di lavoro si smaterializzano, mentre i ruoli assumono carattere ibrido: operativi e strategici insieme, con una forte attenzione al cliente interno ed esterno. 

Questa trasformazione strutturale si scontra però con un sistema regolativo ancora fortemente ancorato a logiche categoriali. La subordinazione, definita dal controllo su tempi e modalità di lavoro, appare sempre meno adeguata. La promessa implicita che ha sostenuto il compromesso sociale fordista – «tu ti assoggetti oggi e io ti prometto che domani avrai un lavoro e una casa» – non opera più efficacemente nelle economie occidentali. Le nuove generazioni non trovano più credibile lo scambio tra obbedienza e sicurezza, mentre il mercato del lavoro si frammenta in impieghi discontinui, precari e digitalmente intermediati. 

Ripensare il quadro normativo

È urgente, quindi, ripensare il quadro normativo e introdurre nuove categorie. In questo senso, una proposta innovativa e ancora attualissima arriva dal Rapporto Supiot del 1999, che introduceva un concetto interpretabile come “lavoro personale”, come chiave per superare la storica dicotomia tra autonomia e subordinazione. 

Per “lavoro personale” si intende ogni attività lavorativa svolta in prima persona, con impegno diretto e responsabilità individuale, ma senza le caratteristiche tipiche dell’imprenditorialità (autonomia economica, rischio d’impresa, libertà organizzativa piena, piena autonomia oraria). 

È una categoria giuridica che propone di garantire diritti fondamentali a tutti i lavoratori. Alain Supiot indicava in tal senso un sistema di tutele a cerchi concentrici: un nucleo centrale di diritti universali – come previdenza, sicurezza, formazione continua – esteso a chiunque eserciti “lavoro personale”; cerchi esterni di protezioni aggiuntive, graduati in base alla maggiore o minore dipendenza, durata, continuità del rapporto.

Un modello di questo tipo consentirebbe di estendere protezioni tipiche del lavoro subordinato a forme ibride oggi escluse da qualsiasi tutela, come i lavoratori delle piattaforme digitali, gli autonomi non imprenditoriali, i collaboratori con un solo committente o quelli in regime di multidatorialità.

La transizione digitale richiede nuovi modelli contrattuali superando le forme tradizionali della flexsecurity, capaci di coniugare autonomia e stabilità: contratti “binari” o misti, che combinino disciplina subordinata (per garantire protezioni essenziali) e autonomia operativa (per favorire l’innovazione, la multidatorialità e diminuire i fenomeni di mismatching nel mercato del lavoro); meccanismi retributivi misti, con una componente base garantita – slegata da ore o presenza – e una variabile legata agli obiettivi; welfare mobile, che accompagni alcune tipologie di lavoratori nei passaggi tra diverse attività e diversi datori di lavoro entro tempistiche accelerate (multidatorialità ), garantendo sempre copertura previdenziale, assicurativa e formativa.

Uniformare, per tutte le diverse articolazioni del mercato del lavoro – materiali e digitali – gli status contrattuali preesistenti, tipici dei modelli categoriali fordisti, o al contrario abbandonarsi a logiche di deregolamentazione estrema, rischia di generare esclusione e marginalizzazione.

La chiave sta in un nuovo disegno di umanizzazione della tecnologia algoritmica, rinnovando uno storico compito del diritto del lavoro: rendere conciliabile con diritti e tutele della persona ogni nuova tecnologia applicata storicamente alla produzione capitalistica, costruendo un patto sociale in cui le persone siano messe nelle condizioni di esercitare responsabilità, creatività e autonomia. 

Il concetto di “lavoro personale” può offrire la base per rinnovati contratti di lavoro, capace di estendere gli status legati alla professione: dal freelance, al lavoratore delle piattaforme, dall’ibrido, all’autonomo, al dipendente atipico. Se l’economia digitale vuole essere motore di inclusione, e non di precarizzazione, è da qui che bisogna ripartire. Il rischio sarebbe quello di perdere il legame tra lavoro e diritti di cittadinanza, e indirettamente relegare il lavoro a una perdita di centralità nella civitas sociale. 

Nel recente lavoro di Daron Acemoglu, che valuta l’impatto macroeconomico dell’IA in termini di produttività e distribuzione del reddito, si stima un aumento della produttività totale dei fattori limitato (non oltre lo 0,71 per cento in dieci anni), evidenziando come l’intelligenza artificiale, se non accompagnata da una ridefinizione dei modelli regolativi del mercato del lavoro, rischia di ampliare le disuguaglianze e il divario tra redditi da capitale e da lavoro. Un modello basato sull’impresa digitale e il lavoro personale, supportato da piattaforme adeguate e buona governance, può uniformare le tutele, stimolare investimenti collettivi, sviluppare competenze, ridurre le disuguaglianze e aumentare la produttività.

* Le opinioni espresse non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza.

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